
La cittadella di Aleppo - A.Lazzaroni
Storie personali, destini ed equilibri geopolitici: la Turchia ha seguito con particolare attenzione la caduta del regime di Assad in Siria, a cui ha contribuito. Il nostro corrispondente a Istanbul ha raccolto frammenti e spunti degli eventi che hanno segnato la fine di un'epoca
Istanbul, 30 novembre 2024
In mattinata le forze d'opposizione siriane riunitesi attorno a Hayat Tahrir al-Sham (HTS) sono entrate a sorpresa ad Aleppo.
Nei giorni successivi sarà il turno di Hama, Homs, della capitale Damasco e infine di tutto il paese, escluse le aree sotto il controllo delle Forze Democratiche Siriane (SDF) a guida curda. In poco meno di due settimane quel che rimaneva del regime si è sgretolato.
"La Russia non interverrà questa volta? E l'Iran, perché non reagisce?" mi chiede incredula Betül mentre attendiamo che si liberi un tavolo. È una bella giornata di sole, una delle ultime in cui si può pranzare all'aperto, prima che inizi l'inverno.
Il locale è affollato, evidentemente non siamo stati gli unici ad aver pensato di approfittarne. Con Betül, una cara amica siriana, abbiamo raggiunto un ristorante nei pressi di Anadolu Hisarı, fortezza costruita sulla riva asiatica del Bosforo.
Betül è originaria di Daraa, la città simbolo della rivoluzione, la città di Hamza Ali Al-Khateeb, un giovane ragazzo arrestato e torturato per aver partecipato a una delle prime manifestazioni di protesta contro il regime. La sua morte scosse l'opinione pubblica nel mondo arabo e galvanizzò il movimento di opposizione siriano.
Betül è arrivata in Turchia prima che cominciasse la guerra civile per motivi di studio. Si è laureata in matematica ma è finita a lavorare per un'organizzazione non governativa, nel frattempo è riuscita a ottenere la cittadinanza turca, un privilegio toccato a poco più di 200mila siriani.
Il padre, ingegnere in pensione, è rimasto solo dopo la morte della madre. Il fratello maggiore vive in Germania, quello minore in Turchia, entrambi fuggiti per evitare la chiamata alle armi.
"Attendiamo con ansia" mi risponde quando le chiedo come vanno le cose laggiù, "spero solo la situazione non degeneri" aggiunge.
Non è sicura di voler tornare nel paese nel caso si stabilizzasse, ma "a parità di stipendio sarei davvero tentata" mi dice. “Ma solo a Damasco”, poi aggiunge, visto che la provincia le starebbe stretta dopo anni passati a vivere in una megalopoli.
Per lei e per tutti i siriani si è aperta inaspettatamente la possibilità di un ritorno.
Istanbul, 8 dicembre 2024
Nelle prime ore del mattino il presidente siriano Bashar al-Assad sale su un volo privato che dall'aeroporto di Latakia lo porterà a Mosca, dove lo attendono la moglie Asma e i tre figli.
La notizia fa immediatamente il giro del mondo, il regime baathista cessa di esistere dopo 61 anni, di cui 53 passati sotto il giogo degli Assad.
L'esplosione di gioia non tarda ad arrivare a Istanbul. I siriani si riversano a migliaia nelle strade e nelle piazze dei distretti in cui rappresentano una consistente percentuale della popolazione.
Quelli che vivono nella penisola storica si radunano nella piazza antistante alla Moschea di Fatih o in Piazza Taksim. Altri nelle strade del distretto operaio di Esenyurt, nell'estrema periferia della parte europea della città.
Canti, urla e preghiere, auto che suonano il clacson e vassoi di dolci che vengono distribuiti: l'entusiasmo è alle stelle e le forze di polizia turche chiudono un occhio in quest'occasione.
Le immagini più significative arrivano dal balcone del consolato siriano in pieno centro a Istanbul, nel quartiere bene di Nişantaşı, dove tre uomini vengono filmati mentre si affaccendano intorno all'asta che sorregge la vecchia bandiera.
Al di sotto una folla festante attende il momento clou, che arriva dopo pochi minuti, quando al suo posto viene issato il nuovo vessillo nazionale, il tricolore verde-bianco-nero, a tre stelle rosse.
