Alla vigilia dell'insediamento della 24esima legislatura della Turchia moderna, abbiamo chiesto a Dimitar Bechev, analista e ricercatore per l'European Coucil on Foreign Relations, di Sofia, quali saranno le prossime sfide della politica turca
Durante la recente campagna elettorale lei ha scritto che queste consultazioni sarebbero state fondamentali per capire quale modello politico si sta affermando in Turchia. I risultati elettorali hanno fornito una risposta?
Io credo che i timori manifestati dalla comunità internazionale a proposito di queste elezioni non fossero giustificati. Il Partito Giustizia e Sviluppo (AKP) di Recep Erdoğan non ha ottenuto i voti necessari per apportare unilateralmente modifiche alla costituzione, perciò non trovano fondamento né le paure di una trasformazione della Turchia in un “regime presidenziale”, né le ipotesi di una “putinizzazione” del paese, come molti critici del governo Erdoğan hanno paventato. In realtà per molti versi queste elezioni non hanno apportato elementi di grande interesse. Ciò che è interessante sono le conseguenze, la questione del processo costituzionale. Nessun partito ha messo sul tavolo un piano preciso per modificare l'attuale costituzione. Io credo che vi sia un consenso diffuso sul fatto che il testo attuale vada cambiato o addirittura cassato a favore di una nuova costituzione, ma nessuno dice con chiarezza come ciò vada fatto. Secondo me le questioni più urgenti da affrontare sono la definizione di cittadinanza, identità nazionale, lingua ufficiale. Forse ora, dati i risultati elettorali, c'è una maggiore probabilità di assistere a un dibattito più inclusivo sulle riforme costituzionali, in cui l'AKP coinvolga gli altri partiti e abbozzi finalmente un testo che affronti tutte le questioni cruciali per il futuro della vita politica turca.
Lei pensa dunque che il processo costituzionale rappresenterà una priorità per il nuovo governo dell'AKP?
Si, perché il partito di Erdoğan ha parlato a lungo della questione, e ora sarebbe troppo difficile tirarsi indietro. E anche se l'AKP non ha ottenuto quella “super-maggioranza” a cui puntava, dispone tuttavia di un alto numero di voti. Inoltre anche il maggiore partito di opposizione, il Partito repubblicano del popolo (CHP), ha preso impegni sul fronte delle riforme costituzionali. Il CHP, ad esempio, si è espresso a favore di un abbassamento della soglia elettorale del 10%, istituita in passato per evitare l'ingresso nel sistema politico di forze radicali, ma che per lungo tempo ha rappresentato un ostacolo per una reale partecipazione democratica.
Lei pensa che la necessità di stabilire un compromesso tra l'AKP e i partiti all'opposizione contribuirà alla stesura di una costituzione più equilibrata in termini di pesi e contrappesi (di garanzie)?
Sotto questo aspetto i risultati elettorali sono decisamente incoraggianti: la classe media ha bisogno di stabilità politica ed economica, e avere un partito al governo che gode di un'ampia base di consenso è una buona notizia. Non dimentichiamo che dal 1960 al 2002 la vita media dei governi turchi è stata di soli quattordici mesi. Se parliamo di modifiche costituzionali, però, il tentativo di promuovere riforme sistematiche da parte di un partito che controlla la metà dei voti non verrebbe considerata legittima. Perciò avere una maggioranza forte, ma non una “super maggioranza”, è probabilmente la condizione migliore. In ogni caso siamo solo all'inizio, vediamo che sviluppi avrà il processo.
Quali saranno le altre priorità del governo?
Credo sia evidente che la seconda questione da affrontare sia quella economica. In questo ambito la Turchia sta ottenendo ottimi risultati, ma ciò non significa che non l'attendano sfide insidiose. Tra le questioni più delicate che l'AKP dovrà affrontare c'è il rischio di processi inflattivi, di surriscaldamento economico e di afflusso eccessivo di capitali esteri, che rendono fragile l'economia in caso di fuga di denaro. Non a caso la Banca centrale turca è stata per mesi impegnata a definire strategie per affrontare questi problemi. Si tratta di una sfida frontale, non diversa da quella affrontata da altri paesi emergenti come il Brasile, e l'AKP ha un forte mandato politico per fronteggiarla. Insomma sia il processo costituzionale che l'economia sono questioni prioritarie nell'agenda dell'AKP. Quale punto il partito vorrà porre in cima al suo programma operativo, lo scopriremo nei prossimi mesi.
