Tra l’autobomba che ha ucciso Pavel Sheremet e il ritrovamento del cadavere di Alexander Shchetinin è passato appena un mese. La morte dei due giornalisti avviene in un clima di crescente pressione sulla stampa ucraina
Alexander Shchetinin è stato trovato senza vita sul balcone di casa sua a Kiev il 28 agosto scorso. Aveva un colpo di pistola alla testa. Un'arma era a pochi passi da lui. Pochi giorni prima aveva scritto un’email in cui annunciava l’intenzione di suicidarsi.
Shchetinin era un giornalista russo rifugiatosi in Ucraina dopo essere passato da posizioni filo-Putin a scrivere articoli estremamente critici contro il Cremlino. Nell’email inviata poche ore prima di spararsi ha detto che non sopportava più la lontananza dai suoi figli, e che amava l’Ucraina e la sua gente. Alcuni mezzi d’informazione non hanno resistito però alla tentazione di mettere in risalto come negli ultimi anni Shchetinin si opponesse alla narrativa dei media russi e avesse sposato la causa ucraina.
La sua morte, indipendentemente dal fatto che si possa trattare di suicidio per motivi personali, manda un nuovo brivido agli ambienti della stampa, appena un mese dopo che una bomba messa sotto la sua auto ha ucciso nel centro di Kiev Pavel Sheremet, un altro celebre giornalista, questa volta bielorusso.
Il fatto è che, a due anni e mezzo dalla rivoluzione della Maidan, la sicurezza dei giornalisti ucraini non è un fatto scontato. Anche a causa della classe politica e di un’opinione pubblica disinteressata, o forse distratta da problemi che la toccano più da vicino, come la crisi economica e la guerra.
E infatti, non hanno fatto il dovuto scalpore le dimissioni di Tetiana Popova dalla carica di viceministro dell’Informazione. “Mi dimetto perché non sono d’accordo con gli attacchi ai giornalisti e alla libertà di stampa da parte di alcuni politici. Non posso tollerare la mancanza di alcuna reazione a questi attacchi”, ha scritto sulla propria pagina Facebook.
Segnali di peggioramento
Il giorno prima dell’assassinio di Sheremet una giornalista dell’edizione ucraina di Forbes, Maria Rydyan, è stata ferita con ripetute coltellate da uno sconosciuto mentre passeggiava in un parco di Kiev, mentre cinque giorni dopo Sergei Golovnyov, caporedattore di Business Censor, è stato assalito per strada da due uomini non identificati. Secondo dati dell’ufficio del procuratore generale, nei primi sei mesi del 2016 ci sono stati in tutto il paese 113 crimini ai danni di giornalisti, compresi 28 casi di violenze o minacce. Il Kyiv Post, settimanale in lingua inglese, ha contato oltre 50 casi di giornalisti uccisi o morti in circostanze sospette dall’indipendenza dell’Ucraina, nel 1991, ad oggi.
L’Ucraina di prima della Maidan era certamente un posto pericoloso per i giornalisti che andavano a far domande sugli affari loschi degli oligarchi e le storie di corruzione, per quanto una stampa libera non sia mai mancata. La fuga di Yanukovich e il dissolversi del suo sistema cleptocratico ha portato nuovo slancio alla libertà di stampa e al pluralismo. Ora, dopo più di due anni di guerra e con una società sempre più polarizzata, molti segnali fanno temere un peggioramento della situazione.
L’aggressione della Russia culminata con l’annessione della Crimea e con il conflitto in Donbass non ha portato con sé solo bombe e carri armati ma anche la devastante arma della disinformatsija. La risposta ucraina ha generato la figura dei “giornalisti patriottici”, addetti all’informazione a vario titolo che tagliano il mondo con l’accetta, i buoni da una parte e i cattivi dall’altra, e che vedono dietro ogni critica anche lontana all’Ucraina un complotto della Russia.
I giornalisti che provano a mettere in discussione la versione ufficiale degli uffici stampa governativi, che raccontano storie dal fronte diverse dalla narrativa di Stato o che, semplicemente, hanno provato a fare il loro lavoro dall’altra parte del fronte, si sono trovati improvvisamente nel mirino di troll ultranazionalisti, attaccati verbalmente dai “giornalisti patriottici”, accusati di tradimento da membri del governo.
