La Procura della Bosnia Erzegovina ha archiviato l'inchiesta nei confronti di 14 indagati per i crimini avvenuti a Sarajevo nel maggio del 1992. Il caso però non è chiuso e, dopo i clamorosi fermi di Ejup Ganić e Jovan Divjak, continuerà ad alimentare polemiche. Il commento
Il 17 gennaio scorso la Procura della Bosnia Erzegovina ha formalmente chiuso l’inchiesta nei confronti di quattordici persone (Ejup Ganić, Hasan Efendić, Zaim Backović, Jovan Divjak, Jusuf Pušina, Emin Svrakić, Dragan Vikić, Fikret Muslimović, Dževad Topić, Jovica Berović, Rešad Jusupović, Jusuf Kecman, Damir Dolan e Ibrahim Hodžić), sospettate di esser coinvolte nelle uccisioni della via Dobrovoljačka, a Sarajevo, nella primavera del '92.
Quello di Dobrovoljačka è un episodio decisamente controverso che aveva contribuito all’escalation del conflitto bosniaco.
Il 3 maggio 1992, dopo i furiosi scontri dei giorni precedenti tra la JNA, l’esercito popolare jugoslavo, e la difesa territoriale bosniaca, era in corso un ritiro delle truppe jugoslave.
La JNA stava evacuando il proprio personale, tra cui alcuni feriti negli scontri dei giorni precedenti. Il convoglio fu attaccato nel centro della città, nella via che allora si chiamava Dobrovoljačka.
L'identità di chi condusse l’attacco rimane ancora oggi un mistero, così come è contestato l’effettivo numero delle vittime: 7 secondo le fonti bosniache e quelle riportate dalla Procura di Stato, da 42 a oltre 100 secondo le varie fonti serbe, in gran parte personale di leva, oppure soldati già feriti che furono uccisi dopo essere stati messi fuori combattimento.
La decisione di chiudere l’inchiesta nei confronti dei 14 sospettati non significa però che si sia conclusa anche l’indagine sulle uccisioni dato che, come ha affermato la Procura stessa, vi sono motivi ben fondati per credere che effettivamente in quell’episodio siano stati commessi crimini di guerra, dato che è stato aperto il fuoco su soldati della JNA dopo che questi erano stati messi fuori combattimento o erano già feriti.
Politica e giustizia
L’episodio della Dobrovoljačka, negli scorsi mesi e anni, è stato al centro di vicende politiche e giudiziarie sia in Bosnia che in Serbia.
La Procura serba ha infatti emanato dei mandati di cattura internazionali che, nel corso del 2010 e 2011, hanno portato al fermo in Inghilterra e Austria prima di Ejup Ganić, allora facente funzioni della Presidenza bosniaca, e poi del generale Jovan Divjak, allora uno dei comandanti della difesa bosniaca.
I casi di Divjak e Ganić hanno sollevato polemiche e discussioni nell’intera regione, e hanno riportato l’attenzione sull’irrisolto caso della Dobrovoljačka.
La decisione di chiudere formalmente l’inchiesta nei confronti dei 14 sospettati, raggiunta a dicembre, ha rialimentato le polemiche.
Milorad Dodik, presidente della Republika Srpska, ha immediatamente collegato la chiusura dell’inchiesta al processo di formazione del nuovo governo, allora in corso, stabilendo così una relazione diretta tra vicende politiche e indagini su crimini di guerra.
In questo modo, come a suo tempo aveva fatto per altre vicende l’Assemblea Cantonale di Sarajevo, Dodik ha ripreso il tentativo di condizionare la giustizia al potere politico.
In un primo momento, il presidente della RS ha infatti dichiarato che deliberatamente rallentava il processo di formazione del Consiglio dei Ministri, processo che si stava allora concludendo dopo un calvario di quattordici mesi. Il leader croato dell'HDZ Čović, tuttavia, che spesso dice quello che Dodik non può dire, aveva rassicurato l’opinione pubblica spiegando che il caso Dobrovoljačka non avrebbe influito sulla formazione del Consiglio dei Ministri.
Alla fine, cosi è stato: nonostante le polemiche sul caso Dobrovoljačka abbiano continuato a tener desta l’opinione pubblica e gli osservatori internazionali, il Consiglio dei Ministri è stato formato senza ulteriori indugi.
