Trenta anni fa, dall'8 al 19 febbraio, si svolse a Sarajevo la XIV edizione dei Giochi Olimpici Invernali. Pochi anni dopo le strutture olimpiche, simbolo di una storia e vita comune, furono bersaglio dei bombardamenti
Un metro di neve e venti gradi sotto zero! Nessuno ci faceva caso in Bosnia. Si pulivano le strade principali, si scavava un sentiero nella neve per collegare la casa o il portone con la strada, e la nostra vita procedeva come al solito.
Talvolta già all’inizio di ottobre nevicava. Si andava al ristorante per una cena e quando si usciva, nelle ore piccole, ci aspettava la prima neve. Tap-tap, sulle punte delle scarpe leggere ed eleganti, cercavi di passare per la strada imbiancata, senza scivolare o cadere. La neve rimaneva fino ad aprile, qualche volta anche di più. Capitava che sulle montagne intorno a Sarajevo nevicasse in piena estate. I giornali locali riportavano la notizia, ma nessuno si stupiva.
Poteva succedere che, in primavera, uno se ne andasse tutto tranquillo per i boschi sul monte Bjelašnica, a sud-ovest di Sarajevo, in un clima normale, e che dopo dieci minuti si trovasse nel mezzo di una tormenta di neve. Anche quelli che conoscevano la montagna, talvolta rischiavano di perdersi o rimanere sotto la neve, come ad esempio era successo a undici giovani bravi sciatori che, negli anni Sessanta, persero la vita durante una tempesta imprevedibile sul monte Bjelašnica.
Nevica?
La neve da noi, insomma, non è mai stata un problema. Ne avevamo sempre in abbondanza. Ma all’inizio del febbraio 1984 la sua inspiegabile assenza ci tormentava. Circa quattro milioni di bosniaci ed erzegovesi scrutavano il cielo aspettando la neve, ci svegliavamo di notte per controllare se avesse cominciato, la prima domanda di mattina al risveglio era: “Nevica?” Accusavamo i meteorologi di aver sbagliato i calcoli e chi era religioso pregava affinché nevicasse. Invano. Per ogni eventualità erano pronti anche i cannoni per fare la neve artificiale, ma la precauzione ci pareva esagerata. Nei cento anni precedenti ai XIV Giochi Olimpici, a Sarajevo e dintorni era sempre caduta la neve.
Il giorno prima dell’inizio dei Giochi a Sarajevo, il 7 febbraio 1984, il tempo era primaverile. Non si vedeva neanche un fiocco di neve.
Mi veniva da piangere, mi sembrava una vera e propria ingiustizia. Molti altri si sentivano come me.
Tutto era già pronto un anno prima che cominciassero i Giochi: era stato costruito il nuovo villaggio olimpico, nuovi alberghi erano stati aperti ed erano stati ristrutturati i vecchi, era stata recuperata e sistemata la parte antica ottomana della città, la Baščaršija, che era in rovina, e rischiava di essere distrutta per costruirne una “più bella e più antica”. Le principali strade della città erano state rifatte e allargate, le facciate dei palazzi dipinte, le rotaie dei tram elettrici cambiate, la stazione centrale restaurata, sui monti intorno a Sarajevo: Jahorina, Bjelašnica, Igman, e Trebević, erano state costruite tutte le strutture necessarie per i Giochi olimpici invernali.
A Sarajevo sono tutti così
Alcune migliaia di giovani di tutta la Bosnia ogni giorno si esercitavano nel provare la coreografia per la cerimonia di apertura e di chiusura delle Olimpiadi. In merito a questo, il principale quotidiano giapponese “Yomiuri Shimbun” chiedeva con un titolo su tutta la prima pagina: “Dove hanno trovato tutte quelle bellissime ragazze e quei ragazzi alti?”, e poi con il sottotitolo ribatteva: “A Sarajevo sono tutti così”. Per evitare il rischio che qualcuno mancasse a causa dell’influenza, tutti si erano immunizzati con vaccini potenti “quelli per i cavalli”, mi dice scherzando Vanja. Lei e Svjetlana, due bosniache, triestine adottive, avevano partecipato ai Giochi. Oggi, trent’anni dopo, ancora belle e alte, con nostalgia si ricordano dei tempi delle Olimpiadi di Sarajevo.
