Con le armi e i cannoni che non tacciono, parlare di dialogo e riconciliazione oggi in Ucraina, e soprattutto in Donbas, è un'impresa al limite dell'impossibile. Eppure, c'è chi non ha smesso di immaginare faticosamente, dolorosamente, un possibile futuro
Parole come futuro, riconciliazione, dialogo, oggi in Ucraina sono sovrastate dal suono dei missili e dal rumore dell’artiglieria. Mentre scriviamo l’esercito russo sta provando ad avanzare lungo numerosi settori del fronte, in particolare cingendo d’assedio i villaggi circostanti la città di Charkiv e provando a prendere possesso di diverse teste di ponte nelle aree del Donbas. Azioni che, oltre a mettere pressione sulle forze di Kyiv, consentono di aumentare la superficie della “cintura di protezione” attorno ai territori occupati dal 2014 negli oblast di Donec’k e Luhans’k.
In un certo senso, la condizione attuale del sud-est dell’Ucraina ha qualcosa di surreale: nell’ottobre del 2022 la Russia ha formalmente annesso le quattro regioni di Cherson, Zaporižžja, Donec’k e Luhans’k. Si tratta di aree che le truppe di Putin non controllano completamente e dove anzi il confine fra aree in mano a Kyiv e aree in mano a Mosca cambia praticamente ogni settimana per via delle operazioni militari.
La popolazione civile molto spesso viene evacuata oppure decide di andarsene di propria volontà (che sia verso l’Ucraina o verso la Russia, magari solo come prima tappa per poi recarsi in Unione Europea). Altre volte c’è chi decide di rimanere, nonostante i combattimenti e i rischi costanti.
Inoltre, dopo l’apertura nello scorso agosto del check-point sul confine fra Kolotylivka (Russia) e Pokrova (Ucraina), decine di migliaia di persone (secondo i dati forniti dall’associazione umanitaria Pluriton, che gestisce la prima accoglienza di chi decide di intraprendere l’evacuazione) hanno iniziato a spostarsi dai territori occupati fin dal 2014 direttamente verso il territorio sotto il controllo di Kyiv.
Per chi invece decide o è costretto a rimanere nelle zone controllate da Mosca, molto spesso inizia una politica di “russificazione” forzata che riguarda l’imposizione della lingua, l’insegnamento di una diversa versione della storia della regione, l’acquisizione del passaporto russo, la confisca dei beni, il passaggio per campi di filtraggio.
A loro volta, villaggi e città che vengono liberati dall’esercito ucraino sono investite da un processo di reintegrazione sotto l’amministrazione ucraina che comporta talvolta giudizi penali e interrogatori verso chi ha collaborato con le forze d’occupazione (come abbiamo descritto nel secondo capitolo).
Va da sé, dunque, che la regione del Donbas, oltre ad avere uno status giuridico “ibrido” (annessa formalmente dalla Russia in toto, ma di fatto per buona parte fuori dal controllo di Mosca, appartenente secondo il diritto internazionale allo stato ucraino che, però, in alcune zone è assente da dieci anni), ha un’identità estremamente mutevole e rappresenta oggi una delle terre più martoriate a livello globale.
“Fino alla vittoria”
“Prima dell'invasione su larga scala, più o meno tutti i report cui avevamo accesso indicavano che la stragrande maggioranza di queste persone era soddisfatta con la ‘pace congelata’ in cui vivevano, nonostante non si trattasse di una vera pace e l'artiglieria continuasse a farsi sentire”, ci racconta Oksana Kuiantseva, membro del consiglio di amministrazione e responsabile dei programmi umanitari dell’organizzazione non governativa Vostok SOS (che in seguito alla guerra del 2022 ha cambiato nome in East SOS), operante in Donbas sin dal 2014.
“Ma ora, quando abbiamo condotto l'ultima nostra monitoring mission (una missione internazionale con due partecipanti esteri, da Parigi e da Varsavia), quando abbiamo parlato coi locali, abbiamo visto che non sono pronti per nessuna pace o negoziato: parlano solo di vittoria, perché tutti si rendono conto che un cessate il fuoco ora condurrebbe ad un solo sbocco: al fatto che la Russia si fermerebbe per un momento ma dopo un po', siano due o 10 anni, ritornerebbe ad attaccare con più armi e più violenza”.
Prosegue Kuiantseva: “Capiamo che adesso i nostri figli e fratelli sono nell'esercito e se ci fermiamo adesso, lo saranno i nostri nipoti. È dunque comprensibile questo atteggiamento, ed è lo stesso che si trova anche nei territori occupati recentemente. Il desiderio è quello di finire la guerra coi confini del ‘91 e questo è visto come un obiettivo insindacabile”.
Sono oltre 40mila le organizzazioni non governative registrate nel paese, senza contare le realtà di supporto e di mutuo aiuto nate in seguito all’invasione su larga scala, spesso anche molto spontaneamente e con una struttura informale. Alcune di esse hanno lavorato nel periodo precedente all’invasione su larga scala sulla questione dei territori occupati del Donbas, a volte provengono proprio da quelle zone.