Parlando di economia, lei pensa che i “progetti folli” lanciati da Erdoğan siano realistici e sostenibili o erano piuttosto slogan elettorali?
Non credo che il “Secondo Bosforo” sia facilmente realizzabile. Il progetto è stato presentato in maniera ricorrente durante varie campagne elettorali, e non è una invenzione di Erdoğan. La seconda promessa, cioè che la Turchia diverrà entro il 2023 la decima economia del mondo, è anch'essa di difficile attuazione, in quanto sarebbe necessaria una crescita media annuale del 7-8%, molto difficile da raggiungere. Tuttavia sono già in fase di sviluppo molte opere di modernizzazione: nuove infrastrutture, centrali nucleari, treni ad alta velocità. Lo scetticismo per i grandi annunci e le grandi promesse quindi è legittimo, ma non si può ignorare che l'AKP abbia il supporto politico e le risorse necessarie per promuovere importanti progetti d'investimento. In realtà in questi nove anni il partito ha realizzato massicci investimenti non solo in infrastrutture, ma anche in campo immobiliare e sanitario.
Alcuni analisti descrivono la Turchia del futuro come un “sistema a partito dominante”, paragonabile all'India o al Giappone, in cui la scena politica è dominata da un unico grande partito, pur all'interno di un quadro democratico. Aderisce a questa visione?
Penso che questo sia un punto molto interessante. Ho recentemente letto un'intervista in cui Ali Caroğlu, affermato socio-politologo, dice che nella Turchia contemporanea possiamo rintracciare tutti gli elementi salienti del sistema da lei citato. In effetti Erdoğan è ormai il più longevo primo ministro in carica, avendo superato Adnan Mederes. L'AKP ha il doppio dei voti del secondo partito politico e una forte coesione interna, cosi che le possibilità che si realizzi un “sistema a partito dominante” sono molto concrete. La questione centrale è cosa possa significare tutto ciò per il sistema politico turco, specialmente in termini di performance democratica. Certamente è necessario un sistema che possa bilanciare il peso dell'AKP, specialmente nella pratica politica quotidiana, che origini non solo dai partiti dell'opposizione, ma anche dalla stampa, dal sistema giudiziario e dalla società civile nel suo complesso. Penso quindi che dobbiamo essere prudenti quando proviamo a definire quale strada stia prendendo la democrazia turca. Gli anni a venire, comunque, ci diranno molto in proposito.
All'indomani delle elezioni la vecchia leadership del CHP, guidata da Deniz Baykal, sta tentando di riemergere e sfidare la nuova, guidata da Kemal Kılıçdaroğlu. Lei pensa che il partito sia pronto per presentarsi come una moderna e credibile alternativa all'AKP?
E' molto difficile rispondere, perché vi sono tendenze contrapposte: da una parte Kılıçdaroğlu ha modificato la retorica del partito aprendo ai curdi. Ad esempio il presidente dell'associazione forense di Diyarbakır, Sezgin Tanrıkulu, avvocato per i diritti umani, è attualmente con il CHP. Allo stesso tempo nelle liste del partito compaiono molti sospetti membri di Ergenekon. Una parte degli elettori del CHP, inoltre, sostiene il partito soprattutto per il suo retaggio kemalista, e non per il suo nuovo orientamento social-democratico. E' ancora da verificare se il cambiamento messo in atto dal CHP sia reale, ma in ogni caso credo che una vera opposizione sia un elemento necessario per la Turchia. Ora esiste una reale possibilità di cambiamento, e penso che il processo di riforma costituzionale sarà un banco di prova anche per le opposizioni.
Appena dopo le elezioni, l'ambasciatore presso la UE, Selim Kuneralp, ha dichiarato in una intervista che “l'Unione Europea ha perso la capacità di far leva sulla Turchia in fatto di riforme”. Questa esternazione è da mettere in collegamento al risultato elettorale?
