Sempre più pesante il bilancio degli scontri tra forze di sicurezza turche e PKK nel sud-est della Turchia. Il governo spinge per la linea dura, la popolazione locale è costretta alla fuga dalle zone urbane
Coprifuoco. Esodo. Scontri armati. Fossati. Morti. È uno scenario di guerra quello cui si assiste da diverse settimane nelle province sudorientali a maggioranza curda in Turchia.
La pratica di dichiarare il coprifuoco da parte delle autorità, come risposta alle trincee e alla resistenza armata del Movimento patriota rivoluzionario giovanile (YDG-H, un’affiliazione del PKK formato essenzialmente da ventenni residenti nelle città in questione) nonché alle dichiarazioni di autogoverno, ha interessato ad oggi oltre 20 circoscrizioni in sette province, in particolare a Diyarbakır, Mardin, Şırnak, Hakkâri, Elazığ, Muş e Batman.
Un dato variabile e che pare destinato a crescere, dal momento che solo nella giornata di lunedì 21 dicembre, la misura è stata estesa in 11 nuovi quartieri della circoscrizione di Nusaybin. In quest’ultima località, situata nella provincia di Mardin, la popolazione locale è stata fino ad oggi costretta in casa per almeno 35 giorni.
Nel capoluogo di Diyarbakır si sono verificati 110 giorni di coprifuoco. Tra le circoscrizioni interessate, il centro storico della città, Sur (che prende il nome dall’antica muraglia che lo circonda) è rimasto inaccessibile per un totale di 28 giorni, intervallati da 17 ore di pausa che hanno permesso a numerosi abitanti di migrare altrove. Mentre il portale Bianet riporta che la pratica del coprifuoco è stata attuata per almeno 196 giorni nelle province interessate, la Fondazione turca per i diritti umani (Türkiye İnsan Hakları Vakfı, TİHV ) riferisce che le persone rimaste coinvolte in questa drammatica situazione risultano essere oltre un milione e 300mila.
Scontri armati
Domenica 13 dicembre, dopo un messaggio inviato dal ministero dell’Istruzione sui cellulari degli insegnanti in servizio nelle scuole statali di Cizre e Silopi (provincia di Şırnak), tremila docenti hanno abbandonato la zona, le scuole sono state chiuse fino a data da destinarsi e il personale sanitario degli ospedali obbligato con una circolare ad effettuare dei turni di una settimana. Misure interpretate come segnali di un intervento delle forze di sicurezza che non si è fatto attendere: nella notte del 16 dicembre le autorità hanno dato il via ad un’operazione congiunta dell’esercito e delle forze dell’ordine in cui sono stati inviati sul campo 10mila militari, scortati da numerosi carri armati.
E mentre a Şırnak, Mardin e Diyarbakır gli scontri non accennano a smettere, ogni ora continuano ad arrivare notizie di nuove morti. In una situazione di estrema pressione sui media, dove risulta sempre più difficile reperire informazioni imparziali, resta solo la certezza del numero dei funerali. Secondo i dati raccolti dall’Associazione per i diritti umani (İHD) e dalla TİHV, nei primi 11 mesi del 2015 hanno perso la vita 523 persone negli scontri: 171 tra militari, guardiani di villaggio e forze dell’ordine; 195 militanti curdi, 157 civili. Almeno 44 bambini sono stati uccisi negli ultimi 5 mesi, almeno 52 quelli rimasti feriti.
Conflitto e zone urbane
Le operazioni avviate dal governo nel Sudest, segnano una nuova fase negli scontri in atto da cinque mesi tra l’esercito turco e il PKK, dopo due anni e mezzo di tregua interrotta a luglio da ambo le parti. I combattimenti tra il PKK (Partito dei lavoratori del Kurdistan, ritenuto un’organizzazione terroristica da Turchia, UE e USA) e l’esercito turco, negli ultimi 30 anni hanno causato circa 40mila morti. Ora, però, a essere coinvolti nel conflitto armato sono direttamente i centri urbani.
E se negli anni ’90 la popolazione di origine curda era rimasta costretta ad abbandonare i propri villaggi a causa del conflitto, ora sono le città a spopolarsi. Al momento risultano duecentomila le persone che hanno dovuto abbandonare le proprie case, spostandosi in località limitrofe. Centinaia di attività commerciali e negozi sono falliti. Numerosi monumenti storici, soprattutto nel centro di Diyarbakır, sono stati pesantemente danneggiati. Tra questi anche l’antico minareto a quattro pilastri, ai piedi del quale è stato ucciso l’avvocato per i diritti umani Tahir Elçi, proprio mentre leggeva un comunicato in cui denunciava “l’attentato” compiuto contro il celebre minareto – deturpato da colpi di mitragliatrice – e gli altri edifici storici della città.
Linea dura
Ma la scelta del dialogo nella questione curda non sembra rientrare nell’agenda politica del governo. Il premier Ahmet Davutoğlu ha assicurato che “tutte le circoscrizioni verranno ripulite dagli elementi terroristici”, mentre il capo di Stato Recep Tayyip Erdoğan ha detto che “l’organizzazione terroristica [il PKK] verrà sepolta nelle proprie trincee”. Nella settimana scorsa il ministro dell’Interno Efkan Ala ha comunicato all’Agenzia semi-statale Anadolu che le autorità hanno sequestrato ai militanti oltre 2mila armi da fuoco, 10 tonnellate di esplosivo e 10mila Molotov.
“Se è sbagliato aver scavato delle trincee [riferendosi ai simpatizzanti del PKK] è sbagliato anche il modo in cui queste vogliono essere chiuse”, ritiene Nuşirevan Elçi, presidente dell’ordine degli avvocati di Şırnak e portavoce delle camere degli avvocati delle regioni orientali e sudorientali. “La popolazione locale prenderà la parte dei propri giovani in ultima istanza, e se dunque si insisterà su questa linea sarà come se si fosse fatta una dichiarazione di guerra contro il proprio popolo”, aggiunge Elçi.
Il co-leader del partito filo-curdo Selahattin Demirtaş, durante una recente conferenza stampa, ha invece invitato la popolazione curda ad estendere “l’onorevole resistenza”, aggiungendo che “il fascismo non può essere fatto retrocedere con le suppliche, ma solo con la resistenza. (…) Tornare indietro non farebbe giustizia a questo periodo storico (…) noi vogliamo solo vivere nelle nostre terre come con onore e libertà, è un nostro diritto”. Demirtaş ha criticato anche le misure del governo affermando che “conducendo un’operazione con un dispiegamento così ampio di forze, bombardando le città, inviando i soldati contro la popolazione dimostri solo quanto in verità sei disperato”.
Mentre i giuristi lanciano un grido d’allarme per la sospensione dei diritti umani, “abbandonati a favore di un codice di sicurezza”, come afferma ad esempio l’esperto di diritto Fikret İlkiz, continuano anche gli arresti di presunti membri terroristici, inclusi 24 giornalisti. Le autorità hanno anche deciso di far togliere dal commercio diversi libri (tra cui tre appartenenti ai giornalisti Hasan Cemal, Tuğçe Tatari) sulla questione curda, scritti durante il processo di pace e alla loro ennesima ristampa, perché rinvenuti nelle case di alcuni presunti membri terroristi. Libri scritti per contribuire a quel dialogo di pace sulla questione curda, che oramai sembra molto lontano.
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