Patrasso. Insieme a migranti di mezzo mondo, anche i muhajirin aspettano il momento buono per scavalcare le reti che delimitano il porto, in un surreale e pericoloso gioco a rimpiattino con la polizia. La posta, però, è alta: una nave verso l'Italia e il sogno chiamato "Europa"
Sdraiato su un fianco, Abdallah guarda il sole sprofondare nell'Adriatico. Una brezza leggera spolvera la terrazza abbandonata dove stanno allineati vecchi materassi. E' il dormitorio dei migranti algerini. “Quello laggiù”, dice Abdallah guardando l'orizzonte infuocato “non è il mare”. Raccoglie una pagliuzza e la passa tra i denti bianchissimi. “Quella è la tenda di un grande palcoscenico. Se la apri, vedi lo spettacolo più bello del mondo: l'Europa...”
Patrasso. L'eco di sirene gracchianti scandisce arrivi e partenze dei traghetti diretti in Italia. Bestioni d'acciaio compiono lente manovre millimetriche tra i moli, in uno specchio d'acqua ampio mezzo chilometro. Alte recinzioni ornate da rotoli di filo spinato sanciscono il limite invalicabile del porto. Dall'alto della terrazza, gli harragas algerini riescono a controllare tutto questo in un solo colpo d'occhio.
“Guarda laggiù”, dice Abdallah indicando verso nord, nei pressi dell'edificio che ospita la biglietteria. “Quello è il posto degli afghani. Loro scavalcano lì”. Poi indica la zona ai nostri piedi: “Qui sotto scavalchiamo noi. Algerini, marocchini, tunisini, palestinesi”. Poi volge lo sguardo a sud. “Quel tratto non l'ho mai visto da vicino. Lì ci sono gli africani. E ancora più in fondo i curdi”. Oltre la rete, unità di polizia portuale in motocicletta pattugliano nervosamente la zona.
Giovedì. Principale terminal commerciale della Grecia occidentale, Patrasso è da anni il punto di partenza dei migranti diretti in Europa. Dopo appena mezz'ora dal mio arrivo in città, camminando sul lungomare, mi imbatto in un gruppo di ragazzi arabi seduti sul ciglio del marciapiede. Il porto è dall'altro lato della strada, oltre le recinzioni. “Salam u aleikum.” Un'espressione di stupore per l'inaspettato saluto attraversa il loro volti. “U alaikum assalam”. Abdallah è l'unico a rispondermi. Mi siedo al suo fianco. Laureato in biologia in Germania, Abdallah ha vissuto per sei anni in Europa. Parla tedesco, inglese, francese ed arabo. Finiti gli studi, non ha più potuto rinnovare il visto Schengen, necessario per risiedere in Europa. Ora, come gli altri ragazzi seduti intorno a me, tenta di scavalcare le reti per entrare in un traghetto diretto in Italia.
“Una volta saltata la recinzione, bisogna infilarsi in uno dei camion in sosta, oppure in quelli già in fila. Ma non è facile, solo una o due persone al giorno riescono a passare”. Mentre ascolto la spiegazione, tre ragazzi si alzano in piedi e attraversano la strada. Gettano una coperta sul rotolo di filo spinato che sormonta la recinzione e si arrampicano, aiutandosi reciprocamente. Un albero oltre la rete è un appiglio prezioso per evitare il salto sul filo spinato arrotolato alla base del recinto. “Nel camion ci sono tre posti in cui nascondersi: il deflettore sulla cappotta, il cassone sotto il rimorchio e gli assi delle ruote posteriori.” Le moto della polizia portuale girano instancabilmente tra gli autotreni.
Mentre saliamo sulla terrazza, Abdallah mi confessa che per lui è una brutta giornata e che oggi non ha nessuna voglia di tentare la sorte. “Stamattina il mio amico Osman mi ha telefonato da Venezia. E' riuscito a partire due giorni fa, semplicemente fingendosi turista. Sono felice per lui, ma ora mi sento veramente solo. Eravamo insieme da quattro mesi, giorno e notte. Tra qualche giorno sarà a Francoforte, dove c'è anche la mia ragazza. Le dirà che presto arriverò anche io”.
Cala la notte. Da soli o in piccoli gruppi, tutti gli harragas tornano all'accampamento. Nessuno di loro è riuscito a farcela. “Fino a mezzanotte non ci sono partenze, rimanere in strada è inutile”. Riuniti in cerchio, ripetono a memoria gli orari di tutte le compagnie che fanno scalo nel porto. Uno di loro è qui da dieci mesi.
Seduti in un angolo, due ragazzi affettano cipolle, pomodori e peperoni nel fondo di una tanica di plastica tagliata a metà. Condivideranno il pasto con gli altri. “Vuoi mangiare con noi?” Accendo un sigaretta. “Grazie, non ho fame”. Poco prima avevo visto le stesse persone cercare cibo nei secchi della spazzatura.
Alle dieci siamo di nuovo a ridosso delle reti. Negli istanti precedenti al salto l'eccitazione sale alle stelle, la tensione vibra nell'aria. Assisto attonito a quello che continua a sembrarmi un gioco. Con la stessa agilità con cui accedono al porto, i ragazzi ne fuoriescono precipitosamente, inseguiti dalla polizia. Una volta in salvo, i migranti scaricano l'adrenalina lanciando bestemmie e imprecazioni contro gli agenti rimasti al di là delle reti. I poliziotti fanno altrettanto, indicando uno ad uno i volti dei migranti: “Ormai ti conosco, prima o poi ti prendo!” Di tanto in tanto l'arrivo di una pattuglia sul lato esterno delle reti viene a disperdere il gruppo, ma basta rimanere per qualche minuto nascosti tra i vicoli per scampare al pericolo.
