La nuova tregua in Donbass sembra reggere, gli obici a nord di Donetsk tacciono, da qualche giorno non si registrano vittime mentre la città continua la propria ricerca della normalità. Intanto le banche sono senza soldi, le pensioni non sono pagate da mesi e nei centri di distribuzione del cibo per i poveri le file sono sempre più lunghe
Un pick-up senza targa parcheggia proprio davanti al ristorante Sun City. Due miliziani scendono mettendosi a tracolla i kalashnikov. Nel ristorante, immerse in una nebbia di sigaretta, due donne in mimetica fumano e aspettano. I loro fucili sono poggiati alla parete. Quando gli uomini entrano, salutano, poggiano anche i loro lì vicino, si siedono e cominciano a scherzare. Donetsk in questi giorni è così. La vita ordinaria s’è travestita da guerra. La città è piena di armi e la mimetica è il capo d’abbigliamento più diffuso.
Ora che l’artiglieria non tuona più – la nuova tregua in vigore da qualche giorno sembra resistere – l’inarrestabile ricerca della normalità assume un aspetto meno surreale. Il coprifuoco è ancora in vigore, ma non è raro vedere qualcuno in giro anche dopo le nove di sera. I locali chiudono poco dopo l’imbrunire, ma cominciano a tirare giù la saracinesca sempre più tardi.
Il fucile più grosso
Il bar karaoke Tirol si trova proprio ad angolo tra piazza Lenin e la prospettiva Iliča. Il sabato sera si riempie come ai tempi prima della guerra. Un omone che ha alzato troppo il gomito stona una canzone russa. Mentre barcolla col microfono in mano gli cade di tasca una mazzetta di contanti. Il pavimento è tappezzato di banconote da 200 grynvnia. Lui molla il microfono e si china a raccoglierle. Succede qualcosa tra lui e un miliziano. Si abbaiano l’un l’altro con i nasi che quasi si toccano. Il miliziano tira fuori una pistola e gliela punta in faccia. Quello non si scompone. Le cameriere in abiti tirolesi servono i tavoli scansando la scena come niente fosse. Dalla porta entrano un gruppo di militari tutti armati. Uno porta a tracolla una grossa mitragliatrice con treppiede che sembra un cannone. Il miliziano rimette la sua pistola nella fondina e l’omone riprende il microfono. Tutto torna come prima.
Scene come questa sono all’ordine del giorno a Dontesk. La “capitale” della Dnr, Donetskaya narodnaya respublika, è allo stato magmatico. La creazione del nuovo paese, e insieme a esso della Novorossiya, è ancora allo scontro primordiale di forze. Lo stesso avvicendamento ai vertici della scorsa estate, che ha portato al comando la figura fino allora secondaria di Aleksandr Zakharčenko, nonostante la facciata ha tutto il sapore di una lotta per il potere. Nella Dnr, a tutti i livelli, è la legge del più forte che predomina. Anche nelle gerarchie militari, al di là delle più alte figure di comando, a volte non è chiaro chi dà gli ordini. E spesso è quello col fucile più grosso.
Niente lussi
Piazza Lenin non è mai stata così vuota. Un po’ tutta la città, a dire il vero, lo è. La lunga via Artema che spacca Donetsk in due da nord a sud è una fila di negozi chiusi. Le vetrine sono nascoste dietro assi di legno e le insegne a volte sono cadenti. Molti negozi stanno riaprendo, soprattutto alimentari e beni di prima necessità. I marchi stranieri sono scappati. McDonald’s ha chiuso i suoi fast-food già all’inizio delle tensioni separatiste. E così hanno fatto anche gli altri. La boutique Daniela Drei ha le porte aperte, ma non vende più abiti di lusso italiani. La coda di babushke e pensionati fino al marciapiede è un chiaro indizio. È uno dei centri di distribuzione di cibo per i poveri. “Ci danno un pacco così due volte al mese”, dice una donna appena uscita. “È pochissimo, ma almeno possiamo sopravvivere. La pensione non ce la pagano da quattro mesi”. Nella busta, riso, farina, biscotti, tonno in scatola. “Ringrazio la Dnr”, dice un uomo che sa di alcol. “Io sono invalido, mia moglie è pensionata e mia figlia è malata. Abbiamo bisogno di questo aiuto”.
Altri centri di distribuzione sono stati aperti in ristoranti di lusso espropriati, mentre negli scorsi giorni l’amministrazione ha annunciato di voler istituire mense per i poveri nei McDonald’s. In quello vicino alla stazione dei bus, hanno messo un negozio di alimentari locali senza nemmeno togliere le insegne. “Mi sembra giusto”, dice una donna là davanti. “I nostri giovani devono mangiare i buoni prodotti nazionali, e non gli hamburger”.
Senza soldi
Anche le banche sono chiuse. L’unica che funziona è la Oščadbank, ma pure i suoi bancomat sono a secco di contante e la fila per prelevare agli sportelli può durare ore. La mancanza di moneta è un problema in più anche per chi ha dei risparmi in banca. Pochissimi negozi accettano le carte di credito e nei piccoli alimentari, che sono la maggioranza di quelli aperti, la spesa la si può fare solo in contanti.
Maryia è una giornalista freelance. Scrive per un giornale online ucraino. Lo stipendio le viene versato da Kiev direttamente sul conto in banca, ma lei non può prendere i soldi. “Per fortuna da poco ha riaperto un supermercato che accetta le carte di credito, ma non sai mai quanto può durare. E poi, il supermercato è sempre più caro dei negozietti. Non posso scegliere”.
Il problema dei prezzi rende la vita, se possibile, ancora più difficile. La condizione economica generale dell’Ucraina (nelle repubbliche separatiste si continua a usare la valuta nazionale, la gryvnia) sta facendo galoppare l’inflazione. In più, il trasporto dei prodotti nei territori separatisti è difficile e pericoloso. Per questo tutto costa di più.
L’amministrazione ha annunciato aiuti sociali ai più poveri, qualcosa come 25 euro al mese. Una goccia nell’oceano. La mancanza di fondi non è un segreto. Kiev non ha più intenzione di trasferire denaro che poi sarà amministrato dai separatisti. Lo stesso Zakharčenko ha ammesso che gli aiuti sono possibili grazie a donazioni di privati. Ma non è una fonte su cui si possa basare un bilancio statale. E ci si domanda come la Dnr potrà affrontare l’inverno.
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