Dalle gesta del brigante Terente alla sensibilità ambientale dell'ex campione olimpico di canoa Ivan Patzaichin. Il tutto attraverso una natura intensa ed unica. Un reportage di un viaggio di otto giorni lungo il Delta del Danubio
(Pubblicato originariamente su Macondo Express )
Dove finisce il Danubio? In questo incessante finire non c’è una fine, c’è solo un verbo all’infinito presente. I rami del fiume se ne vanno ognuno per conto proprio, si emancipano dall’imperiosa unità-identità, muoiono quando gli pare, uno un po’ prima e uno un po’ dopo, come il cuore, le unghie o i capelli che il certificato di morte scioglie dal vincolo di reciproca fedeltà. Il filosofo avrebbe difficoltà, in questo intrico, a puntare il dito per indicare il Danubio, la sua precisa ostensione diverrebbe un incerto gesto circolare, vagamente ecumenico, perché il Danubio è dappertutto e anche la sua fine è dovunque in ognuno dei 4300 chilometri quadrati del Delta.
(Claudio Magris – Danubio)
Dove finisce il Danubio? Se lo chiedeva anche Claudio Magris una trentina d’anni fa. Ho iniziato con una sua citazione non per caso, ma perché il suo libro è stato per me la guida fondamentale nella marcia di avvicinamento a questo viaggio. Non potevo partire senza averlo metabolizzato. Lo citerò spesso, perché non avrebbe senso cercare altre parole quando le sue esprimono già in maniera così piena e completa i pensieri e le sensazioni che questo viaggio può far nascere (e soprattutto lo fanno con una proprietà e uno stile che non potrei neanche sognarmi di avvicinare, questo va da sé).
Ma cercherò anche, come posso, di metterci qualcosa di mio, in questo racconto. Anche perché in questi trent’anni qualcosina è pur cambiato, da queste parti; e perché il viaggio del grande scrittore e germanista aveva pur sempre un limite: non era un viaggio di Radio Popolare.
Eh sì, questo è un viaggio di Radio Popolare, architettato da Viaggiare i Balcani , nella persona di Eugenio Berra che ne è anche l’insostituibile guida, con il contributo organizzativo di Viaggi e Miraggi, e con il patrocinio di Slow Food. La compagine, insomma, è la stessa del viaggio sul Danubio serbo dell’anno scorso , sul leggendario barcone di Emir Kusturica, quello del film Underground. Il che vuol dire che anche le componenti del viaggio saranno ancora quelle: natura, storia, cultura e… non ultimo il buon mangiare (e il buon bere, siamo sempre nei Balcani).
Fatta questa doverosa premessa, non perdiamo altro tempo e iniziamo il racconto.
Primo giorno: nel quale parte il nuovo viaggio danubiano
Anche quest’anno solcheremo il Danubio. Ma non sarà sicuramente lo stesso fiume. Non solo perché, come diceva Eraclito, non ci si può mai bagnare due volte nello stesso fiume, ma anche perché il tratto di fiume che solcheremo sarà diverso, sarà quello più a valle, quello che scorre in Romania fino a sfociare nel Mar Nero, al confine con l’Ucraina.
O forse sì invece, forse sarà lo stesso fiume. Magris dice che forse Eraclito ha torto, ci si bagna sempre nello stesso fiume, nel medesimo infinito presente del suo fluire, e ogni volta l’acqua è più tersa e profonda. Scendere la china verso il Mar Nero, accettare la corrente, giocare con i suoi gorghi e le sue increspature, con le pieghe ch’essa disegna sull’acqua e sul viso. Sarà proprio questo che faremo, e così lo potremo sperimentare direttamente.
Per adesso ci ritroviamo alla Malpensa, pronti a volare verso Bucarest. Il gruppo è composto in totale da 14 persone, tra cui 4 reduci del Danubio serbo, me compreso. Altri reduci erano nel primo gruppo della radio, guidato da Claudio Agostoni, che ci ha preceduto e che incroceremo all’aeroporto di Bucarest, senza però poterli salutare se non da lontano. Loro partono e noi arriviamo.
