Il partito filo-curdo della pace e della democrazia (BDP) annuncia la fine del boicottaggio del parlamento iniziato dopo le elezioni del 12 giugno. Lo sforzo di sviluppare un linguaggio non violento per parlare con Ankara è necessario per evitare il ritorno all'estrema violenza degli anni ’90
Il partito filo-curdo della pace e della democrazia (BDP) sarà presente all’apertura dei lavori del nuovo anno legislativo previsto per il prossimo primo ottobre. Lo ha comunicato il co-leader del partito Selahattin Demirtaş mercoledì scorso in conferenza stampa, annunciando la fine del boicottaggio del parlamento iniziato dopo le elezioni del 12 giugno da parte dei deputati BDP assieme ai candidati indipendenti con cui formano il Blocco per il lavoro, la pace e la democrazia.
Il mancato giuramento
I parlamentari del Blocco si erano rifiutati di prestare giuramento all’Assemblea nazionale per protestare contro la decisione dell’Alto consiglio elettorale di escludere dal parlamento Hatip Dicle, condannato al carcere per aver “lodato l’organizzazione terroristica PKK (Partito del lavoratori del Kurdistan), e altri cinque candidati eletti tra le file del partito in stato di arresto preventivo, sempre accusati di avere legami con il PKK.
I motivi alla radice del boicottaggio restano ancora validi: oltre al problema dei deputati esclusi continuano a sommarsi ogni giorno anche nuovi arresti rivolti ai membri del BDP, per presunti complotti terroristici con affiliazione al KCK (Koma Civakên Kurdistan, Unione delle comunità del Kurdistan). Negli ultimi sei mesi sono stati messi in manette 1.356 dirigenti e tesserati del partito, tra cui anche diversi sindaci.
Ma la situazione di crescente violenza in cui si trova la Turchia da due mesi ha messo in chiaro l’urgente bisogno di riavere nell’arena politica un interlocutore che parli col governo a nome dei curdi. La decisione del BDP di tornare in parlamento, che ha ricevuto un input importante dalle sollecitazioni di diverse organizzazioni della società civile e da buona parte della sua base elettorale, rappresenta un barlume di speranza per la ripresa del dialogo per la pace.
PKK e Forze armate: scontri e attentati
Sono ormai più di 150 le persone che hanno perso la vita da quando a metà luglio si sono intensificati gli scontri tra le Forze armate turche e la guerriglia del PKK. Gli attentati effettuati dal PKK nelle ultime due settimane hanno causato anche la morte di diversi civili.
All’inizio della scorsa settimana un attacco dinamitardo nel cuore di Ankara, rivendicato dal TAK (Falchi della libertà del Kurdistan, considerata una frangia radicale del PKK e che dal 2004 appare nei momenti di crisi con sanguinosi attentati nelle zone occidentali del Paese), ha causato la morte di 3 civili e diversi feriti; mercoledì 21 settembre in un nuovo attacco a Siirt, questa volta a opera del PKK, sono rimaste uccise 4 donne e ne sono state ferite due. I ribelli curdi, che poi si sono scusati per l’accaduto, avrebbero sparato sull’automobile scambiandola per una vettura della polizia in borghese. Martedì 27 invece, a Batman, i membri di una famiglia sono rimasti vittime del fuoco incrociato tra la polizia e il PKK (ma alcune testimonianze locali affermano che il fuoco è partito dalle forze speciali della polizia). Risultato: morti la madre e i due figli. 12 insegnanti sono inoltre stati rapiti dal PKK nel corso di questa settimana; un’azione legata alla richiesta dei curdi di avere un’istruzione nella propria madrelingua.
I bombardamenti nel Nord dell'Iraq
Intanto, dallo scorso mercoledì, l’esercito turco ha intensificato i bombardamenti aerei sul monte Kandil, nel territorio iracheno, dove sono stanziati i comandi, i depositi di armi e gli accampamenti dei guerriglieri del PKK. Secondo il bilancio fornito dalle Forze armate, dal 17 agosto a oggi sarebbero stati colpiti oltre 150 obiettivi militari. L’Assemblea nazionale valuterà a breve anche la richiesta del governo di prolungare, a partire dal prossimo 17 ottobre, l’autorizzazione a intervenire militarmente nel territorio iracheno per un altro anno, anche con l’impiego delle forze di terra.