I siriani in Turchia
Secondo il rapporto presentato il 24 dicembre dal ministro degli Interni Ali Yerlikaya nel paese vivono 4.164.472 siriani: 2.920.199 sotto protezione temporanea, 1.047.921 in possesso di regolare permesso di soggiorno o di lavoro, mentre i restanti 196.432 godono di protezione internazionale.
Con circa mezzo milione di residenti è Istanbul la provincia che ospita più siriani, seguita a ruota da Gaziantep, Şanlıurfa, Hatay e Adana.
La protezione temporanea è una soluzione ibrida che il governo turco ha ideato per concedere alcuni diritti fondamentali ai rifugiati siriani, come l'accesso all'istruzione e all'assistenza sanitaria, senza però offrire un percorso per ottenere la cittadinanza.
Il diritto al lavoro è formalmente garantito ma l'assenza di controlli e le lungaggini burocratiche per ottenere un permesso apposito spingono i siriani meno qualificati a lavorare in nero, soprattutto nel settore edile, tessile e dell'agricoltura.
I siriani in possesso di una laurea faticano a ottenere l'equivalenza del titolo di studio, finendo quindi per trovare occupazione nel settore terziario. A completare un quadro di per sé negativo è la scarsa occupazione femminile e il diffuso lavoro minorile.
Le autorità hanno inoltre la facoltà di limitare la libertà di movimento. Per cercare lavoro o trasferirsi in una provincia diversa da quella assegnata può essere necessaria un'autorizzazione da parte della questura.
Va meglio ai siriani che hanno spostato in toto patrimonio e attività, su tutti chi opera nel settore della ristorazione. Famosa è la catena di pasticcerie Salloura, un'istituzione in Siria. La famiglia che controlla l'azienda si è trasferita nel 2014 in Turchia, aprendo più sedi nel paese e modificando il proprio cognome (ora Sallouraoğlu) per renderlo più turco.
Una nuova era
"La Siria ha veramente bisogno di tutto". Così ha dichiarato recentemente in un'intervista Abdulkadir Uraloğlu, il ministro dei Trasporti e delle Infrastrutture. La Turchia è in prima linea a guidare gli sforzi di ricostruzione nel paese.
L'aeroporto internazionale di Damasco è già stato riaperto grazie all’invio di una delegazione tecnica turca, quello di Aleppo lo sarà a breve. Uraloğlu ha inoltre sottolineato la necessità di rendere completamente agibili le due principali vie di comunicazione; la M5 che corre da sud a nord e la M4 che dalla costa si spinge fino al confine iracheno.
In virtù di un credito politico da spendere presso il nuovo governo transitorio siriano la Turchia spera di ottenere un trattamento preferenziale sulla concorrenza. Dalle parole del ministro si può delineare la strategia di Ankara, che punta a collaborare con le autorità siriane nella gestione dei giacimenti di petrolio nel nord-est del paese, attualmente sotto il controllo americano.
Fondamentale per la Turchia anche l'ammodernamento dei porti di Latakia a Tartus, per avere un ulteriore sbocco sul Mediterraneo orientale, dove sono previste attività perforative alla ricerca di giacimenti di gas.
Infine il ripristino della malmessa rete ferroviaria, le cui basi sono state poste proprio durante il periodo ottomano, come la famosa linea dell'Hejaz che collegava Damasco a Medina, costruita sotto gli auspici del sultano Abdul Hamid II.
La scommessa siriana ha pagato in extremis, proprio quando il governo turco stava considerando un clamoroso retromarcia. Erdoğan nei mesi scorsi aveva infatti invitato Bashar al-Assad, riabilitato ormai dalla Lega Araba, a ristabilire le relazioni diplomatiche e di buon vicinato tra i due paesi, con Vladimir Putin a fungere da mediatore.
Il destino ha però voluto diversamente e il 4 febbraio scorso al palazzo presidenziale di Ankara è stato invece accolto Ahmet al-Sharaa, il nuovo leader della Repubblica Araba di Siria, conosciuto in precedenza con il nome di guerra Al-Jolani.
Così come si augurò nel 2012 agli albori della guerra civile Erdoğan potrà finalmente visitare la tomba di Saladino e pregare nella Moschea degli Omayyadi a Damasco, ricongiungendo simbolicamente dopo più di un secolo Turchia e Siria.
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