A guidare il nostro gruppo, per la radio, c’è Cecilia Di Lieto, un’altra delle voci storiche che ho finalmente l’opportunità di conoscere. Cecilia è senz’altro tra le persone più indicate per questo viaggio, dato che ora fa un programma sugli animali, che il Delta ospita e nutre a profusione, e in passato si è occupata di cultura (tuttora se ne occupa, in realtà), cultura della quale il Delta è ricco quanto e forse più che di natura. Nel senso che, avremo modo di scoprirlo, è raro trovare in un’area abitata da solo 15.000 persone una tale varietà culturale, legata alla commistione di popoli, lingue e religioni differenti che da secoli caratterizza il Delta.
E per Viaggi e Miraggi c’è Franca, da Padova, che si occupa di amministrazione ma ogni tanto accompagna anche i viaggi. Ovviamente lei è qui per lavoro, per dare un importante supporto ai viaggiatori, ma sembra anche lei curiosa di scoprire questo pezzo di Europa così poco conosciuto. Tant’è vero che è venuta col marito al seguito: dice che si vedono così poco, normalmente, che un viaggetto insieme ogni tanto ci sta bene.
Le prime chiacchiere con Cecilia offrono l’occasione per soddisfare la curiosità di noi ascoltatori sull’origine del titolo del suo programma sul mondo animale: “Considera l’armadillo”. Scopriamo che tutto nasce da “Considera l’aragosta”, un saggio di David Foster Wallace che invitava, sul piano etico, a considerare il punto di vista della povera aragosta bollita viva. Usarlo come titolo così tal quale però sarebbe stato banale, bisognava trovare una variante divertente. In quel periodo furoreggiava la prima opera a fumetti di Zerocalcare, “La profezia dell’armadillo”, e da lì venne l’idea, che funzionava bene anche perché l’armadillo è un animale piuttosto insolito, per cui il titolo suonava come un invito a considerare tutti gli animali, anche i più strani…
Dopo due ore e mezza di volo atterriamo a Bucarest verso le 16 ora locale (qui siamo a + 1 rispetto all’Italia). Il cielo è nuvoloso e fa freschino. Eugenio è lì ad aspettarci; ci dilunghiamo un po’ tra saluti e convenevoli vari: per noi reduci della Serbia ci sono notizie sulle varie persone che abbiamo conosciuto nel corso di quel viaggio e che lui frequenta, vivendo a Belgrado. Eugenio è milanese ma abita a Belgrado da tre anni, e prima ha vissuto a Sarajevo, quindi la realtà dei Balcani la vive da dentro, oltre a nutrire per i Balcani una grande passione. Lo conosco abbastanza bene ormai, e so che è davvero una garanzia, sotto tutti i punti di vista.
E infatti, per non smentirsi, appena il nostro pullmino parte in direzione Bucarest (l’aeroporto non è molto distante dal centro), Eugenio ci consegna l’edizione romena della sua ormai mitica “dispensa”, che già avevamo avuto l’anno scorso, una raccolta di materiali utili da leggere e consultare durante il viaggio, con tutte le informazioni di carattere storico, sociologico e antropologico che ci serviranno e un sacco di spunti letterari per approfondire. E perfino i menù dei pranzi e delle cene “slow” che faremo…
Nel frattempo, abbiamo conosciuto Florin, il nostro autista, che ci accompagnerà in tutti i tratti in pullmino. Scopriamo subito che capisce anche un po’ di italiano; le sue frasi sono per ora molto basiche, ma compensa con grandi sorrisi. Lui viene proprio dalla zona del Delta, quindi le strade di Bucarest non sono così familiari per lui, ragion per cui preferisce aiutarsi con un navigatore. È anche il nostro primo contatto con la lingua romena parlata. Non capiamo niente, ovvio, ma le sonorità hanno chiaramente qualcosa di neolatino, anche se scopriremo poi che il romeno ha anche parecchie componenti slave. Comunque, è divertente sentire un navigatore che parla così, in questa lingua nuova per noi, con una profonda voce maschile.
Per le prime due notti ci sistemiamo all’hotel Siqua, vicino al teatro dell’Opera, in pieno centro storico. C’è il tempo per una doccia e un po’ di riposo, poi bisogna uscire per la cena, che è la prima cena Slow Food.
Tutto è apparecchiato per noi al ristorante “The London Street Atelier”, gestito da Rachel Sargent, una chef inglese membro del Convivium Slow Food Tarnava Mare. Il menù prevede:
Insalata di melanzane, Sarma (involtini di carne e riso, come da tradizione ottomana) in foglia di vite, zucchine impanate con panna acida di bufala e crema di noci.