Una manipolazione in stile Cremlino
Hromadske TV è proprio uno dei mezzi d’informazione nati sulle barricate della Maidan. Animata da giovani giornalisti, è stata sin da subito la televisione indipendente più seguita da chi cercava una versione dei fatti che non fosse drogata dalle falsità di Stato. A luglio i suoi giornalisti sono stati oggetto di un fuoco incrociato da parte dei troll “patriottici” e dell’ufficio stampa dell’esercito dopo che una troupe al fronte si era trovata sotto il fuoco separatista insieme ad alcuni soldati. L’accusa era quella di aver rivelato informazioni sulla postazione militare ucraina. “Si è trattato di un attacco organizzato”, ha scritto l’amministratrice di Hromadske, Katya Gorchinskaya, in un editoriale sul britannico The Guardian. “Una fonte ci ha detto che è stato il lavoro di tre diversi gruppi di troll e di una bot farm. Non sappiamo chi ha ordinato l’attacco, ma le loro argomentazioni erano fortemente filogovernative. Il governo ha sguinzagliato un esercito di troll contro i giornalisti indipendenti? Un paese come il nostro, in guerra con la Russia, sta usando le stesse tattiche di menzogna e manipolazione del Cremlino?”, si chiede Gorchinskaya.
Secondo il think tank Detector Media, che si occupa di monitorare l’informazione in Ucraina, la situazione non è grave come viene dipinta. “Non c’è alcun problema di mancanza di voci critiche, anche forti, verso i politici, le istituzioni e gli uomini d’affari ucraini. Anche il dato delle 113 denunce riferito dalla procura è pur sempre un miglioramento rispetto alle 143 dello stesso periodo dello scorso anno”, hanno scritto sul sito dell’organizzazione Natalia Ligachova e Galina Petrenko. “Ammettiamo che ci sono molti problemi e molte sfide, ma c’è anche una sopravvalutazione della questione dovuta alla tradizionale sensibilità dell’Occidente verso la libertà di stampa e i diritti dei giornalisti”. Sembra il dilemma del bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto.
Politica compiacente
Quello che molti giornalisti trovano allarmante è la mancanza di una reazione agli attacchi da parte delle autorità ucraine. Tra aprile e maggio il sito Mirotvorets, legato all’organizzazione fondata da Georgiy Tuka, ex governatore della regione di Luhansk e attuale viceministro per i “Territori temporaneamente occupati”, ha reso pubblici i nomi, le email, i numeri di telefono e di passaporto di migliaia di giornalisti che hanno lavorato nei territori separatisti durante gli ultimi due anni di guerra. In un file Excel nominato “Canaglie” e pubblicato sul web sono finiti i dati personali di 7mila giornalisti, tra cui quelli di chi scrive. Il gruppo dietro l’operazione, che gestisce un database dei miliziani separatisti e dei collaborazionisti da segnalare alla giustizia ucraina, ha detto che “la pubblicazione della lista è necessaria perché questi giornalisti hanno collaborato con i membri di una organizzazione terroristica”.
Mirotvorets è già stato in passato oggetto di controversie. Nell’aprile del 2015 il giornalista ucraino dalle forti posizioni filorusse Oles Buzina e l’ex membro della Rada Oleg Kalashikov sono stati trovati uccisi meno di due giorni dopo che i loro nomi e indirizzi erano finiti nel suo database.
Tetiana Popova, allora ancora in carica, è stata forse l’unica componente del governo a schierarsi contro la pubblicazione della lista. “Ho sin da subito chiesto che fosse cancellata, ma sfortunatamente si sono rifiutati e hanno persino allungato la lista”, ha detto interpellata da Obc.
Invece di prendere una forte posizione contro una tale intimidazione di massa, il ministro dell’Interno Arsen Avakov ha gettato benzina sul fuoco chiamando i giornalisti nella lista “liberal-separatisti”.
Settimane dopo la diffusione dei dati il presidente Poroshenko, sollecitato da una domanda durante la conferenza stampa annuale, ha blandamente condannato la lista di Mirotvorets, invitando però nello stesso tempo i giornalisti a non scrivere “articoli negativi” sull’Ucraina. Un concetto quantomeno discutibile di libertà di stampa.
Questa pubblicazione è stata prodotta nell'ambito del progetto European Centre for Press and Media Freedom, cofinanziato dalla Commissione europea. La responsabilità sui contenuti di questa pubblicazione è di Osservatorio Balcani e Caucaso e non riflette in alcun modo l'opinione dell'Unione Europea. Vai alla pagina del progetto
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