Hrvoje Turković, dalla critica cinematografica all'Accademia. Il cinema croato dal periodo jugoslavo ad oggi raccontato da un teorico. Nostra intervista
Quando e perché ha cominciato a lavorare nell'industria cinematografica?
Ho cominciato come pubblicista e critico cinematografico, lavorando in parte anche per la televisione. All'università ho studiato Filosofia e poi Sociologia, ma la mia ambizione era occuparmi di cinema a livello teorico e quindi, nel 1963-64, mi sono iscritto ad un corso presso il Film Club di Zagabria, un importante centro di cultura cinematografica.
Ho cominciato scrivendo piccoli pezzi polemici, che nascevano quasi come stralci delle conversazioni che facevamo da ubriachi al Film Club, quando parlavamo di cinema... Poi tra la fine degli anni Sessanta e l'inizio degli anni Settanta ho cominciato a lavorare in redazione. Non eravamo in molti ad occuparci di cinema a livello teorico. Dal 1963-64 fino agli anni Ottanta ho lavorato anche a Radio Zagreb, come autore per una trasmissione cinematografica.
A quali modelli culturali si guardava in quel periodo? Quali erano le influenze esterne più significative?
All'epoca il cinema era un concetto artistico più che commerciale, quindi la fonte principale di ispirazione era il cinema d'autore, ad esempio Fellini, Antonioni, e così via. Va detto che nel repertorio cinematografico, e quindi anche nel mio lavoro critico e di recensione, i film stranieri predominavano su quelli jugoslavi, quindi non era frequentissimo che ci si occupasse di film locali.
Per quale ragione, secondo lei? Era una questione di qualità dei film stessi, o semplicemente una conseguenza di una maggiore presenza numerica dei film stranieri?
Credo fossero semplicemente ragioni numeriche, commerciali. Il cinema croato è sempre stato più apprezzato all'estero che in patria. Il cinema straniero suscitava più interesse da parte del pubblico, in particolare i film europei, tra cui anche quelli italiani. Ovviamente, a seconda dei periodi, ci sono state delle mode legate ad alcuni autori o generi: la commedia italiana, il film d'autore francese, il cinema americano, e così via.
Esisteva qualche forma di controllo statale?
Sì, esisteva una commissione di censura che aveva l'incarico di valutare i film in uscita. Ogni film doveva ottenere l'approvazione della commissione per essere proiettato, anche se spesso si trattava di una formalità. Era difficile che a un film fosse negata l'approvazione, però la commissione poteva censurare, ad esempio, riferimenti politici o elementi erotici ritenuti troppo espliciti.
C'erano delle pressioni sugli autori per trattare particolari tematiche o si trattava di una scelta libera?
No, la scelta non era condizionata, se non da fattori legati al potenziale commerciale del film da realizzare. Del resto i film dettati da obiettivi politici, ad esempio su temi legati al sindacato, ai lavoratori e così via, non avevano molto successo.
In realtà, anche se la scelta era formalmente libera, c'era comunque una forma di autocontrollo legata ai finanziamenti, ovvero si rinunciava in partenza a realizzare film che non avrebbero ottenuto fondi. Esisteva infatti una commissione che valutava i progetti e le sceneggiature proposte, e in base a questo procedimento assegnava i fondi nei vari settori artistici, dalla letteratura al cinema al teatro. A differenza di oggi, i finanziamenti non andavano ai produttori, ma direttamente agli autori, che avevano poi il diritto di cercare autonomamente una casa di produzione.
E negli anni Novanta, lei ha trovato delle difficoltà a portare avanti il proprio lavoro?
Devo dire di no. Ero una figura marginale, e scrivevo su riviste poco conosciute e quindi sufficientemente innocue da garantirmi una certa libertà. Era la televisione il mezzo di comunicazione chiave per il regime, quindi l'attenzione ed il controllo politico si concentravano lì, oltre che sui giornali.
Com'è invece la situazione odierna riguardo alle possibilità di sviluppo per gli autori locali?
Con la guerra è cambiato tutto, e le condizioni sono peggiorate in modo catastrofico. La case di produzione hanno subìto la privatizzazione o la bancarotta, comprese le due principali: la Jadran Film per il cortometraggio e il film d'animazione, e la Zagreb Film per il lungometraggio.
La guerra, la transizione economica e l'aumento dell'inflazione hanno condotto ad una grave carenza di mezzi. Fino al 1990 in Croazia si producevano dai 2 ai 4 film l'anno, ma con la guerra la produzione si è quasi fermata. Ora invece è leggermente aumentata, si realizzano dai 5 ai 7 film ogni anno per quanto riguarda il lungometraggio. Ovviamente gli altri generi, come il documentario, hanno una produzione minore. Però, ad esempio, la televisione di Stato ha un certo interesse per il genere documentario, e quindi esistono dei finanziamenti specifici per dei progetti legati alla memoria storica. E a partire dal 2000 sono comparsi diversi autori interessanti anche nel campo dell'animazione.
Pensa che l'interesse della televisione pubblica per il genere documentario sia legato ad un suo possibile uso per scopi politici?
Credo che sia sempre stato così. Comunque esistono diversi tipi di documentario. Ad esempio, prima del 1990 e delle guerre questo genere non aveva un carattere marcatamente politico. Magari gli autori erano indottrinati, ma non necessariamente i film diventavano esplicitamente propagandistici. Negli anni Settanta e Ottanta si faceva attenzione ad evitare accenti nazionalistici, ma per il resto la scelta dei temi era relativamente libera. L'intento propagandistico ha cominciato ad emergere alla fine degli anni Ottanta, con l'inizio dei conflitti tra le repubbliche, e negli anni Novanta sono stati realizzati molti documentari a fini propagandistici. Anche ora è un genere molto popolare in televisione, quindi fa parte delle materie di studio ufficiali in Accademia, in quanto poi molti studenti vanno a lavorare in questo settore.
Può parlarci del suo lavoro nell'Accademia cinematografica di Zagabria?
Alla fine degli anni Settanta, quando ho cominciato a lavorarci, era un centro studentesco vivace ma completamente disorganizzato, e ho dovuto fare del vero e proprio lavoro manageriale. Oggi l'Accademia è una forte istituzione culturale, che ospita corsi di studio e svariate iniziative cinematografiche e non solo: rassegne di film sperimentali, retrospettive, una galleria, un centro multimediale, un salone musicale e un teatro. L'approccio è prevalentemente pratico, quindi si insegnano materie come montaggio e regia. Insegno anche materie più teoriche come la semiotica, ma sempre con approccio metodologico e in modo finalizzato all'analisi concreta delle opere cinematografiche, il che la rende molto più interessante per gli studenti. C'è una selezione molto forte, ad esempio all'ultimo concorso sono stati ammessi 4 studenti, su 40 che si erano presentati. Anche all'interno del corso c'è una competizione tra studenti che li porta a lavorare meglio, infatti in Accademia sono stati prodotti film molto buoni. E sin dall'inizio sono arrivati studenti dalle altre repubbliche o dall'estero, ad esempio dalla Slovenia, dal Kosovo e dalla Bulgaria.
Cosa vede nel suo futuro?
La pensione! Scherzi a parte, vorrei continuare a insegnare in Accademia, magari portando qualche innovazione nelle materie di studio, dando più spazio agli studi comparativi e fondando un corso di dottorato. Mi piacerebbe anche scrivere un libro, un'analisi sociologica del fenomeno televisivo.
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