Torta salata di verza, stufato di porro, funghi e olive servito con polenta, salsicce affumicate.
Insalata stagionale.
Pane con lievito naturale e sale all’aglio orsino, pane con noci e polenta.
Mele cotte al forno con frutta secca e sorbetto di fiore di sambuco.
Il tutto ci viene illustrato personalmente da Rachel, che vive qui da 20 anni. Si è innamorata della Romania e della cucina romena, dice che soprattutto ora, dopo la Brexit, probabilmente rimarrà a lungo… e le piace coinvolgere anche una delle cuoche romene, che ci spiega con dovizia di particolari la ricetta del rinfrescante succo di sambuco che troviamo in tavola, con Rachel che traduce in inglese ed Eugenio in italiano.
Stasera è previsto anche il primo dei tanti incontri a carattere socio-antropologico-culturale che, lo sappiamo, il nostro Eugenio non ci farà mancare. Bogdan e Monica, due antropologi dell’Università di Bucarest, sono a cena con noi, il che ci dà l’opportunità di chiacchierare prima un po’ in maniera informale, dato che entrambi parlano un ottimo italiano, soprattutto Bogdan che è anche un po’ più ciarliero, o forse solo un po’ più a suo agio a parlare in pubblico. Tra le tante curiosità ci colpisce il modo di dire romeno “Esplode la polenta” (non so come suoni in lingua, perdonatemi) che equivale, ci pare di capire, più o meno al nostro “C’è qualcosa che bolle in pentola”. E da questo si può già dedurre che la polenta è un cibo molto diffuso qui e che sarà presente in molti dei nostri menù. Bogdan dice che anche i romeni sono un po’ “polentoni”…
Poi, dopo le chiacchiere in libertà, arriva il momento delle presentazioni serie, con tanto di “Slide” (che saranno un po’ una costante di questo viaggio…).
Bogdan e Monica sono due antropologi “alimentari” e quindi è (anche) di cibo che si parla, inevitabilmente. Bogdan, che lavora come ricercatore al museo del Contadino Romeno, ci racconta di come l’economia locale del Delta si è evoluta negli anni post-socialismo in modo che… il pesce è diventato più caro del pollo! Per noi può far sorridere questo titolo ma dobbiamo pensare che qui il caviale era considerato un cibo povero! Lo storione è il re dei pesci del Delta ed è considerato, qui, come il maiale nella bassa padana: di lui non si butta via niente. Ed era, quando la Romania prese possesso del Delta del Danubio nel 1878, estremamente sovrasfruttato.
Durante il periodo socialista la pesca veniva organizzata – in un’economia pianificata – in “brigate” assegnate a una sola fabbrica (piscicola) che copriva l’intero distretto lavorativo del Delta, dai pescatori ai preparatori del pesce e del caviale (spesso le donne). Durante l’inverno, i pescatori lavoravano sulla preparazione delle attrezzature, mentre in primavera pulivano i canali per garantire la riproduzione dei pesci.
Dopo il socialismo, viene costituita la Riserva della Biosfera, con conseguente de-industrializzazione della pesca e interdizione della pesca allo storione per un periodo di dieci anni. La de-industrializzazione della pesca, però, porta anche ad un abbandono delle pratiche di cura del territorio: pulizia dei canali secondari, taglio dei canneti etc.
Negli anni recenti le istituzioni, con le loro politiche, hanno dovuto affrontare il problema di come gestire l’evoluzione in senso turistico del territorio del Delta. Cosa preservare e come? Qualsiasi uso umano è un’intrusione? È emersa la consueta dicotomia tra turismo di massa e turismo “domestico”, “slow” e sostenibile. Anche il ruolo del pescatore è cambiato, al punto tale che molti pescatori si sono sentiti come degli animali esotici messi in mostra in uno zoo.
Monica ci parla del patrimonio immateriale gastronomico costruito intorno ad una risorsa naturale, con una relazione di interdipendenza tra gli abitanti e l’ambiente, fondata su un equilibrio molto fragile. Negli anni si è vista la sparizione della confezione domestica (femminile) delle reti da pesca, delle tecniche tradizionali di isolamento delle barche, della minestra di storione (storceag).