Nella fase preparativa per le Olimpiadi, più della neve ci preoccupava la nebbia. Anche quella, a Sarajevo e dintorni, è sempre presente. Per far funzionare l’aeroporto locale sotto la nebbia fitta, i nostri ingegneri avevano preparato delle sostanze chimiche che, all’occorrenza, potevano - proprio come diceva un’antica canzone bosniaca “duni vjetre, malo sa Neretve, pa rastjeraj maglu po Mostaru” - far sparire la nebbia. Tutto era pronto e perfetto, migliaia di sportivi, giornalisti e decine di migliaia di ospiti erano già in città. Mancava solo la neve.
Volevo partecipare in qualche modo a quell’evento, rendermi utile… Sarei stata contenta se avessi potuto spalare la neve, tenere un palo, indicare la via per il WC, qualsiasi cosa. Mandai la richiesta per fare la volontaria a varie commissioni, ma non mi presero. Ci lavoravano già trentamila persone, di cui la metà erano volontari, da tutta la Jugoslavia. Nella costruzione delle strutture olimpiche sui monti partecipavano i giovani volontari organizzati nelle brigate di lavoro (radne brigade). E nei giorni delle Olimpiadi quattrocento camerieri di tutta la Jugoslavia erano a Sarajevo per servire gli ospiti.
Il centro del mondo
La sera prima dell’inizio dei giochi non potevo starmene in casa mentre, pensavo, la storia raggiungeva la mia città. Sarajevo splendeva, le strade erano affollate, i negozi, i ristoranti e i bar erano aperti tutta la notte, pieni di gente. Migliaia di persone giravano su e giù, si parlava ad alta voce, quelli che non riuscivano a comunicare in una lingua straniera facevano amicizia a gesti, si facevano le foto, si rideva, così, senza motivo, solo perché noi sarajevesi eravamo raccolti là, insieme agli ospiti, per un evento grande, bello, importante. Ci pareva di essere nel centro del mondo.
In una tale atmosfera cominciò a nevicare. Ancora oggi ricordo di preciso dov’ero: in via Vase Miskina, oggi Ferhadija, là dove inizia la parte antica della città, la Baščaršija. C’era gente che saltava dalla gioia, altri si tenevano per mano e ballavano, qualcuno urlava. Io ridevo in modo incontrollabile, tenevo le braccia aperte, giravo intorno a me stessa con la faccia rivolta in alto. Volevo sentire i fiocchi di neve sul mio viso.
Credo che quella volta, molti capi comunisti (che da noi obbligatoriamente erano atei) avessero ringraziato Dio.
Nevicava sul serio, tutta la notte. Cadeva una neve bellissima, secca, quella che non si scioglie subito ma rimane a terra. I fiocchi di neve erano grandi ed eleganti come farfalle. All’inizio la neve scendeva piano e timidamente, poi sempre più forte e fitta. Pareva che qualcuno lassù avesse aperto un sacco e non riuscisse più a controllare la velocità con la quale quel sacco si svuotava.
Prima eravamo preoccupati perché mancava la neve, poi la situazione si invertì. In poche ore c’era più di un metro di neve. Bisognava livellare con urgenza le piste sciistiche. Il presidente della Federazione internazionale per lo sci, Marc Hodler, preoccupato, aveva chiesto al presidente del Comitato Olimpico bosniaco, Branko Mikulić, come pensava di risolvere il problema. “Ci vogliono mille persone per spianare le piste, dove le trovate a quest’ora?”, chiedeva Holder. Secondo i testimoni, Branko Mikulić aveva risposto: “Potrebbero bastare, secondo lei, cinquemila?”.
Una fiaba
Per radio i cittadini furono invitati a correre in aiuto. In migliaia avevano risposto e avevano lavorato tutta la notte, compresi i soldati dell’Armata Popolare Jugoslava. La mattina dopo, le piste erano perfette e tutta la città pulita e ordinata. “Eravamo così entusiasti, acchiappavamo i fiocchi di neve ancora prima che cadessero per terra”, si ricorda trent’anni dopo il signor Meho S., un tassista di Sarajevo.
Erano momenti magici, sembrava di vivere in una fiaba. Infatti, i XIV Giochi Olimpici invernali di Sarajevo, nel 1984, per molti aspetti potevano considerarsi un miracolo.
