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Smentendo i sondaggi, l'AKP di Erdoğan torna al governo in solitaria. La vittoria, nata in un contesto di gravissime violenze, porta stabilità ma nasconde non poche zone d'ombra

04/11/2015 -  Fazıla Mat Istanbul

Il Partito della giustizia e dello sviluppo (AKP) torna saldamente al potere in Turchia. A soli cinque mesi dalle elezioni del 7 giugno scorso, dove l’AKP aveva perso la maggioranza assoluta in parlamento, la formazione islamista conservatrice guidata dal premier Ahmet Davutoğlu è tornata alla riscossa nelle elezioni anticipate del 1 novembre. Sono stati clamorosamente smentiti quasi tutti i sondaggi elettorali che, alla vigilia delle consultazioni, davano per scontato che l’Akp dovesse tornare a cercare alleanze per formare un governo di coalizione. Con uno schiacciante 49,5% delle preferenze – secondo dati non ufficiali – e 317 deputati su 550 in parlamento, il Paese avrà invece per altri quattro anni un esecutivo monocolore: il quarto governo AKP consecutivo in Turchia.

La “magnifica vittoria”

La “magnifica vittoria” dell’AKP, come definita dal quotidiano filo-governativo Yeni Şafak, è però soprattutto una vittoria del presidente Recep Tayyip Erdoğan. Il capo dello Stato (una figura essenzialmente rappresentativa in base alla Costituzione, ma che resta leader di riferimento indiscusso dell’AKP, di cui è fondatore ed ex primo ministro) nei mesi scorsi aveva infatti ribadito più volte la necessità di ripetere le elezioni.

Mesi in cui la Turchia è stata scaraventata in un vortice di violenze estreme. Dalla ripresa – dopo due anni e mezzo di interruzione – degli scontri armati tra il PKK (Partito dei lavoratori del Kurdistan) e l’esercito turco, agli attentati di Suruç e Ankara – i più sanguinosi della storia turca – attribuiti a membri dello Stato islamico (IS). Per non parlare delle aggressioni all’opposizione politica filo-curda, nonché alla stampa d’opposizione.

Caos e stabilità

Una situazione definita da diversi analisti come una “strategia del caos”, finalizzata a dimostrare che senza un governo monocolore AKP la Turchia resta priva di stabilità e sicurezza. Un’argomentazione, quest’ultima, cui in fase elettorale hanno più volte fatto riferimento anche i dirigenti del Partito della giustizia e dello sviluppo. Lo stesso Davutoğlu, prima delle elezioni, ha ammonito che senza un governo AKP sarebbero di nuovo apparse le “Toros bianche”, le famigerate automobili che negli anni ’90 erano associate alle esecuzioni “extragiudiziarie” compiute nel Sudest a maggioranza curda del Paese.

La maggioranza dell’elettorato sembra aver optato dunque a favore della “stabilità” e della “sicurezza”. Una maggioranza composta dall’elettorato di base dell’AKP – il nuovo ceto medio turco, inclusi coloro che nella precedente tornata elettorale avevano boicottato il voto per esprimere la propria scontentezza nei confronti di un AKP accusato di corruzione; dalle minoranze islamiste; dai nazionalisti e ultra-nazionalisti scontenti delle politiche dei propri partiti di riferimento e, infine, da una parte degli elettori curdi. Cinque milioni di elettori che dopo cinque mesi hanno deciso di votare di nuovo a favore dell’AKP.

Gli sconfitti

I primi a fare i conti con questa “trasfusione” di voti sono stati i lupi grigi del Partito di azione nazionalista (MHP). Una situazione dovuta soprattutto all’atteggiamento del leader della formazione Devlet Bahçeli, che negli scorsi mesi si è opposto a qualsiasi formula di alleanza proposta dal Partito repubblicano del popolo (CHP, seconda formazione politica del Paese, kemalista e socialdemocratica) se sostenuta dal Partito filo-curdo democratico dei popoli (HDP). Un atteggiamento disfattista che è costato caro al MHP. Il partito è passato dal 16% di giugno all’11,9% con conseguente dimezzamento del numero dei deputati (scesi da 80 a 41).

Ma a perdere quota è stato anche il Partito democratico dei popoli (HDP) filo-curdo e di sinistra, rimasto, secondo molti, al centro del fuoco incrociato del PKK e dello Stato turco. Dopo l’ “intermezzo HDP” del 7 giugno, gli elettori conservatori di origine curda sarebbero infatti ritornati a votare l’AKP, spaventati dalla prospettiva della ripresa degli scontri tra la guerriglia curda e le forze di sicurezza. Un esodo di preferenze che ha raggiunto il 3% nelle zone del Sudest del Paese, considerate tradizionalmente il serbatoio di voti dei partiti filo-curdi. Così l’HDP, che nelle precedenti elezioni aveva impedito all’AKP di andare da solo al governo ottenendo il 13% delle preferenze, questa volta ha corso il rischio di non riuscire a superare lo sbarramento elettorale del 10%, oltrepassato alla fine per un pelo. Il partito è entrato comunque in parlamento, diventando, con 59 deputati, la terza forza politica dell’Assemblea nazionale. Al secondo posto, invece si è posizionato nuovamente il CHP, l’unico partito che è rimasto stabile alla percentuale del 25,4% rispetto alle consultazioni di giugno, portando alla camera 134 deputati.