Dopo secoli di esistenza centrata sull’amministrazione della risorsa piscicola e sui saperi intorno al pesce, adesso questa risorsa perde parzialmente la sua rilevanza patrimoniale. Visto che il turismo sostituisce la pesca come strategia di sussistenza familiare, il turismo diventa essenziale e le espressioni patrimoniali immateriali rispondono anche alle richieste dell’ambito turistico.
Vi è una diversità delle zone e delle popolazioni nel Delta: storione verso il mare, carpa/luccio/siluro nel Delta umido profondo, ma anche risorse agricole nella parte drenata (greggi di pecore dei pastori transilvani – formaggio). La gerarchia del pesce e del cibo non è sempre lineare: il pesce diventa un cibo nobile, per le feste e per i turisti. Prima, invece, la carne era vista come cibo domenicale per le famiglie di pescatori (pollo arrosto, pollo e risotto, maiale e fagioli) e il pesce come cibo quotidiano.
Le parti secondarie del pesce sono più apprezzate (le teste e le code più importanti, per la minestra, che i filetti).
Scopriamo alcuni piatti tradizionali che mangeremo spesso, come lo sgombro affumicato, la Malasolca (pesce con patate e aglio), la carpa al forno/allo spiedo (“protap”) con patate, pomodori, peperoncini interi, il minestrone di pesce (tre tipi di pesce, cipolla e pomodori). E poi i cardi di stagno, che in Italia si chiamano castagne d’acqua e che sono davvero tipici qui: freschi o bolliti con sale o trasformati in farina. Non dimentichiamo che il cardo, quello vero, è il fiore simbolo della Romania.
Vi sono poi alcuni animali tabù, che non si mangiano normalmente, contrariamente a quelle che sono le nostre abitudini: rane, granchio, lumache, cozze.
Insomma, un bell’antipasto di quella che sarà una delle parti fondamentali del nostro viaggio, la scoperta dei sapori del Delta.
Dopo cena Eugenio propone una birra in uno dei suoi locali “indie”, ai quali ormai ci ha abituato. Il gruppo perde qualche pezzo, ma i più resistenti ci seguono al J’ai Bistrot, un posto veramente indie, che nasce dal recupero di un vecchio giardino sottratto agli immobiliaristi. L’ingresso è assolutamente anonimo, dopo di che si passa per uno stretto corridoio con le pareti punteggiate di murales e si sbuca, appunto, in un delizioso giardino. Ci sediamo lì, all’aperto, sfidando l’aria fresca della sera.
Con Eugenio viene automatico, ora che abbiamo l’opportunità di chiacchierare con un po’ più di calma, parlare di Belgrado. Gli chiedo le ultime notizie sul progetto “Belgrado sull’acqua”, un faraonico piano di sviluppo del quartiere di Savamala che cambierà il volto della città nei prossimi anni, senza tenere in alcuna considerazione l’opinione degli abitanti, che in gran parte hanno mostrato di non condividere quel modello di sviluppo. Non mi dilungo qui, anche perché qualcuno di voi conoscerà già bene la storia. Per gli altri, comunque, c’è pronto un bel riassunto: Belgrado sull’acqua . E in quest’altro articolo proprio Eugenio ci racconta del movimento “Ne da(vi)mo Beograd”, ovvero “Non affon(diamo) Belgrado”, che tenta, con poche speranze purtroppo, di opporsi al progetto: Movimenti urbani a Belgrado .
Anche a livello più generale, Eugenio mi conferma l’idea che mi ero fatto seguendo da lontano, e cioè che gli spazi di vera democrazia in Serbia si stanno riducendo sempre di più, soprattutto dopo le ultime elezioni con le quali Aleksandar Vučić è riuscito ad accentrare di fatto su di sé e sul suo partito quasi tutti i poteri, dopo una campagna elettorale all’insegna di una clamorosa sproporzione di forze e di visibilità.
