Dyarbakir (flickr/William John Gauthier)

 

L'omicidio dell'avvocato e attivista non violento Tahir Elçi è l'ennesima, sanguinosa lacerazione in un'area che da mesi vive in uno stato di guerra civile

02/12/2015 -  Dimitri Bettoni

Elçi, presidente dell'associazione degli avvocati di Diyarbakir e figura molto nota nel movimento politico curdo, è stato ucciso il 28 novembre scorso in un agguato avvenuto subito dopo una conferenza pubblica tenuta nel cuore della città, durante la quale aveva rinnovato la sua richiesta per un'immediata cessazione di ogni operazione armata nella regione. Con lui uccisi anche due agenti di polizia. Oltre 50.000 persone hanno partecipato al suo funerale, a testimonianza della grande popolarità di cui godeva.

Le autorità hanno ipotizzato che Elçi sia rimasto vittima del fuoco incrociato tra la polizia ed ignoti, o addirittura che una “terza componente” possa aver preso di mira l'avvocato approfittando della confusione. Le indagini stentano ad avviarsi e la scena del crimine, a distanza di quattro giorni, non è stata messa in sicurezza, complici anche i continui conflitti a fuoco che si ripetono nella zona e il coprifuoco locale che avrebbe ritardato l'accesso all'area da parte della polizia. Il ministro della Giustizia Bekir Bozdağ ha dichiarato che il bossolo del proiettile che avrebbe ucciso Elçi sarebbe stato identificato tra i 43 reperti raccolti, mentre altri 40 reperti sarebbero stati abbandonati sulla scena del crimine senza essere raccolti. Naci Sapan, esponente del partito repubblicano, ha dichiarato che nella zona “ci sono bambini che giocano con i reperti utili alle indagini”. Man mano che passano i giorni, diventa sempre più improbabile riuscire a ricavare dalla scena indizi utili ad identificare i colpevoli.

Elçi era recentemente entrato nell'occhio del ciclone per un'intervista rilasciata alla CNN turca, nel corso della quale gli era stato insistentemente chiesto di prendere una posizione nei confronti del PKK, il partito dei lavoratori curdi, considerato fuorilegge e organizzazione terroristica dalla Turchia e dalla UE. L'avvocato aveva definito il PKK un'organizzazione armata con chiari scopi politici e che gode di ampio sostegno locale, seppur ricorra a metodi che sconfinano nel terrorismo. Per questa intervista la CNN è stata multata dall'autorità governativa per le telecomunicazioni con un'ammenda di 70.000 lire turche, circa 22.500 euro. Per non aver dichiarato che il PKK era un'organizzazione terroristica, Elçi era invece stato arrestato il 20 ottobre scorso ed aveva atteso pacificamente nel suo ufficio che la polizia venisse a prelevarlo per condurlo ad Istanbul. Soltanto poche ore prima, ai microfoni di Radio Radicale, aveva affermato: “Vogliono incarcerarmi per un reato di opinione, un sopruso contrario sia alla costituzione turca sia ad ogni normativa internazionale. Il vero motivo sono le elezioni in arrivo (del primo novembre, ndA) e questo arresto è una decisione politica.”. Prima di essere ucciso, Elçi era in attesa di giudizio e sul suo capo pendeva l'accusa di propaganda terroristica.

Il presidente degli avvocati di Diyarbakir era famoso anche per un altro caso, quello dei due giornalisti di Vice News Jake Hanrahan e Philip Pendlebury e del loro interprete iracheno Mohammed Rasool, arrestati il 27 agosto scorso per aver filmato gli scontri tra PKK ed esercito turco. Mentre i due giornalisti sono stati in seguito rilasciati, Rasool dopo quattro mesi si trova ancora in carcere, in attesa che venga fissata un'udienza. Elçi era il loro avvocato.

Il clima incendiario

Il partito HDP ha richiesto un'indagine parlamentare sostenendo che, per modalità e per il clima di soffocante persecuzione costruito attorno ad Elçi, il suo omicidio ne ricorda un altro altrettanto tragico, quello al giornalista armeno Hrant Dink, assassinato nel 2007 dopo mesi di linciaggio mediatico e minacce di morte.

