Il 6 maggio 2020 si è tenuto a vent’anni di distanza dal primo incontro tra Unione europea e Balcani occidentali, svoltosi proprio nella capitale croata all’epoca della Commissione Prodi, un nuovo vertice. Depotenziato dal Covid19
(Quest'articolo è stato pubblicato in anteprima su Europea )
Doveva essere il momento forte del semestre di presidenza croato che il 1° luglio passerà le consegne alla Germania; un vertice di alto livello che avrebbe fatto di Zagabria il centro del dialogo tra l’Unione europea e i Balcani occidentali, elevando la Croazia ad interlocutore di primo piano, ponte geografico e geopolitico tra l’Unione europea e i suoi vicini più prossimi. Invece, a causa della pandemia, il summit si è svolto online, lasciando il premier croato Andrej Plenković solo, in una stanza piena di schermi da cui facevano capolino i capi di Stato e di governo dell’Unione e i leader di Albania, Bosnia Erzegovina, Kosovo, Macedonia del Nord, Montenegro e Serbia.
Non c’è stata nessuna parata di auto blu, nessuna foto di famiglia o stretta di mano in diretta, ma solo una conferenza stampa online e un comunicato in PDF. Se l’obiettivo era quello di dare lustro al legame tra i Balcani occidentali e l’Unione europea, i cittadini del Vecchio Continente, alla fine, hanno visto poco o niente. La coreografia - come vedremo - è molto importante tra l’Unione e il sud-est europeo. Perché, come in ogni lunga storia d’amore a distanza, i rari momenti di incontro sono diventati anche qui l’unico motore di un rapporto che, altrimenti, va lentamente alla deriva.
Il vertice della pandemia
Il vertice del 6 maggio 2020 si è tenuto a vent’anni di distanza dal primo incontro tra Unione europea e Balcani occidentali, svoltosi proprio nella capitale croata all’epoca della Commissione Prodi. Da allora, molte cose sono cambiate nella regione (nel 2000 si usciva appena da un decennio di atroci conflitti e il Kosovo non aveva ancora dichiarato la sua indipendenza), ma quel processo di democratizzazione e quella “prospettiva europea” che già vent’anni fa era stata paventata hanno registrato negli anni dei risultati altalenanti, con qualche sbandamento e battuta d’arresto in tempi recenti.
Ecco perché, fin dal 2000, è stato necessario riprendere più volte il filo di quel percorso: a Salonicco nel 2003 e a Sofia nel 2018, per citare solo i vertici che seguono questo formato, ma a geometrie variabili esistono altri appuntamenti (come il Processo di Berlino, dal 2014), tutti con lo stesso obiettivo: mantenere vivo il fuoco della relazione. La settimana scorsa, la Dichiarazione di Zagabria ha dunque chiuso il cerchio, ribadendo al punto 1: “L’Unione europea riafferma ancora una volta il suo supporto inequivocabile alla prospettiva europea dei Balcani occidentali». Niente di nuovo, quindi? Non proprio.
Come ogni appuntamento internazionale, anche la videoconferenza del 6 maggio non solo si inserisce in un contesto specifico ma anche in quello attuale, che è legato alla crisi del Covid-19, che nelle ultime settimane ha contribuito a far emergere alcune contraddizioni nel rapporto Ue-Balcani. A metà marzo, la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, ha annunciato “un quadro di autorizzazioni alle esportazioni dei dispositivi di protezione individuale” con l’obiettivo di “mantenere nell’Ue il materiale [medico sanitario] di cui abbiamo bisogno”. In altre parole, per vendere all’estero, e quindi anche nei Balcani occidentali, tali prodotti serve l’ok da parte dei governi dei Paesi membri europei, previo consulto della Commissione.
“La solidarietà europea non esiste”, ha reagito il presidente serbo Aleksandar Vučić, chiarendo che la Serbia si sarebbe rivolta alla Cina. Non a caso, qualche giorno più tardi, Pechino ha spedito a Belgrado un carico di materiale sanitario e un team di sei dottori mentre Vučić, all’aeroporto della capitale serbo, ha baciato la bandiera cinese, ringraziando il suo “amico e fratello” Xi Jinping. In Bosnia-Erzegovina, il leader serbo della presidenza tripartita Milorad Dodik lo ha seguito a ruota. “L’Europa in cui credevamo dieci anni fa oggi non esiste”, ha affermato Dodik, ringraziando Vladimir Putin per l’invio di materiale sanitario alla Republika Srpska.
La verità è che tra marzo e aprile questi gesti di solidarietà hanno viaggiato in tutte le direzioni (ha fatto molto parlare di sé l’aiuto albanese all’Italia, ad esempio). Il modo in cui sono presentati e raccontati dai governi risponde più a obiettivi di politica estera che a esigenze di lotta al virus. Anche perché, a voler fare i conti, la Commissione ha assegnato a fine marzo 38 milioni di euro ai Balcani occidentali “per coprire i bisogni immediati dei propri sistemi sanitari pubblici”. E per l’area è stata decisa anche l’inclusione a pieno titolo “nelle iniziative Ue di gestione della crisi”, con anche l’esenzione dal sistema di autorizzazione per i dispositivi di protezione. Meglio tardi che mai.
