Cosa cambia in Turchia con l'introduzione dello stato di emergenza, a seguito del fallito golpe del 15 luglio, e quali sono i poteri in mano al presidente della Repubblica
Nella notte tra il 20 e il 21 luglio, il presidente della Repubblica Recep Tayyip Erdoğan ha annunciato, attraverso la televisione di stato TRT l'imposizione dello stato di emergenza su tutto il territorio nazionale. La decisione è stata poi ratificata a larga maggioranza dal parlamento di Ankara nel pomeriggio successivo.
Il provvedimento è stato adottato in accordo con l'articolo 120 della Costituzione turca, in vigore dal colpo di stato del 1980, che consente lo stato di emergenza di caso di seria minaccia all'ordine costituzionale e disordini sociali diffusi, oltre che in caso di epidemie e disastri naturali.
Il presidente ha accompagnato l'annuncio con la rassicurazione che lo stato di diritto, la democrazia e i diritti fondamentali non saranno compromessi dal provvedimento che, anzi, servirebbe a preservarli dalle conseguenze del fallito golpe del 15 luglio. Erdoğan ha inoltre sottolineato che anche paesi europei come la Francia sono attualmente in stato di emergenza, tra l'altro prolungato di altri sei mesi dopo la strage di Nizza. Nell'ottica del presidente turco si tratterebbe quindi di un provvedimento normale, considerati gli eventi in corso nel paese. Un segnale sicuramente allarmante è però la sospensione della Convenzione europea sui diritti umani - ancora una volta sull'esempio di nazioni europee - a dimostrazione di quanto sia pericoloso creare precedenti internazionali da parte di qualunque stato.
Non è un mistero che Erdoğan abbia come orizzonte del suo progetto politico la riforma della repubblica turca, oggi parlamentare, verso una forma presidenziale. Lo stato di emergenza consente di fatto un concentramento del potere esecutivo nelle mani della presidenza della Repubblica che è invece, nell'ordinamento in vigore, figura più di rappresentanza e di valore simbolico che non funzionale nei meccanismi di gestione quotidiana dello stato. Con lo stato di emergenza, il presidente si trova a godere di un ruolo molto più attivo sul piano decisionale.
Cosa è cambiato?
Lo stato di emergenza consente al presidente della Repubblica di presiedere il Consiglio dei Ministri. Questo può ora saltare il passaggio parlamentare ed emanare i decreti legislativi ritenuti necessari alle finalità per cui lo stato di emergenza è stato dichiarato, oltre alla possibilità di sopprimere le libertà civili.
È importante sottolineare che la lista di possibili provvedimenti che lo stato di emergenza consente non vengono immediatamente adottati; per essi bisogna invece attendere i decreti attuativi che stabiliscono esattamente quali di essi entrano in vigore e secondo quali modalità [vedi box].
Di conseguenza, per capire quale impatto lo stato di emergenza ha sulla stabilità della democrazia turca è necessario prestare attenzione ai singoli provvedimenti e agli episodi.
Il diritto di assemblea
Tra sabato e domenica appena trascorsi, per la prima volta dal 15 luglio due partiti di opposizione, il partito di sinistra dell'HDP e quello di centrosinistra del CHP, sono scesi in piazza per rinnovare l'opposizione al tentato colpo di stato. Piazza che finora era stata dominata dai sostenitori del partito di governo, l'AKP che, a distanza di dieci giorni dal fallito golpe, invita quotidianamente la sua base elettorale a rimanere vigile sulle sorti della democrazia e del governo. Si tratta quindi di un momento fondamentale di riappropriazione degli spazi pubblici da parte di tutta la popolazione, su cui né il governo né la polizia sono intervenuti.
La manifestazione dell'HDP, oltre a condannare nuovamente il golpe, è servita anche a dichiarare la propria opposizione allo stato di emergenza, che nella visione del partito mette in serio pericolo le libertà civili. L'HDP è vicinissimo ai movimenti curdi, che più di tutti hanno sperimentato sulla propria pelle l'applicazione dello stato di emergenza nella storia della Repubblica.
La manifestazione è però avvenuta ben lontana dal centro cittadino e da quella piazza Taksim che continua a rivestire un ruolo simbolico fondamentale per il paese. Fonti interne al partito, sentite da OBC, hanno dichiarato che al momento non si sentono sicuri nell'organizzare manifestazioni di massa nel cuore di Istanbul, anche solo in quartieri centrali come Kadikoy dove la loro base elettorale continua ad essere forte, poiché temono per l'incolumità dei propri sostenitori. La manifestazione ha invece attraversato le strade di Sultangazi, quartiere periferico della metropoli dove il movimento curdo ha fortissimo sostegno.
Il Partito Repubblicano Popolare (CHP) ha invece organizzato la propria manifestazione proprio a Taksim. La partecipazione è stata massiccia e ha visto la presenza anche di una delegazione del partito di governo AKP, a dimostrazione di come il dialogo tra queste due formazioni sia molto più facile che non con l'opposizione della sinistra filo-curda. L'elettorato CHP è decisamente più secolare, ma non meno nazionalista della base AKP, e questo si è visto apertamente nella piazza: sono comparse le immagini di Atatürk, altrimenti inesistenti nelle mobilitazioni dell'AKP, e sono risuonati inni kemalisti e repubblicani, invece delle marce ottomane che hanno caratterizzano spesso le manifestazioni dei giorni scorsi.