Mentre le indagini brancolano colpevolmente nel buio, sui media e social media e per molti politici i responsabili sembrano già evidenti. La stampa filogovernativa ha da subito accusato il PKK di aver orchestrato l'agguato. Per la comunità curda invece, quello di Elçi è l'ennesimo, evidente omicidio di stato. Ahmet Elçi, il fratello, ha rilasciato un commento al vetriolo: “Mio fratello chiedeva pace, ma conosciamo bene tutti di quali sporchi trucchi è capace lo stato turco.”

Anche l'opinione pubblica si è mobilitata: migliaia di persone hanno marciato ad Amed, come i curdi chiamano Diyarbakir, ad Ankara, Izmir ed Istanbul. In quest'ultima città il corteo è stato immediatamente represso dalle forze di polizia, che lo hanno attaccato con lacrimogeni e idranti urticanti.

C'è grande sfiducia, in un'ampia parte della popolazione, nella capacità e nella volontà delle istituzioni di far chiarezza su un fatto di sangue che va ad aggiungersi a mesi di combattimenti violenti nel sud est della Turchia, quello che i curdi identificano con il Kurdistan del nord.

La guerra civile

E' dallo scorso luglio che gli scontri tra esercito turco ed il PKK stanno sconvolgendo l'area. Dopo il fallimento del processo di pace, il PKK ha avviato una strategia diversa rispetto agli anni precedenti, spostando il teatro bellico dalle montagne alle città e riorganizzandosi tra i giovani attraverso il Movimento Giovanile Rivoluzionario per la Patria (YDG-H).

Sulla scia degli esperimenti autonomisti nella Rojava (la zona sotto controllo curdo in Siria) e assecondando il nuovo impulso teorico del leader imprigionato Ocalan, che ha definitivamente abbandonato l'ideologia marxista e nazionalista in favore del confederalismo democratico, numerosi quartieri del sud est hanno cercato di dichiarare un'autonomia de facto, parziale o totale, dallo stato centrale. Trincee sono state scavate nelle strade e teli stesi tra i palazzi per coprire la linea di tiro dei cecchini.

La reazione dello stato turco, per cui l'indivisibilità della patria è dogma imprescindibile, non si è fatta pregare. In molte città è stato dichiarato il coprifuoco totale, sono state avviate violente operazioni di rastrellamento, durante il quale la popolazione non può uscire di casa nemmeno per acquistare il cibo o recarsi in ospedale, mentre acqua, elettricità e telecomunicazioni vengono tagliate. Cizre, Nusaybin e Sur hanno sopportato simili condizioni di isolamento per giorni, fino anche a due settimane. Girando per le strade, gli edifici sono crivellati da colpi di proiettili e interi distretti sono stati rasi al suolo a colpi di mortaio. Un coprifuoco è stato dichiarato a Diyarbakir anche dopo l'omicidio di Elçi.

Fatto ancor più inquietante, rispetto ai crudi avvenimenti che ricordano quelli dei terribili anni '90, questo nuovo conflitto sembra in grado di trasportare sul posto il peggio della vicina guerra siriana. Se le milizie che orbitano attorno alla galassia del PKK hanno beneficiato del know-how bellico accumulato nella lotta contro l'IS, ad affrontarle, oltre alla polizia e all'esercito turchi, sono state segnalate squadre paramilitari sulla cui origine c'è ancora la più assoluta incertezza, ma sulla cui brutalità le testimonianze ormai si sprecano. Si fanno chiamare Esedullah, i Leoni di Allah, vestono di nero e alternano ai comuni slogan nazionalisti invocazioni a Dio, fatto già di per sé senza precedenti.

Rappresentanti dell'HDP e difensori dei diritti umani hanno espresso la propria costernazione nel raccontare come queste milizie, che operano soltanto all'interno dei distretti sottoposti a coprifuoco, si comportino assai diversamente dalle truppe governative e con un'efferatezza senza paragoni.


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