Sarajevo

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Il recente comizio elettorale che il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan ha tenuto a Sarajevo ha messo in luce le difficoltà della Bosnia Erzegovina di oggi e le contraddizioni dell'Europa

23/05/2018 -  Ahmed Burić Sarajevo

A prescindere da come la storia ricorderà - se lo ricorderà - il comizio elettorale tenuto dal presidente turco Recep Tayyip Erdoğan a Sarajevo domenica 20 maggio, una cosa è certa: ci sono (almeno) due Europe. La prima è quella che comprende il territorio dell’Unione europea. L’altra Europa, non appartenente all’Unione, è tutt’oggi un territorio conteso.

Pescando nel torbido e giocando la carta del populismo, Erdoğan è riuscito a trarre il massimo vantaggio dal fatto che in Bosnia si intrecciano i due “imperi”. L’Unione europea non vuole né può risolvere i problemi della Bosnia Erzegovina, e quest’ultima non può uscire da sola dalla trappola in cui è finita a causa del malgoverno e del perdurare di un sistema insostenibile.

Tenendo a mente tutto questo - e nascondendo alcune delle sue debolezze - il presidente turco ha organizzato a Sarajevo un comizio intitolato "Con l’amore del primo giorno – dall’Europa verso il mondo", che è stato un importante evento pre-elettorale del suo Partito della Giustizia e dello Sviluppo rivolto alla diaspora turca, un’occasione per dire all’Europa che "anche i nostri padri sono stati europei" e - al contempo - possibilità per esortare i membri della diaspora a non rinunciare alla loro fede e alla loro lingua, bensì a lottare per entrare nei parlamenti dei paesi in cui vivono per impedire che vi entrino i nemici della Turchia. Sono messaggi piuttosto generici, ma ben chiari a coloro ai quali sono rivolti.

Il comizio di Sarajevo potrebbe inoltre essere definito come una piccola scuola della presidenza a vita. Decidendo di indire elezioni anticipate, fissate per il prossimo 24 giugno, Erdoğan ha accelerato il passaggio della Turchia al nuovo sistema presidenziale, approvato con il referendum del 2017.

La lista dei presidenti “a vita” è capeggiata dallo zar russo Vladimir Putin, da qualche tempo il più grande amico di Erdoğan. Anche il presidente serbo Aleksandar Vučić ha l’ambizione di governare a vita, e le stesse aspirazioni nutre Bakir Izetbegović, uno dei pochi politici bosgnacchi presenti al comizio tenutosi domenica scorsa a Sarajevo.

Anche Izetbegović a breve dovrà affrontare la sfida delle elezioni, quelle politiche indette per il prossimo novembre, scontrandosi con numerosi problemi: la crisi del suo partito, il caos che regna ai vertici dello stato, le ambizioni politiche di sua moglie Sebija che non sono viste di buon occhio da nessuno, tranne che dalla cerchia dei loro familiari e naturalmente anche da Erdoğan, che ha fatto salire i coniugi Izetbegović – amici di famiglia e ospiti al matrimonio di sua figlia – sul palco del palazzetto olimpico Zetra.

I comizi di questo tipo non hanno mai un significato solo e non devono mai essere interpretati in un’unica chiave, del tipo “Erdoğan è venuto a salvare Bakir e far sì che rimanga al potere”. L’opinione pubblica bosniaco-erzegovese è sempre stata incline a fare considerazioni di questo tipo, semplicemente perché ci piace pensare di essere più importanti di quanto non lo siamo realmente. Ma i fatti stanno diversamente: il comizio è stato vietato in Germania, Austria e Olanda, e Erdoğan praticamente non aveva altra scelta che tenerlo in Bosnia.

Sarajevo, la non-Europa in Europa, è il terreno ideale dove Erdoğan può dimostrare quello di cui è capace e fin dove arrivano i suoi appetiti. Al referendum costituzionale del 2017 ha vinto il sì soprattutto grazie ai voti dei turchi di Germania, i più numerosi tra il pubblico presente al comizio di Sarajevo.

Il comizio ha suscitato reazioni contrastanti nella popolazione locale: mentre una parte dei bosgnacchi guarda con favore al servilismo di Izetbegović nei confronti del nuovo “sultano”, come molti chiamano il presidente turco, la maggioranza non vuole che nella regione venga instaurato un regime neo-ottomano, sia per ragioni storiche sia per il fatto che la Turchia oggi investe capitali irrisori in Bosnia: è solo all’undicesimo posto tra gli investitori stranieri, il che contraddice il suo atteggiamento paternalistico nei confronti della Bosnia.

Eppure ciò non ha impedito a Erdoğan di annunciare che la Turchia finanzierà la costruzione di un’autostrada tra Belgrado e Sarajevo. Chiunque renda quei monti selvaggi più facilmente percorribili sarà considerato un amico. Quale sarà il prezzo da pagare per il comizio di Erdoğan a Sarajevo, conclusosi in modo “trionfale” con una canzone il cui ritornello recitava “Recep Tayyip Erdoğan”, lo sapremo una volta resi noti i risultati delle elezioni in Turchia. Oppure a novembre, dopo il conteggio dei voti a Sarajevo.

Non vi è alcun dubbio che a pagare il prezzo più alto di eventi come questo sarà la Bosnia Erzegovina, che con l’attuale leadership e sistema politico non potrà mai entrare a far parte della famiglia europea. Forse dovrà prendere in esame uno scenario diverso, quello che le sta offrendo la Turchia, con la benedizione della Russia e con l’approvazione, più o meno tacita, dell’Europa (occidentale), che non permette a Erdoğan di propagare le sue idee politiche sul territorio dell’Unione, ma non si scompone affatto quando lo fa a Sarajevo.

Tra l’Ue e la Turchia, alla Bosnia non resta che aspettare che la situazione nella regione si normalizzi. E mosse come quest’ultima compiuta da Erdoğan di certo non aiutano. Al contrario.


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