Izolyatsia promuove eventi artistici e culturali. Prima della guerra aveva sede nel Donbass, ora è a Kiev. I suoi valori non sono però cambiati: garantire la libertà di opinione
(Questo servizio è frutto di una collaborazione tra OBC e Eurozine nell'ambito del progetto di Eurozine ‘Beyond conflict stories: Revealing public debate in Ukraine’ finanziato da Open Society Initiative in Europe all'interno di Open Society Foundations.)
Un tempo la sede di Izolyatsia, piattaforma per iniziativa artistiche e culturali lanciata nel 2010, era una vecchia fabbrica di materiali isolanti. Oggi è una palazzina dismessa di un cantiere navale. In questo senso non ci sono state troppe variazioni: pur sempre di strutture industriali si tratta. E non sono cambiate neanche le attività promosse: mostre, concerti, dibattiti, open call, dialogo costante con i movimenti artistici nazionali, regionali e internazionali. È mutato però il luogo in cui tutto questo avviene. Fino al giugno del 2014 Izolyatsia operava a Donetsk. Dopo lo scoppio del conflitto nel Donbass si è trasferita a Kiev. E non certo per sua scelta.
Via da Donetsk
«Poco dopo aver assunto il controllo della città, i miliziani filo-russi si sono presentati armati alla nostra sede e l’hanno requisita», spiega Mykhailo Glybokyi, uno degli animatori di Izolyatsia, secondo cui i ribelli sono stati mossi da due ragioni. La prima è infrastrutturale. «I nostri spazi erano grandi, ammobiliati. Avevamo buoni collegamenti Internet. Infatti i filo-russi ne hanno fatto un quartier generale. A quel che si dice, una parte della struttura funge anche da carcere». I ribelli sostengono tuttavia che sia utilizzata come deposito per aiuti umanitari.
Il secondo motivo della requisizione, invece, è propriamente politico. «Noi di Izolyatsia siamo aperti a valori quali la libertà di stampa e di opinione. Abbiamo sempre creduto negli scambi artistici e nel dialogo con altri movimenti artistici, anche occidentali. Ma quest’attitudine non era ben vista dai ribelli», spiega Glybokyi. E non potrebbe essere diversamente, visto che la guerra in Ucraina ha ridefinito il campo, da ambo i lati della barricata, di ciò che può o non può essere tollerato.
Arte e droni
Visitiamo la palazzina di quattro piani, situata a ridosso del fiume Dnipro, che a Kiev fa da nuova casa per Izolyatsia, fondata da Liuba Mikhailova, un’imprenditrice molto ricca. Al primo piano si tengono concerti e rappresentazioni teatrali. Al secondo si organizzano mostre. Al terzo ci sono studi per artisti e designer, oltre a uno spazio per il co-working. Nell’ultimo, infine, si trova Izone, uno dei pochi incubatori creativi dell’ex repubblica sovietica. La responsabile è Aleksandra Kovaleva. «Qui diamo a dei giovani la possibilità di coltivare il proprio talento. Concediamo loro spazi gratuiti, in cambio sono soltanto tenuti a produrre».
Anna, una giovane artista, da poco uscita dall’Accademia di Belle Arti di Kiev, è tra chi usufruisce di questi spazi. «Per ora non ho progetti artistici precisi. Devo affinare le idee. In ogni caso qui sto bene, mi sento libera», dice, mentre i responsabili di Izolyatsia preparano una conference call con Liuba Mikhailova, che si collegherà da New York, discutendo concitatamente nel corridoio che corre tra le due ali di laboratori del quarto piano. Uno di questi, forse il più interessante, è un’officina tecnologica – si chiama Izo Lab – dove alcuni ragazzi, tutti giovanissimi, concepiscono stampanti 3D, macchine per il taglio al laser di legno e plastica, persino droni. Vlad ne è il manager. «Il nostro obiettivo è essere innovativi e confrontarci, al tempo stesso, con altri centri di questo tipo. Fortunatamente Izolyatsia ci appoggia finanziariamente. Ma cerchiamo anche di essere sostenibili, organizzando campagne di crowdfuding». Le raccolte fondi online, d’altra parte, sono ormai una realtà consolidata in Ucraina.
Salvare mosaici
Tra le iniziative più valide promosse da Izolyatsia dopo la fuga da Donetsk c’è Soviet Mosaics in Ukraine, varata poco più di un anno fa. È sia un’operazione di catalogazione dei mosaici monumentali realizzati nell’Ucraina sovietica, sia una campagna per la loro salvaguardia. Ievgeniia Moliar ne è la curatrice. La incontriamo. «A oggi ne abbiamo archiviate trecento, ma di opere del genere, in tutto il Paese, ce ne sono più di duemila. Diverse risalgono ai tempi del “movimento di protesta”, corrente artistica degli anni ’60 e ’70. Nel campo delle arti, in quell’epoca, si riscontrò una fase di liberalizzazione che permise agli artisti di esprimere dissenso, anche se non in modo esplicito. Dunque questi mosaici, integrati nei paesaggi urbani grazie alla collaborazione tra artisti e architetti, molto in voga in quei decenni, contengono proprio questo: un messaggio di protesta e di critica nei confronti del sistema sovietico».
Queste opere, oggi, sono in pericolo. Da una parte c’è la necessità di restaurarle. Dall’altra, entra in gioco la legge sulla “decomunistizzazione”. Impone di cambiare nomi di strade, piazze e centri abitati intitolati a personalità sovietiche (visto da più parti come espressione della dominazione russa sull’Ucraina), ma prevede anche la rimozione di simboli del comunismo – equiparato al nazismo da questa stessa legge – presenti in opere d’arte. Dunque, potenzialmente, anche quelli raffigurati in alcuni mosaici. «La trovo una cosa senza molto senso. Il simbolo fa parte dell’arte, eliminandolo viene meno l’intera opera. Il paradosso, tra l’altro, è che il valore politico dei mosaici sta nel messaggio di dissenso, non nell’esaltazione dei miti sovietici», sostiene Ievgeniia Moliar, secondo cui la legge sulla decomunistizzazione è stata fatta per compiacere l’estrema destra. La sua presenza attiva sul fronte del Donbass viene spesso tramutata in strumento di ricatto nei confronti del governo centrale.
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