Comunicazione e riforme
Al vertice di Zagabria si arriva dunque con queste premesse e forse con qualche risentimento. Lo dice alla Reuters , alla vigilia del summit, un alto diplomatico europeo: “Il vertice stesso è il messaggio, ovvero dice ‘vogliamo che aderiate’. Ma diciamo anche che non potete adulare i cinesi e i russi quando vi fa comodo”. Lo stesso articolo 1 della Dichiarazione finale aggiunge infatti una chiosa alla “prospettiva europea” su cui si impegnano i governi dei sei Paesi balcanici: “La credibilità di questo impegno dipende anche da una comunicazione pubblica chiara e dalla realizzazione delle riforme necessarie”.
Difficile interpretare diversamente la necessità di una “comunicazione pubblica chiara”. L’Unione europea - prosegue la Dichiarazione di Zagabria - ha assegnato in totale 3,3 miliardi di euro ai sei Paesi per gestire l’attuale crisi e far ripartire l’economia (1,7 miliardi di euro arrivano della BEI, la Banca europea per gli investimenti). Eppure, Vučić non si è mai sognato di chiamare «sorella» Ursula von der Leyen. E il problema va ben oltre la crisi del Covid–19. L’Unione europea è infatti il primo investitore, il primo partner commerciale e il primo fornitore di assistenza nell’area. Che succede allora?
Gli analisti che seguono l’evoluzione del rapporto Ue-Balcani identificano diversi problemi strutturali. Da un lato, ci sono le lentezze di un processo di adesione che pare non realizzarsi mai, con le divisioni interne al fronte europeo: ad esempio, il veto all’apertura dei negoziati con Macedonia del Nord ed Albania che era stato imposto da Paesi come Francia e Olanda nel corso del 2019 e che però è stato superato nel marzo 2020 dal Consiglio europeo anche grazie all’introduzione di quella che sembra una nuova, più rigida, metodologia dell’allargamento da parte della Commissione europea. Una data per l’avvio dei negoziati di adesione non è stata tuttavia chiaramente indicata. E non va nemmeno sottovalutata la spaccatura sul Kosovo, tuttora non riconosciuto da cinque Stati membri dell’Ue (Spagna, Cipro, Grecia, Slovacchia e Romania).
Dall’altro lato, la democratizzazione arranca, quando non retrocede. Proprio il 6 maggio, Freedom House ha pubblicato il suo nuovo rapporto annuale sullo stato della democrazia e Serbia e Montenegro si sono visti declassati a “regimi ibridi”. Non più annoverati tra le “democrazie”. Qualche settimana prima, era toccato a Reporters sans Frontières fare il punto sulla libertà di espressione nel 2020. Nei Balcani occidentali, scendevano in classifica Albania, Serbia e Montenegro, con quest’ultimo finito 105° su 180 Stati considerati. Un risultato molto lontano dai valori europei (benché la nuova Ungheria di Viktor Orbán non sia molto lontana).
Il rischio non è tanto che emergano delle nuove sfere d’influenza (Cina, Russia, Turchia?) ma piuttosto che la ricerca ossessiva di partner stabili (talmente stabili che spesso sono gli stessi da vent’anni) finisca col produrre il primo obiettivo certo della stabilità: il mantenimento dello status quo. Un risultato che mal si concilia con la richiesta di «riforme necessarie».
"L’allargamento è una delle politiche più riuscite dell’Unione europea. Ha diffuso pace, sicurezza e prosperità su tutto il continente", ha dichiarato la presidente Ursula von der Leyen al termine del vertice di Zagabria. Il caso della Croazia, che ha negoziato dieci anni con Bruxelles, per poi diventare il più giovane Stato membro dell’Unione nel 2013, avrebbe dovuto confermare lo slancio e l’ambizione di quel messaggio. Ma a causa del virus, Ue e Balcani non hanno potuto incontrarsi nella capitale croata. Dovranno dunque continuare a comunicare a distanza, con un rischio maggiore di fraintendimenti.
Per approfondire
Il progetto EUWeBER mira ad offrire agli studenti universitari una migliore conoscenza delle questioni di politica estera europea in particolare in rapporto ai paesi del sud-est Europa e del Partenariato orientale. Prevede seminari interattivi in aula e trasmessi online per un pubblico più vasto, opportunità di tirocinio presso Osservatorio Balcani Caucaso Transeuropa (OBCT), un blog. E' promosso dal Centro di eccellenza Jean Monnet dell’Università di Trento in collaborazione con Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa e con il sostegno dell’Unione europea.
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