Base antimissile e lotta al PKK
Mentre il presidente iracheno Jalal Talabani durante la visita del premier Recep Tayyip Erdoğan a New York per il 66° Consiglio Generale della Nazioni Unite, ha chiesto ad Ankara di fermare i bombardamenti nel Nord dell’Iraq, il presidente Barack Obama, ringraziando il governo turco per la disponibilità a stanziare a Malatya una base per i radar antimissile della NATO, ha riconfermato al premier Erdoğan “la solida collaborazione tra la Turchia e gli Stati Uniti nella lotta contro il terrorismo”. Nella stessa occasione il governo di Ankara ha presentato a Washington una proposta per l’acquisto o il noleggio di aerei robot predator. Erdoğan non ha inoltre escluso una “collaborazione con l’Iran nella lotta comune contro il PKK dal momento che “esiste già una condivisione delle informazioni con la sua intelligence in tal senso”.
Il segreto sulle trattative
La questione curda assomiglia sempre più a un serpente che si morde la coda, con il serio rischio di ritornare allo stato di estrema violenza degli anni ’90. Eppure le registrazioni di un incontro tenuto presumibilmente nel maggio 2010 a Bruxelles tra il MİT (Servizi segreti turchi) e il PKK, pubblicate su internet a metà settembre, indicano non solo che lo Stato turco aveva intavolato da lunga data delle trattative con il PKK e il suo leader incarcerato a İmralı Abdullah Öcalan – incontri ufficialmente sempre negati dal governo – ma che le trattative, condotte con il beneplacito del premier Erdoğan, stavano anche procedendo nella direzione del raggiungimento di un accordo tra le parti.
Difficile dire ciò che ha fatto precipitare la situazione. Sta di fatto che Abdullah Öcalan, ai cui avvocati è impedito di incontrarlo da due mesi, all’inizio di luglio aveva comunicato tramite i suoi legali che era stato trovato “un accordo con la commissione [dello Stato ndr] per la formazione di un Consiglio di Pace”, “un organismo”, a detta di Öcalan, “né statale e né prettamente civile che lavorerà per instaurare la pace”. Secondo quanto ha spiegato il co-leader del BDP Demirtaş, nello stesso periodo Öcalan avrebbe fatto consegnare al governo anche tre protocolli riguardanti le condizioni per il cessate il fuoco, la deposizione delle armi del PKK e i principi generali del processo verso una nuova costituzione democratica. Il governo però non avrebbe accettato le condizioni presentate.
La posizione di Erdoğan sulla “lotta al terrorismo” è netta: “le operazioni militari continueranno fino a quando il PKK non deporrà le armi”. Tuttavia, una porta aperta per “parlare con chi fa politica” l’ha lasciata aperta, indicando una disponibilità a dialogare con il BDP. Si tratta di una posizione nuova, se si considera che negli ultimi tre anni il BDP (e prima il DTP) è stato spesso escluso dal dialogo del governo, perché ritenuto troppo vicino al PKK.
Oggi però pensare al disarmo del PKK senza prendere in considerazione le trasformazioni cui è andato incontro negli ultimi 27 anni non sembra possibile. Una recente analisi di Cengiz Çandar1 su Radikal riporta le parole di un farmacista del sudest turco, che dice: “Negli anni ’90 era possibile distinguere il PKK dalla popolazione, che pure lo aiutava e simpatizzava con i suoi membri. Ma in mezzo ci sono stati 30mila morti da 10 città diverse. Non c’è nessuno che non abbia avuto un funerale in casa. Ormai il PKK è un tutt’uno con la popolazione”.
“Se, pensando di combattere il PKK, ci si mettete a lottare contro lo stato d’animo formato in tutti questi anni nella regione che oltre i 30mila morti ha visto anche migliaia di arresti e decine di migliaia di fermi già da bambini, non si potrà mai venire a capo della situazione”, scrive Çandar. Secondo l’analista, così come nell’opinione pubblica turca, anche nel PKK sono presenti due linee: “quella del dialogo e quella guerrafondaia”. Ma è solo dando al BDP la possibilità di farsi portavoce dei tre milioni di elettori che l’hanno portato in parlamento che si può isolare la linea violenta. “Il BDP alla guerriglia non serve, alla Turchia invece sì, per sviluppare un linguaggio non violento, per parlare con Ankara e trovare una soluzione attraverso il confronto. Per questo il BDP deve tornare in parlamento”.
1 autore del rapporto "Liberare la questione curda dalla violenza ” preparato per la Fondazione turca per gli studi economici e sociali (TESEV).
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