Ma per passare dalle tristezze ad una nota più divertente, Eugenio mi racconta un episodio che riguarda Milan, il ragazzo che disegna le barche, un altro dei protagonisti del nostro viaggio sul Danubio serbo dell’anno scorso. Forse qualcuno ricorderà che Milan, durante uno scambio di idee calcistico-antropologico che avevamo avuto io e lui durante una serata alcolica, si era segnalato per delle posizioni piuttosto apertamente nazionaliste. Ebbene, sembra che ci sia ricaduto. Eugenio lo ha fatto incontrare con un suo amico giornalista, anche stavolta davanti a un bicchiere di rakija, inevitabile dato che l’argomento dell’intervista erano le kafane, le taverne belgradesi. E anche stavolta, pur solo con una mezza frase, lui ha fatto capire qualcosa, perché parlando di Šešelj e di appartenenze etniche ha chiuso subito il discorso con un “Non chiedermi come la penso, crederesti che io sia un nazionalista”. Fatto sta che anche stavolta, come era successo per il mio diario di viaggio dell’anno passato, l’articolo è stato pubblicato su Osservatorio Balcani e Caucaso, e così il povero Milan ha già due segnalazioni in tal senso. Commento, ridendo, che allora c’è poco da fare, evidentemente dopo un tot di bicchieri il Milošević che è in lui prende il sopravvento…
E così, parlando di kafane belgradesi in un bar di Bucarest, può finire la nostra prima serata romena.
Secondo giorno: nel quale scopriamo la Parigi dei Balcani con una guida piuttosto originale ed entriamo in contatto con gli indignados romeni
Dopo la piccola “anteprima” di ieri, Bucarest ci accoglie, purtroppo, con una giornata di pioggia. Lo sapevamo, le previsioni per i primi due giorni erano decisamente orientate al brutto. Ma c’è sempre la speranza che siano sbagliate, e invece… così, a colazione, affiorano i primi malumori legati al meteo.
Il fatto è che oggi dovremmo visitare la città, e ci spiace doverlo fare magari in maniera un po’ limitata. Anche perché, secondo i racconti del primo gruppo di viaggiatori che ci ha preceduto, Bucarest ha riservato sorprese. Almeno rispetto alla grigia immagine stereotipata che generalmente se ne ha.
Del resto, anche Magris parla di Bucarest come della Parigi dei Balcani, a parte l’economia di energia elettrica che la sera non la rende una Ville Lumière (ma lui parla della Bucarest del 1986, dove sicuramente questo aspetto risaltava molto). E scrive anche che Bucarest, certo, non è solo città di folla e di bazar, ma anche di grandi spazi ariosi e signorili, parchi verdi e boulevards che portano a laghi appartati, ville ottocentesche e residenze fin de siècle della Lupescu, la famosa amante del re, palazzi neoclassici ed edifici staliniani. È una vera capitale; ne ha il respiro, la vastità, il maestoso e noncurante spreco di spazio. Ma precisa che a Bucarest il passage parigino si trasforma nel souk, nel mercato levantino. Lo stile nobile ed elegante assume una fisionomia equivoca, come un viso imbellettato con tinte volgari, ma acquista pure l’umanità di ogni incarnazione, l’umiltà del dolore e del sudore, la struggente e impura mortalità del vociare e gesticolare, l’umido fiato di quella che Saba chiamava la calda vita.
Bucarest, insomma, è la balcanizzazione di Parigi. Con queste premesse, è chiaro che la curiosità è tanta.
È con questa curiosità che salgo sul pullmino con il quale Florin ci accompagna alla scoperta della città, sempre con il suo navigatore ben sveglio e presente. Non sappiamo, in realtà, se lo segue o se fa di testa sua, alla fine, ma la voce ci è diventata ormai familiare, è come un rumore di sottofondo.
Ed è qui che facciamo la conoscenza di Maria, la nostra guida locale. È una signora, diciamo così, non più giovanissima dall’aspetto dimesso ma dal piglio deciso. Scopriremo poi che il suo look è legato anche alla sua religione: è una sorta di “suora” laica che appartiene ad una confessione protestante. Parla un buon italiano ma, purtroppo, a voce troppo bassa per farsi sentire da tutto il pullmino, col rumore del motore e il navigatore di sottofondo.