Nel 1977 un tale era stato preso in giro perché aveva proposto Sarajevo per ospitare i Giochi olimpici invernali. Nessuno ci credeva. Una volta i giochi olimpici venivano organizzati dai paesi ricchi e occidentali. Fu, e lo è ancora, un evento di grande prestigio, costoso, una sorta di vetrina, dove l’organizzatore fa vedere al mondo il meglio di sé, e nello stesso tempo un biglietto da visita per la scena internazionale. Sarajevo, per vincere, doveva prima convincere gli scettici a casa propria. La candidatura doveva essere approvata dal partito comunista e dal governo della repubblica di Bosnia Erzegovina, e poi approvata e sostenuta dal governo Federale.
Altre repubbliche della Jugoslavia consideravano la Bosnia un “tamni vilajet” (un mondo tenebroso, retrogrado), una sorta di cugino povero che merita simpatia e aiuto, ma niente di più. Di conseguenza, la prima reazione delle altre repubbliche fu una forte incredulità. Infine, l’approvazione a casa fu ottenuta. A livello internazionale, Sarajevo si trovò a competere con Sapporo, in Giappone, e con la congiunta candidatura di due città svedesi, Falun e Göteborg.
Dopo aver fatto l’ultima visita a Sarajevo per verificare la sua capacità per un evento internazionale di tale importanza, Marc Hodler, aveva riferito al Comitato olimpico: “La Bosnia Erzegovina è un paese che si sta sviluppando in fretta, la gente vive libera e felice”.
Prima della votazione, la giornalista inglese Pet Bedford scrisse: “Se scegliete Sapporo, i giapponesi vi organizzeranno un aereo per visitare Tokio; se optate per Falun e Göteborg, gli svedesi vi faranno vedere i fiordi e gli iceberg. Ma se la vostra scelta ricadrà sulla Jugoslavia e Sarajevo, troverete gente amichevole, di gran cuore, e meravigliose montagne”.
L'Olimpiade comunista
I XIV Giochi Olimpici Invernali di Sarajevo si tennero dall’8 al 19 febbraio del 1984. Fu un evento con parecchi record e senza precedenti. Fu la prima olimpiade invernale tenutasi in un paese comunista. Fu un primato per il numero di partecipanti pervenuti da quarantanove paesi, con 1.272 atleti (274 donne, 998 uomini), che competevano in trentanove discipline, seguiti da 7.393 giornalisti e visti da due miliardi di telespettatori. Gli organizzatori avevano venduto 250 mila biglietti, complessivamente avevano guadagnato 47 milioni di dollari. Grazie ai Giochi furono creati 9.500 nuovi posti di lavoro.
Per la prima volta, come sport dimostrativo, alle Olimpiadi invernali i disabili gareggiarono nello slalom gigante, e per la prima volta nella storia delle Olimpiadi, la coppia di pattinatori artistici sul giaccio, Jayne Torvill e Christopher Dean, dall’Inghilterra, ricevette il massimo del punteggio.
Le Olimpiadi invernali di Sarajevo lanciarono inoltre una delle icone sportive più grandi del tardo ventesimo secolo, la pattinatrice della Germania Est (che all’epoca esisteva come paese indipendente) Katarina Witt, che vinse la medaglia d'oro.
Per la prima volta la Jugoslavia conquistò una medaglia nelle Olimpiadi invernali. Lo sciatore sloveno Jure Franko, infatti, vinse l’argento nello slalom gigante, portando l’intera nazione in trance. Durante la premiazione, di fronte al centro sportivo-culturale “Skenderija”, decine di migliaia di persone urlavano: “Volimo Jureka, više od bureka” (Ci piace di più Jurek che il burek, cioè il piatto preferito nazionale).
“Erano tempi diversi, e anche i valori erano diversi. Ci avevano promesso, nel caso vincessimo, di regalarci un videoregistratore. Ed io ragionavo: se corro bene nel secondo turno, porterò a casa un videoregistratore”, ricorda Jure Franko.
Juan Antonio Samaranch intervenne alle Olimpiadi di Sarajevo per la prima volta in veste di presidente del Comitato olimpico internazionale. Nel suo discorso in occasione della chiusura dei Giochi, Samaranch disse: “Il movimento olimpico si è arricchito. Per la prima volta i giochi olimpici sono stati organizzati da un popolo”. Quella volta tra la città e il dignitario nacque un’amicizia che durò vent’anni, fino alla morte di Samaranch.