Non credo che le elezioni abbiano cambiato molto. La perdita di influenza era già evidente lo scorso settembre, durante il referendum costituzionale, quando la UE non è stata considerata come un punto di riferimento. La promessa della membership nell'UE non è più credibile e i negoziati non stanno portando da nessuna parte: sono questi i motivi per cui l'UE è largamente assente dall'agenda politica turca. L'UE avrebbe in realtà ancora un forte potenziale di influenza, anche perché sia l'AKP che il CHP sono oggi schierati a favore dell'Unione europea. Perciò se l'UE torna a mostrare un serio impegno potrebbe dare il via a dinamiche nuove, ma questa al momento resta pura speculazione. Oggi non credo che l'AKP stia scommettendo sulla futura membership turca nell'UE. Molto probabilmente l'AKP non abbandonerà i negoziati, come qualcuno in Francia o in altri paesi UE probabilmente spera, perciò la facciata dei negoziati resterà in piedi ancora per lungo tempo, ma senza alcuna sostanza. L'unico reale punto all'ordine del giorno è la liberalizzazione dei visti di ingresso. L'ex premier italiano Giuliano Amato è impegnato, insieme a Gerald Knaus (il presidente dello European Stability Initiative – ESI) alla stesura di un report su questa questione. Sfortunatamente non sarà facile fare passi avanti, poiché l'immigrazione è una delle questioni che crea oggi maggiori divisioni nella politica europea. Perciò io resto abbastanza scettico su possibili colpi di scena.
Con il tramonto dell'ipotesi di una membership piena, esiste un “piano B” per la gestione delle relazioni bilaterali tra Turchia e Unione europea?
C'è molta retorica al riguardo, specialmente tra i partiti europei di centro-destra, che invocano una “partership privilegiata” in luogo di una membership piena. Il problema è che la Turchia sotto molti aspetti è già in una posizione di partnership privilegiata con l'Unione europea. Alcuni chiedono l'istituzione, a fianco ai negoziati, di un “binario parallelo” in materia di politica estera, ad esempio in regioni come la Bosnia-Erzegovina o il Medio oriente. Coloro che invocano questo “binario parallelo”, tuttavia, non lo considerano come un'alternativa, ma come un percorso diverso che possa ridare fiducia ai dialoghi bilaterali e rilanciare il processo negoziale. Personalmente sono ancora in attesa di definizioni concrete, ad esempio da parte dei cristiano-democratici tedeschi, sul reale significato della “partnership privilegiata”. Per ora resta una frase vuota.
Ma dal momento che l'AKP ha perso interesse nella prospettiva di una membership europea, in Turchia esistono altre forze politiche o sociali interessate a questo obiettivo?
Prima di tutto, anche se l'AKP agisce come un attore monolitico potrebbero esservi al suo interno visioni diverse. Erdoğan ha probabilmente usato la questione della membership europea come “manganello” contro i militari, e può darsi che ora non lo ritenga più necessario, ma altri, come il presidente Abdullah Gül, sono probabilmente convinti in modo più genuino che la Turchia debba perseguire l'ingresso in UE. Ma anche altri soggetti continuano a volerela . I curdi non abbandoneranno la UE: ne hanno bisogno per risolvere la loro questione e per promuovere i diritti delle minoranze e lo sviluppo economico regionale. Anche il business turco continua a guardare all'UE, e anche se la retorica corrente vuole che “ormai non abbiamo più bisogno dell'Unione europea, ma è l'Unione europea che ha bisogno di noi” la situazione sul campo è ben più complessa. Inoltre ci sono sempre più possibilità che i secolaristi turchi guardino alla UE come ad un alleato. A lungo abbiamo assistito al paradosso per cui i turchi più “europeizzati” erano in realtà anti-europeisti, ma ora che si sentono come una minoranza a rischio nel paese, cambieranno probabilmente attitudine. Credo che sia questa la ragione principale dietro la recente svolta pro europeista del CHP.
Il Partito pro-curdo BDP ha annunciato che boicotterà la sessione inaugurale del parlamento. Crede che questa scelta ponga un serio pericolo alle prospettive di riuscita del processo costituzionale?
Il BDP, potrebbe andare fino in fondo con le sue minacce di boicottaggio, e la situazione al momento è molto tesa, in conseguenza alla decisione di privare Hatip Dicle del suo seggio in parlamento e alle manifestazioni pro-curde di Istanbul affrontate con durezza dalla polizia. Nel lungo periodo, però, il BDP Partito curdo per la Pace e la democrazia, ha tutto l'interesse ad essere parte del processo costituzionale che darà nuova forma alle istituzioni turche. Se il partito decide di farsi da parte e la tensione dovesse divenire ingestibile, un'importantissima finestra di opportunità potrebbe andare perduta. Senza il BDP e i nazionalisti curdi, sarebbe molto difficile stilare una cornice costituzionale in grado di soddisfare trasversalmente tutta la società turca.
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