“A un certo momento, in qualità di associazione, pensavamo fosse necessario elaborare un programma per punti su come avremmo visto la possibilità di una reintegrazione pacifica del Donbass nel paese. Il contesto, però, muta di giorno in giorno e abbiamo capito quanto sia difficile immaginare un processo concreto”, afferma Mykhailo Glubokyi di Izolyatsia, collettivo culturale e artistico nato a Donec’k all’inizio degli anni Dieci.
“Tuttavia per noi è assolutamente fondamentale avere voce in capitolo nel processo di reintegrazione, e per due ragioni specifiche: vogliamo tutelare il più possibile la libertà d'espressione e crediamo nella prospettiva artistica-culturale come metodo non intrusivo in relazione alle singole esperienze personali”.
Prosegue Glubokyi: “Si tratta del motivo per cui abbiamo, per esempio, collaborato con associazioni attive nel contesto post-jugoslavo che si occupano delle riappacificazioni post-belliche. Temiamo che lo Stato non riesca a gestire propriamente questi processi: negli ultimi otto anni non è riuscito a farlo per via di una mancanza di competenza e per l'eccessivo livello di burocrazia che lo caratterizza. Le associazioni indipendenti, invece, hanno molta più possibilità di successo in questo tipo di situazioni”.
Trasformazioni abortite
Glubokyi fa riferimento al fatto che, contrariamente a un’immagine spesso stereotipata della regione del Donbas, le zone che si trovano sotto controllo russo prima del 2014 stessero in realtà attraversando un processo di ricostituzione della propria identità, e persino di fermento culturale. Anzi, il politologo e attivista Kostantin Skorkin in una delle sue analisi ha descritto la tragedia del Donbas come a un caso di “rivoluzione culturale fallita”.
In un articolo di qualche anno fa, successivo alla prima aggressione russa ma precedente all’invasione su larga scala, affermava come “il 2013 [avesse] rappresentato un momento fondamentale per la vita culturale della città di Luhans’k. Venne inaugurato un trend che aveva iniziato a trasformare la nostra città, un ex centro industriale della regione, in un hub culturale. Nel corso di quell’anno, il compito apparentemente senza speranza di portare l’arte nelle province ucraine finalmente stava cominciando a dare i suoi frutti”.
Diversi collettivi, individui e centri artistico-teatrali avevano cominciato a ripensare l’identità industriale della zona in un’ottica di rinnovamento sociale e talvolta anche di riscoperta delle radici europee della regione (lo racconta bene il documentario Eurodonbas).
Lo stesso Skorkin ha fatto parte di un gruppo di agitazione performativa (STAN), attivo fin dal 2008, le cui vicende successive alla crisi originatasi nel paese con le proteste del Majdan possiedono un alone simbolico: la maggioranza dei membri supportò il movimento a favore della caduta di Janukovic e per questo fu costretta a scappare da Luhans’k. Al contrario, altre figure interne al collettivo, come Olena Zaslavska , ruppero con i propri compagni (Zaslavska diventò persino rappresentante culturale delle neonate repubbliche separatiste).
Incognite sul futuro
Come tanti, oggi Skorkin nutre dubbi su quale debba essere la strategia migliore per reintegrare i territori nel Donbas all’interno dello stato ucraino, al di là dell’attuale fattibilità politico-militare. “Se prendiamo i territori delle regioni di Luhans’k e Donec’k che sono stati sequestrati nel 2022, Mariupol e così via, tra cui il nord dell'Oblast di Luhans’k, Lysyčans'ke Severodonec’k, la linea è abbastanza chiara. Vale a dire, ripristinare l'amministrazione ucraina, ripristinare le leggi ucraine, punire i collaboratori e coloro che saranno detenuti dalle forze di sicurezza ucraine nella zona ATO”.
“È abbastanza semplice”, prosegue Skorkin, “perché la popolazione si sente per la maggior parte occupata e attende l'arrivo delle forze ucraine. Per quanto ne so, questo è un sentimento di massa. In altre parole, di fatto, le persone non vogliono cooperare con i russi, come anche nel sud dell'Ucraina. Sono costretti, sì, ma solo perché non hanno scelta. Ma questo desiderio in sé non esiste”.
Secondo Skorkin nei territori sfuggiti al controllo di Kyiv nel 2014 invece “la situazione è completamente diversa”, sebbene ciò non dovrebbe essere motivo di generalizzazione e approssimazione nelle politiche future.
“Penso che in questo momento sia naturale per la società ucraina avere un atteggiamento molto negativo nei confronti dei residenti dei territori occupati, a causa delle perdite militari ucraine. Di fatto, tutti sono considerati collaborazionisti senza eccezioni”, riflette Skorkin.
“Sono convinto che sia una strada sbagliata, perché le emozioni sono emozioni. Ma se vogliamo liberare queste terre insieme alle persone, dobbiamo pensare a come attirarle dalla nostra parte e non trasformarle in nostri nemici. Credo che i politici dovrebbero adottare un approccio più responsabile al riguardo”.