La fine della storia
Nei primi mesi della guerra, nel 1992, molti edifici olimpici furono distrutti, bersagliati apposta, come tutto quello che documentava la storia e la vita comune dei bosniaci e degli erzegovesi. Il centro sportivo “Zetra”, con la magnifica sala del ghiaccio, che era stata il palcoscenico del pattinaggio e della cerimonia di chiusura delle Olimpiadi, fu bombardata e incendiata, rimasero solo le sue fondamenta. Il centro “Skenderia”, il museo olimpico, gli alberghi sulle montagne… tutto demolito.
Già nell’aprile 1992, sul monte Jahorina, i serbi si erano appostati con i kalashnikov alla partenza dello skilift, per farsi pagare il biglietto. Il monte Trebević, così vicino, tanto che lo consideravamo la montagna del nostro cortile, non è più lo stesso per i sarajevesi. Dopo la guerra, molti non ci sono più tornati. Là era stata costruita la pista di bob, minata durante la guerra. Oggi è abbandonata, vi si aggirano solo alcuni coraggiosi per raccogliere le pallottole vuote e venderle agli artigiani che le utilizzano per fare i souvenir.
I villaggi olimpici, Mojmilo e Dobrinja, erano stati progettati per diventare i nuovi quartieri della città. È una bella zona, larga, vicino all’aeroporto dove, dopo i giochi, furono distribuiti 2.750 appartamenti moderni a chi non li aveva.
All’inizio della guerra, nell’aprile 1992, il quartiere di Dobrinja fu pesantemente bombardato. I serbi cercarono di occuparlo, invano. Rimase per tutta la durata della guerra assediato e isolato dal resto di Sarajevo, subì una sorta di assedio nell’assedio. Gli abitanti, gente mista di tutte le etnie e religioni, hanno lottato, e la loro è una storia di coraggio e resistenza esemplare. Oggi per Dobrinja passa la linea invisibile della Sarajevo divisa.
Nel 1994 a Lillehammer, in Norvegia, si tennero i XVII giochi invernali. Samaranch aveva interrotto la sua presenza là ed era tornato a Sarajevo, per mostrare la sua solidarietà verso la città e i cittadini. Con il suo arrivo nella Sarajevo assediata, Samaranch aveva mostrato il coraggio e la grinta che all’epoca mancava a tanti politici.
“Con aria di sfida, come se non vi fosse alcun pericolo dalle colline, ma visibilmente scosso, Samaranch stava fermo sulle rovine del centro sportivo “Zetra” dove, dieci anni prima, aveva dichiarato chiuse le Olimpiadi invernali. Per noi era il segnale che non saremmo morti, che non eravamo stati né abbandonati né dimenticati. Gli eravamo così grati... La gente veniva a salutarlo, a toccarlo”, si ricorda il direttore del Museo Olimpico di Sarajevo, Edo Numankadić.
In quell’occasione Samaranch aveva promesso che avrebbe fatto di tutto per ricostruire il centro olimpico “Zetra”. La sua promessa fu mantenuta e, nel 1999, il centro “Zetra” fu ricostruito e aperto.
Trent'anni dopo
In questi giorni a Sarajevo si stanno preparando le celebrazioni per i trenta anni delle Olimpiadi invernali (1984 – 2014). I festeggiamenti si organizzano anche nel mondo, dove - dopo la guerra - sono finiti un milione di bosniaci. A Melbourne, in Australia, gli organizzatori invitano i connazionali “a rivivere i giochi invernali, per stare insieme e accendere, per un attimo, la fiamma dentro di noi”.
I simboli delle Olimpiadi, trent’anni dopo, sono ancora presenti a Sarajevo. La mascotte “vučko” (il lupacchiotto) oggi è il souvenir più venduto ai turisti, e la sua immagine scolorita si può vedere ancora sulle facciate di diversi edifici. I segnali stradali indicano “la montagna olimpica”, la gente ne parla volentieri e sospirando, molti si ricordano dei tempi quando “eravamo felici e uniti”.
Ma oggi i serbi sciano sul monte Jahorina, mentre i bosniaci su Bjelašnica.
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