Da febbraio a oggi, non è praticamente mancato giorno che si registrassero scontri lungo la linea di frizione e che il cessate il fuoco fosse dato per morto. Intanto, i leader del Quartetto Normandia sono tornati a parlarsi
“Niente uccide la gente più dei cessate il fuoco”, ha scritto in un editoriale sul Bild Julian Reichelt, reporter di guerra con una lunghissima esperienza. Si riferiva proprio all’Ucraina. Eppure, al di là dell’efficacia dell’immagine per indicare tutti gli scricchiolii di questa tregua, Reichelt ha torto.
I combattimenti delle ultime settimane, i più forti dall’inizio della tregua, sembrano confermare i timori di una ripresa del conflitto. Nonostante questo, però, non è ancora arrivato il momento di mettere l’ultimo chiodo alla bara di Minsk-2.
Chi era a Donetsk in quei giorni di febbraio, ha visto la differenza. L’artiglieria faceva vittime in piena città quotidianamente. Fermate del bus, mercati, abitazioni erano bersagli frequenti di obici e mortai fino a poche ore prima dello scoccare della tregua. E il tuonare delle armi era un inquietante sottofondo della città. Ma già immediatamente dopo la mezzanotte del 14 febbraio, a frastornare era il silenzio. E il mattino seguente, in una soleggiata domenica, per la prima volta da mesi si rivedevano famiglie con i bambini nei parchi della città. E anche se nelle stesse ore si scatenava una delle più violente battaglie di tutta la guerra, quella per la conquista di Debaltseve – un altro controsenso di questa tregua – la gran parte della popolazione civile delle zone in conflitto poteva finalmente uscire dai rifugi a riveder le stelle.
Andando a vedere i numeri, la sensazione è una certezza. Secondo l’Ufficio per il coordinamento degli affari umanitari delle Nazioni unite, UN-OCHA, sono morte dall’inizio del conflitto e fino al 15 febbraio scorso, giorno di inizio del cessate il fuoco, 5665 persone tra civili e militari. Una media di 566 morti al mese, ma con punte di 850 morti nel mese precedente la tregua, quando i combattimenti hanno raggiunto il picco. Da dopo Minsk-2 e fino al 3 luglio (ultimi dati ufficiali disponibili), invece, i morti sono stati 1099, mediamente 240 al mese. E molti, soprattutto civili, sono vittime di ordigni inesplosi o mine antiuomo e non di combattimenti.
Una tregua che ha ucciso più di mille persone, certo. Eppure, pur sempre un passo avanti rispetto alla guerra aperta. Tutto sta a farne altri di passi.
La tregua che uccide
Ed è qui forse il punto più debole di questa trattativa in cui finora è sembrato che nessuno volesse veramente la pace, una pace duratura. Dalla firma di Minsk-2, infatti, non è stato compiuto nessun vero progresso per la definitiva soluzione del conflitto. Gli incontri dei mesi successivi – del gruppo di contatto e a livello ministeriale del cosiddetto formato Normandia, quindi a un livello “inferiore” – non sono serviti finora né a fermare del tutto i combattimenti né a mettere d’accordo le parti belligeranti sullo status dei territori separatisti. Intanto, nelle ultime settimane ci sono state almeno due impennate degli scontri.
All'inizio di giugno i media di tutto il mondo hanno riferito una ripresa su larga scala del conflitto, soprattutto attorno alla periferia ovest di Donetsk. “Vogliono farla sembrare la battaglia di Fallujah”, mi ha detto una fonte locale, “Ma non è niente di tutto questo”. Le versioni delle due parti sono, come sempre, uguali e simmetriche. Per Kiev, i ribelli hanno attaccato il sobborgo di Makeevka, sotto il controllo dei governativi. Per i separatisti, l’esercito ucraino ha attaccato le loro postazioni in un tentativo di manovra a tenaglia. In ogni caso, è stata la prima volta dall’inizio della tregua che sono tornati a fischiare i razzi Grad e l’artiglieria pesante, che secondo gli accordi dovrebbero trovarsi a distanze superiori alla loro portata rispetto alla linea di frizione.
Poi, il 18 luglio scorso, i mortai hanno colpito per tutto il giorno bersagli nel centro di Donetsk, uccidendo almeno una quindicina di civili. La città non era stata più toccata dall’inizio della tregua.
Testimoni locali affermano di aver udito colpi in entrata e in uscita dalla città, ma è davvero difficile sapere chi ha sparato per primo. Come se non bastasse, sono molte le testimonianze secondo cui non solo i separatisti ma anche i governativi stanno riportando le armi pesanti all’interno della fascia demilitarizzata. E non passa giorno che il presidente ucraino, Petro Poroshenko, lanci l’allarme di un’imminente attacco russo su larga scala. Ce ne sarebbe abbastanza per temere il fallimento dei negoziati.
Piccoli passi
Finora, fortunatamente, la tanto temuta ripresa della guerra su vasta scala non c’è stata. Da ultimo poi sembra che qualcosa si stia muovendo nelle stanze della diplomazia. Il 22 luglio, finalmente, i quattro capi di stato del quartetto Normandia – Petro Poroshenko, Vladimir Putin, Francoise Holland e Angela Merkel – sono tornati a parlarsi per la prima volta dopo il meeting di Minsk. In teleconferenza.
Quello che è trapelato sembra andare verso una soluzione del problema Donbass. Una soluzione, però, un po’ più “russa” rispetto agli accordi. Secondo quanto riferito da fonti dell’Eliseo, si è discusso in particolare della demilitarizzazione della fascia di 15 chilometri lungo il fronte. Cosa già prevista a Minsk. Ma nel calderone sarebbe finita anche Shirokine, baluardo difensivo della città di Mariupol, sul Mar d’Azov. Le parti si sarebbero accordate per il ritiro delle truppe ucraine stanziate nel villaggio, lasciando di fatto sguarnito un obiettivo dichiarato dei miliziani e per il quale si è combattuto violentemente fino a oggi. Un punto non previsto negli accordi di febbraio e un boccone duro da mandare giù per le frange più interventiste della politica ucraina.
Putin avrebbe poi insistito sulla concessione dell’amnistia a tutti i ribelli dell’Est come condizione necessaria per proseguire nei dialoghi. La richiesta implicita è che Kiev riconosca gli attuali leader separatisti come interlocutori (cosa che non è ancora accaduta, se non a livello del cosiddetto gruppo di contatto), legittimandoli anche in caso di elezioni locali e di concessione dell’autonomia. Una condizione finora sempre dichiarata irricevibile da Poroshenko. Ma che il presidente ucraino potrebbe alla fine accettare obtorto collo, sotto forti pressioni, soprattutto americane, che vedono nell’implementazione degli accordi di Minsk l’unica via d’uscita dall’impasse con la Russia. Anche a costo di qualche pezzetto di Ucraina.
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