Dibattito in Parlamento
I giorni successivi, però, il partito di Dodik (SNSD), assieme al partito democratico serbo (SDS), ha rilanciato presentando una proposta di legge congiunta (SNSD e SDS) per chiedere l’abolizione della Corte della Bosnia Erzegovina e della sua sezione speciale su crimini di guerra e crimine organizzato.
In altre parole, una legge ad cortem... Se la Corte non è di gradimento dell’establishment politico, e non prende le decisioni che ci si aspetta, per legge si procede alla sua abolizione.
I membri del partito di Dodik non hanno usato mezzi termini in questo senso, e hanno espressamente accusato la Corte di non aver fatto chiarezza sui crimini commessi nei confronti dei serbi. Sulla base di queste premesse, la Corte della Bosnia Erzegovina deve essere quindi smantellata per via legislativa.
Il dibattito si è trasferito nel parlamento statale. L’iniziativa congiunta di SNSD e SDS è stata respinta, almeno per il momento. La Commissione per le questioni legali e costituzionali della Camera dei Rappresentanti della Bosnia Erzegovina, lo scorso 14 febbraio, ha espresso parere negativo sulla costituzionalità dell’iniziativa di legge di SNSD e SDS.
La questione è quindi ritornata in aula, ma il parere negativo della Commissione non è stato adottato per l’opposizione di SNSD e SDS.
La seduta del parlamento si è svolta in una fredda giornata invernale, mentre fuori dal Parlamento sfilavano le associazioni delle vittime del conflitto, che protestavano contro il tentativo di liquidare la Corte.
La mancata adozione del parere negativo ha fatto sì che la questione ritorni ora di nuovo alla Commissione per le questioni legali e costituzionali, che dovrà esprimersi in un prossimo futuro.
La posizione della comunità internazionale
Il grossolano tentativo di subordinare la giustizia alla politica ha suscitato, a differenza di quanto avvenne con la decisione del Cantone di Sarajevo l’autunno scorso, la condanna da parte degli ambasciatori del Peace Implementation Council (PIC).
Il PIC non si è presentato unito dato che la Russia, come capita abitualmente quando si tratta di questioni care alla Republika Srpska, si è distanziata dalla posizione degli altri Paesi.
L'organismo internazionale ha tuttavia emanato un comunicato stampa, condannando i tentativi della politica di interferire con la giustizia e con le istituzioni centrali dello Stato.
Il PIC ha anche ribadito che considera il dialogo strutturale sulla giustizia, avviato nel giugno 2011 tra Bosnia Erzegovina ed Unione Europea, come l’unica istanza competente per portare l’ordinamento giuridico bosniaco in linea con l’acquis comunitario, allo scopo di creare un sistema più credibile per il funzionamento della giustizia nel Paese.
Il Peace Implementation Council inoltre ha incoraggiato Bosnia Erzegovina e Serbia a firmare un protocollo per sviluppare la cooperazione tra i due Paesi, e in particolare per scambiare informazioni tra Procura di Stato bosniaca e Procura per i crimini di guerra serba. Tale protocollo, infatti, rappresenterebbe un importante passo avanti sulla strada della riconciliazione tra i due Paesi.
Va notato che la firma di tale accordo era già stata prevista nell’autunno scorso, ma tale firma era poi venuta meno perché la parte bosniaca aveva avuto un improvviso ripensamento. La mancanza di tale accordo fa sì che le due Procure operino in parallelo, senza scambiarsi informazioni tra di loro, almeno per via ufficiale. In questo modo, lo stesso caso può essere indagato in due Stati diversi, e ogni inchiesta si basa unicamente sugli elementi in possesso di una delle due Procure.
Il caso rimane dunque aperto e, fino a che non si sarà fatta piena luce sulle uccisioni di Dobrovoljačka, uccisioni che oramai sono in pochi a negare, continuerà ad essere uno strumento utile per alimentare polemiche politiche, secondo i clichè oramai triti e ritriti a puro uso e consumo dell’opinione pubblica allo scopo, oramai sempre più evidente, di perpetuare l’establishment politico.
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