Val la pena notare che il dibattito attorno alla “battaglia per i cuori e per le menti” delle popolazioni del Donbas precede l’invasione su larga scala. Soprattutto in seguito all’elezione di Volodymyr Zelensky - che in campagna elettorale aveva promesso di impegnarsi per una risoluzione pacifica del conflitto e che provò a mettere in campo significative concessioni nel quadro degli accordi di Minsk, scontrandosi però con l’ala più intransigente della politica ucraina da una parte e con l’indisponibilità russa dall’altra - si sono fatte strada all’interno dell’opinione pubblica riflessioni e proposte a riguardo.
Ad esempio questo forum ospitato dalla testata indipendente Krytyka oppure il lavoro di diverse Ong e collettivi che hanno provato a elaborare progetti rivolti alle popolazioni ai due lati del fronte.
Il ruolo delle organizzazioni internazionali
Gli ultimi sondaggi condotti sul campo rivelavano un quadro ambiguo e contraddittorio. Per esempio una ricerca del 2019 commissionata dall’Ukrainian Institute for the Future su un campione di circa 1600 persone residenti nelle repubbliche di Donec’k e Luhans’k mostrava che l’80,5% degli intervistati non aspiravano a una reintegrazione nello Stato ucraino (il cui governo anzi era ritenuto dall’84,5% responsabile di aver iniziato il conflitto).
Allo stesso tempo, però, il 57,8% si identificava come “cittadino dell’Ucraina” e solo un 7% del campione pensava a se stesso come “cittadino russo”. Il restante 34,8%, invece, sentiva un’appartenenza nei confronti della repubbliche separatiste in quanto tali. Un campione ovviamente poco significativo a livello statistico, ma che da solo rende l’idea dell’eterogeneità di opinioni persino in contesti spesso presentati come monolitici, come quelli delle repubbliche di Donec’k e Luhans’k
Poche settimane prima dell’invasione su larga scala, lo storico e attivista Taras Bilous (che si è poi arruolato nelle forze di difesa territoriale ucraine) proponeva l’ingresso di peacekeeper sotto l’egida dell’ONU nei territori del Donbas. “Ora però sono sempre più pessimista rispetto alla situazione delle zone occupate”, ci dice Bilous.
“Un congelamento del conflitto, o situazioni ancora peggiori, inevitabilmente porterebbero a una radicalizzazione e a un rafforzamento della destra nella politica ucraina. I più nazionalisti accuserebbero Zelensky di non aver agito abbastanza convintamente, mentre a crescere sarebbero i sentimenti revanscisti”, sostiene lo storico. “In questo scenario, le persone comuni continuerebbero a de-politicizzarsi, se non lasciare definitivamente il paese. A livello economico, ciò sarebbe una catastrofe per i lavoratori e le protezioni sociali”.
Anche Hanna Perekhoda, attivista e ricercatrice originaria di Donec’k, condivide il pessimismo: “La situazione ideale è che lo Stato ucraino diventi forte abbastanza da vincere questa guerra ma, quando si arriva alle regioni che vennero occupate nel 2014, diventa tutto molto più complicato: la prospettiva ideale sarebbe che l'esercito ucraino non entri in queste regioni e le truppe russe si ritirino da lì, mentre allo stesso tempo un'autorità terza e imparziale prenda il controllo dell'area e possa preservare lo status della zone al di fuori del controllo ucraino e russo. Non ho idea di come sia fattibile una cosa del genere, ma occorrerebbe iniziare almeno a discuterne. Come si può prevenire una violenza di massa? Non ho risposte, ho solo domande e la sensazione che nessuno stia affrontando il problema”.
Il dossier
Se l’invasione su larga scala dell’Ucraina sta entrando nel suo terzo anno, sono quasi dieci gli anni di aggressione e ingerenza russa nel paese, cominciati nel 2014 con l’annessione della Crimea e continuati con la guerra ibrida in Donbas. Molto è cambiato rispetto alla ‘prima fase’ della guerra russo-ucraina, ma il Donbas è rimasto una delle poche costanti: la regione continua a essere la zona più colpita, a livello umano e materiale, dai combattimenti. Un’ulteriore tendenza della “questione del Donbas” è che ad affrontarla siano molto più spesso giornalisti e analisti mai vissuti in quell’area – che si tratti di russi, ucraini occidentali o esperti stranieri – rispetto a chi nel Donbas è nato e cresciuto.
Il nostro progetto, composto da dieci puntate, nasce con l’obiettivo di raccontare gli eventi del recente passato della regione contesa con la consapevolezza e lucidità dell’oggi. Reintegrare il Donbas è diventato una priorità politica imprescindibile per Kyiv, mentre il congelamento dello status quo è essenziale negli obiettivi bellici di Mosca. Nessuna delle due parti in conflitto affronta però realmente le specificità della popolazione locale, o di ciò che ne è rimasto. Abbiamo raccolto numerose voci del Donbas “reale” che hanno lasciato la regione nel 2014-15 per trasferirsi altrove, in Ucraina o in Europa. Posizioni fortemente anti-Cremlino, ma mai acriticamente a supporto dei governi ucraini. Abbiamo chiesto loro quale presente e futuro vedono per il Donbas, una casa in cui temono di non ritornare mai più.
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