Media sotto pressione

“A prescindere dalle motivazioni che l’hanno causata, l’AKP ha ottenuto una vittoria in sede elettorale”, ha scritto la giornalista veterana Nazlı Ilıcak, già collaboratrice del quotidiano d’opposizione Bugün del gruppo Koza-İpek, che ha cambiato completamente linea dopo che, alla vigilia elettorale, il tribunale ha ordinato il commissariamento di tutte le società del gruppo, accusato di sostenere l’ “organizzazione terroristica Fethullah Gülen”. “Non è possibile parlare di elezioni libere, in quanto sono state condotte delle operazioni mirate ad influenzare l’opinione pubblica ed è stata impedita la circolazione libera delle idee. Tuttavia, non è nemmeno possibile mettere in discussione la legittimità del risultato emerso dai seggi” scrive sempre la Ilıcak sul portale informativo T24, che ha aperto in segno di solidarietà il proprio spazio ai giornalisti dei media commissariati.

Ma le dichiarazioni del premier Davutoğlu, a favore del dialogo e dell’abbandono delle inimicizie, non impediscono ad alcuni quotidiani e giornalisti filo-governativi di indicare la lista di altri media dell’opposizione che andrebbero “commissariati”. E la paura di alcuni media critici è immediatamente diventata più palpabile. Basti pensare anche solo ai toni conciliatori assunti dal colosso mediatico Doğan (il gruppo del quotidiano Hürriyet e della Cnn Türk) all’indomani del voto. Ieri, inoltre, i direttori della rivista Nokta, dopo aver pubblicato una copertina con la foto del presidente Erdoğan titolando “2 novembre, inizio della guerra civile in Turchia”, sono stati arrestati per aver “incitato la popolazione alla ribellione armata contro il governo”.

Scenari post elettorali

Ora le questioni centrali, che emergono dalle dichiarazioni dei dirigenti AKP per gli scenari che attendono il Paese, risultano essenzialmente tre. Una nuova costituzione e la trasformazione del sistema di governo da parlamentare a “presidenziale alla turca”; la risoluzione della questione curda e il rilancio dell’economia. Se l’AKP non dispone dei 330 deputati necessari a cambiare da solo la costituzione, gli analisti avanzano diverse ipotesi al riguardo, che vanno dal trasferimento di deputati dall’opposizione all’attuazione di un “sistema presidenziale di fatto” avvallato dal voto di maggioranza.

Oggi il portavoce dell’Hdp Ayhan Bilge ha comunicato che il partito filo-curdo è disposto a discutere ogni tipo di sistema presidenziale, che però non sia quello “alla turca” che prevede la concentrazione del potere nelle mani di un unico uomo (il presidente Erdoğan). “Una dichiarazione infelice quella di Bilge”, ha commentato il politologo Cengiz Aktar, “dal momento che l’unico sistema presidenziale di cui si discute in Turchia è esclusivamente quello ‘alla turca’”.

La “questione curda” resta la seconda priorità del nuovo governo AKP, i cui esponenti – come il vice premier Yalçın Akdoğan – tendono tuttavia ad escludere un ritorno alle trattative di pace che abbia come interlocutori l’Hdp e Abdullah Öcalan (leader del PKK, nel carcere di Imralı dal 1999), come già avvenuto in passato. Come ha anche affermato Etyen Mahçupyan, consigliere onorario del premier, “non è lecito attendersi un passo indietro del governo nei confronti del PKK, anche per via della posizione dello stesso PKK”. Un’affermazione che risulta in linea con i bombardamenti dell’esecutivo sulle postazioni del PKK a Qandil, riprese da ieri. “Ora il governo ha di fronte solo la popolazione curda e l’Akp si deve occupare delle riforme da loro richieste”, aggiunge Mahçupyan.

In questo contesto, anche la ripresa economica del paese non sembra a portata di mano. Come ricorda Joost Lagendijk, su Today’s Zaman, riportando una posizione comune a molti esperti del settore, “se il nuovo governo turco vuole che l’economia migliori, deve prima placare l’instabilità creata dall’ostruzione allo stato di diritto e dalla caccia alle streghe per chi non è considerato amichevole nei confronti dell’AKP. Chiudere o mettere sotto controllo governativo quotidiani come Zaman o Hürriyet, entrambi con buone connessioni a livello internazionale, creerà un grande danno all’immagine della Turchia e minerà qualsiasi sforzo di dare slancio alla crescita economica. Lo stesso effetto avranno anche gli scontri violenti con il PKK.”  


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