“I migranti che saltano le recinzioni sono solo una minoranza di quelli che transitano da Patrasso. La maggior parte di loro, infatti, sale nei camion già ad Atene, organizzata dai trafficanti. Quei camion non vengono quasi mai controllati dalla polizia”. Venerdì mattina. Il dottor Christos Karapiperis, ricevendomi nella sede della Croce Rossa, mi racconta della realtà di cui si occupa ormai da anni. “Lo scorso anno alti ufficiali della polizia greca sono stati arrestati per avere svolto un ruolo importante nel traffico dei migranti. D'altronde” aggiunge Karapiperis, “il giro di soldi è enorme. Ormai un passaggio per Bari costa fino a settemila euro”. A far lievitare i prezzi della corruzione è soprattutto il miglioramento delle tecniche adottate dalla polizia per individuare esseri umani a bordo dei camion: non più le tradizionali unità cinofile, ma sofisticati rivelatori di anidride carbonica e di calore.
“Questo è l'unico presidio medico in tutta Patrasso a cui possono rivolgersi i migranti. Noi non chiediamo i documenti a nessuno. Dallo scorso maggio, però, il governo ha ridotto a zero i nostri fondi”. Nel piccolo pronto soccorso al primo piano, gli operatori della Croce Rossa hanno continuamente a che fare con traumi da percosse o da cadute. “La polizia portuale è di una violenza inaudita. Nel porto c'è un container adibito a cella di sicurezza, dove finiscono i migranti catturati dopo aver scavalcato le reti. Quando escono, sono ridotti malissimo”.
Mezzogiorno. Dopo l'attracco della Superfast Ferries proveniente da Bari, frotte di turisti si riversano sul molo principale in attesa dell'autobus. La fila di automobili che fuoriesce dalla pancia della nave si disperde lentamente in città. Bar e ristoranti adiacenti al porto servono menù da venticinque euro a persona.
A pochi metri di distanza, nascosto dai cespugli che ornano la piccola stazione ferroviaria, un gruppo di migranti si genuflette su miseri ritagli di cartone. Questo venerdì, come molti altri venerdì, non ha offerto loro un luogo più dignitoso dove pregare.
In serata mi spingo verso l'area dei muhajirin afghani, un vecchio deposito ferroviario a cui corrisponde un tratto di rete di un centinaio di metri. La divisione tra i gruppi etnici delle zone di appartenenza delle reti è netta, scrupolosa, fatale. Pestaggi e accoltellamenti hanno avuto origine proprio da violazioni di questa norma.
Il sole cala lentamente, inondando di rosso il molo e i volti dei ragazzi afghani. Sono una sessantina di persone, tutte sotto i vent'anni. Alcuni sono ancora bambini. L'unico ad aver visto l'italia è Abu Mullah, un adolescente pieno di risorse. “Italia bene, polizia niente mazzate. Polizia greca cattiva!” Mentre parla mima gesti inequivocabili: pugni, calci, schiaffi, spinte.
Dopo sette mesi trascorsi in Italia, Abu Mullah è stato arrestato ed ha ricevuto un foglio di via. Scappato in Francia, è stato nuovamente arrestato. La gendarmerie ha confrontato le sue impronte con quelle contenute nel sistema Eurodac, un database in cui vengono memorizzate le impronte digitali dei migranti di tutta Europa. A quel punto è scattato l'immediato trasferimento in Grecia: l'Europa infatti obbliga i richiedenti asilo a risiedere nel primo paese membro in cui vengono identificati, in attesa che il loro status venga definito. Questo sistema, definito dai tristemente noti Accordi di Dublino, condanna migliaia di afghani a restare bloccati in Grecia a tempo indeterminato.
“A me non importa niente di Dublino. Appena arrivo in Italia sposo una ragazza italiana, così nessuno può cacciarmi. Vero?” Una risata innocente accompagna la domanda di Abu Mullah. Illusione, sogno e desiderio si confondono nell'immaginazione di questi ragazzi. Danno quasi l'idea di una scolaresca in gita: ridono, scherzano, si danno pacche sulle spalle.
Quando un camion arriva nei paraggi, però, cambiano repentinamente atteggiamento. Come felini durante una battuta di caccia, abbassano la voce, si appiattiscono al suolo. Cinque o sei di loro, secondo dinamiche che non riesco ad afferrare, partono verso il mezzo, scomparendo in lontananza nel polverone. Lascio i ragazzi ai loro sogni, mi allontano vagando a caso sul lungomare.
Il calare della notte segna l'inizio di un nuovo carosello. Migranti e polizia, reti e sirene, fughe e inseguimenti. Corro verso la zona degli afghani, dove una piccola folla incollata alle reti non suggerisce nulla di buono. Due agenti hanno appena catturato un muhajir e lo perquisiscono violentemente. Appena oltre la rete, davanti ai nostri occhi, il ragazzo viene steso a terra e calpestato, il suo bagaglio è rovesciato sull'asfalto. Le mie urla si uniscono a quelle dei muhajirin. I poliziotti reagiscono con una risata di sfida.
Sento la vibrazione nella tasca, guardo il monitor del cellulare. Sono incredulo. “Mussa Khan? Sei tu?” Nella confusione del momento, la risposta sembra non arrivare mai: “Hello kardash! Sono a Igoumenitsa!”
Da questa parte della rete i ragazzi sono solo dei puntini lontani. Neanche il tempo di salutarli tutti. Il mio traghetto parte puntuale, a mezzanotte. Tra otto ore abbraccerò Mussa Khan.
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