Il CHP ha rilasciato un comunicato diviso in dieci punti, chiamato “Manifesto di Taksim”, in cui rinnova il rifiuto del golpe come soluzione accettabile per la vita democratica del paese, insiste sulla laicità come tratto fondante della Turchia e riconosce l'emergere per la popolazione di un Diritto alla Resistenza nella difesa delle istituzioni democratiche.
Alle manifestazioni di piazza liberamente organizzate dai partiti, fa da contraltare la chiusura di 1229 associazioni in tutto il paese. Se l'accusa è, come sempre, l'avere collegamenti con la rete gülenista, la presenza nella lista di associazioni alevite, molto distanti sia dalla realtà sunnita di Cemaat come dalle posizioni del governo, lascia pensare che l'opera di repressione del governo stia, almeno in alcuni casi, varcando i confini della reazione contro il nemico pubblico numero uno, accusato di essere fautore del golpe, e sfoci invece pericolosamente nella repressione delle opposizioni.
I media e l'opinione pubblica nel mirino
Tra gli interventi governativi finora adottati, grazie anche al più agevole spazio di manovra consentito dallo stato di emergenza, spiccano quelli nei confronti dei media.
La pubblicazione e la diffusione di notizie infondate costituisce un crimine per cui sono previste sanzioni amministrative e il carcere da tre mesi ad un anno. Secondo l'articolo 25 dello stato di emergenza è punibile “chiunque diffonda notizie false o esagerate con l'intento di creare panico tra la popolazione”. Una formulazione vaga, quella di notizia “esagerata”, che consente ampio margine discrezionale.
L'accusa principe resta comunque, per il governo, quella di collusione con il movimento gülenista. È in conseguenza di questa che sono stati spiccati mandati d'arresto per 42 giornalisti nella sola giornata del 25 luglio. Il caso segue quello di Orhan Kemal Cengiz, editorialista arrestato insieme alla moglie, ora di nuovo a piede libero ma con il divieto di lasciare il paese, in attesa che una corte si pronunci sul suo conto.
Tutto ciò mentre vengono bloccati siti di informazione, emittenti tv e radio.
La stretta sull'esercito
Grazie allo stato di emergenza, ai governatori sono stati conferiti nuovi poteri che consentono di assumere il controllo diretto dell'esercito. Tutte le forze di sicurezza devono assicurarsi che i provvedimenti vengano rispettati e sono autorizzate all'uso delle armi da fuoco.
Erdoğan stesso poi, in virtù del suo ruolo di presidente, si colloca a capo supremo delle forze armate. Tanto che alcuni giornali vicini al governo hanno cominciato a chiamare Erdoğan “Comandante in capo”, e non più presidente della Repubblica, sottolineando così il nuovo ruolo che lo stato di emergenza gli attribuisce.
Una stretta sull'esercito da parte dell'esecutivo, inclusi gli arresti a cui assistiamo in questi giorni, era ovvia. Eppure già nel mese di marzo, quando il golpe era ancora lontano, c'erano stati segnali importanti circa la volontà di Erdoğan di assumere un ruolo diverso, e più attivo, nei confronti delle forze armate.
L'analista ed esperto di sicurezza Metin Gurcan aveva dedicato un lungo articolo al tradizionale discorso annuale che il Presidente aveva rivolto alla Scuola Militare di Istanbul, la più importante fucina di futuri ufficiali dell'esercito. Nel suo discorso Erdoğan annunciava, per la prima volta nella storia della Repubblica, la volontà di rendere “esecutiva” la carica di comandante delle forze armate turche che spetta al presidente della Repubblica, contrariamente ad una tradizione che storicamente vede questo ufficio come largamente simbolico.
Dopo gli arresti, i processi
Nonostante la tragicità di questi giorni, e le difficoltà per l'opinione pubblica locale e internazionale nel distinguere azione legittima e repressione studiata, saranno le aule di tribunale il vero banco di prova della democrazia turca e dello stato di diritto.
Questo perché per ciascuna delle migliaia di persone arrestate, sospese, licenziate, andrà poi dimostrata non solo l'affiliazione con il movimento di Gülen, passaggio già arduo, ma anche un coinvolgimento diretto nel tentato golpe. Un compito immane per il sistema giudiziario turco, a sua volta oggetto delle purghe governative, su cui l'opinione pubblica si vede ancora una volta divisa tra chi considera l'azione legittima per ripulire l'apparato statale dalle infiltrazioni güleniste e chi, invece, considera il tutto come la preparazione di un sistema giudiziario favorevole al governo.
In sostanza, dovrà essere garantito il diritto ad un equo e giusto processo e su questo la comunità internazionale è chiamata a vigilare con estrema attenzione.
La questione della proroga
Lo stato di emergenza potrà essere prorogato di volta in volta a seconda delle necessità, per periodi non superiori a quattro mesi, su indicazione del Consiglio dei Ministri presieduto da Erdoğan. È questa la prima volta che un provvedimento di stato di emergenza entra in vigore su tutto il territorio nazionale: la misura era stata adottata di frequente in passato nel sud-est a maggioranza curda nella lotta contro il gruppo armato del PKK, soprattutto a cavallo tra gli anni '80 e '90, quando era restato in vigore per un periodo di 15 anni consecutivi. L'ultima adozione risale al 2002 ed era circoscritta alle città a maggioranza curda di Diyarbakir e Sirnak.
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