Il suo intento sarebbe, comunque, di raccontarci i tratti più significativi della storia di Bucarest e forse della Romania tutta prima che scendiamo dal pullmino per iniziare la visita. Impresa impossibile, ma alcuni spunti che cogliamo sono comunque interessanti. Per esempio, ci tiene a dire subito che il popolo romeno è un popolo latino, che deriva dall’incontro e dalla commistione tra i romani e i popoli che abitavano la regione in epoca preromana, in particolare i daci. Mi torna in mente il faccione di Decebalo, Re dei daci, che uno stravagante imprenditore romeno ha fatto scolpire su una parete rocciosa alle Porte di Ferro, dove il Danubio segna il confine tra Serbia e Romania e dove si è concluso il nostro viaggio sul Danubio serbo. Ma lei non parla dei romani come di colonizzatori, sostiene che piuttosto si creò una pacifica comunione con i popoli locali dalla quale nacque quello che oggi è il popolo romeno, che senz’altro i daci presero delle parole dalla lingua latina ma accadde anche il contrario, che il latino fu influenzato dalla lingua dei daci, o almeno così ci sembra di capire. È una teoria forse un po’ ardita, ma probabilmente un sintomo dell’orgoglio nazionalista che pare impregni la storiografia romena. Lo stesso orgoglio che mi sembra di poter leggere nelle scritte sui muri, in particolare quelle lungo il corso del fiume Damboviţa, che stiamo costeggiando. Scritte che, se capisco bene, rivendicano la “romenità” di territori come la Moldavia, che ora è uno stato indipendente dopo essere stata una repubblica sovietica, e la Bessarabia, ora divisa tra Moldavia e Ucraina. La Romania è un cuneo nel mare slavo, scrive Magris citando un ministro della Russia zarista e Cavour.
Ma non è tutto: Maria ci fa sapere anche che la Romania di oggi avrebbe bisogno di uno come il principe Vlad, sì, proprio lui, Vlad l’Impalatore, quello a cui Bram Stoker si ispirò per creare il personaggio di Dracula e che è celebre appunto per la simpatica abitudine di impalare i suoi nemici. Forse è una battuta, ma messa insieme col fatto incontrovertibile che Maria non è una che sprizza vitalità da tutti i pori contribuisce a far sì che, diciamo, non a tutto il gruppo sia simpatica, al punto che verrà anche coniato l’hashtag #BastaMaria.
Nonostante tutto, però, Maria ci dà anche dei dati di cronaca tutto sommato importanti. Lo stipendio medio, scopriamo, si aggira intorno ai 250 euro, quando per comprare un appartamento in centro ne servono circa 1000 per mq. E ci racconta che Bucarest è una città gioiosa, perché così vuole l’etimologia del suo nome. E non è una città molto antica, il primo nucleo risale appena alla fine del XIV secolo.
Con lei vediamo innanzitutto la chiesa del monastero Stavropoleos. La chiesa e il relativo monastero vennero eretti nel 1724 per volere dell’archimandrita Ioanichie Stratonikeas, originario dell’Epiro, poi divenuto metropolita di Stavropol. Da questo momento il complesso prese il nome di Stavropoleos. La chiesa è miracolosamente scampata anche alle distruzioni dell’epoca di Ceaușescu, e la vita monastica ha mantenuto e ripreso il suo corso.
La chiesa è un edificio di modeste dimensioni che riflette le tipiche caratteristiche dell’architettura romena: torre-cupola a dominio sul naòs, pianta trilobata e portico sulla facciata. L’interno è a pianta centrale con tre absidi rotonde e cupola centrale. Tutte le superfici sono rivestite di affreschi, originali dell’epoca della costruzione. L’abside di fondo è chiusa da una ricca iconostasi, in legno finalmente intagliato, che mostra delle icone antiche su fondo dorato. Gli affreschi rappresentano scene del Nuovo e dell’Antico testamento, il giudizio universale, figure di santi.
Poi una breve puntatina all’interno di un antico caravanserraglio ottomano, che oggi è diventato un hotel.
Dobbiamo anche cambiare un po’ di soldi: qui non c’è l’euro, ma il leu (plurale lei), che vale circa 0,22 euro.
Ed ecco davanti a noi, sotto la pioggia, quella che fu l’enorme Casa del Popolo di Ceauşescu, il monumento alla sua gloria, e che oggi è il parlamento. 3100 stanze, tutto costruito con materie prime romene tranne due porte, per le quali il legno venne fatto arrivare dall’Africa centrale. Dietro, sul lato sinistro, si scorge la sagoma di quella che doveva essere la residenza di Elena, la moglie di Ceauşescu, ma che non lo poté mai diventare davvero perché nel 1989, al momento del crollo del regime, era ancora in costruzione.
Magris racconta che, durante la costruzione della Casa del Popolo, la gente di Bucarest chiamava questo quartiere Hiroshima, perché in quegli anni era davvero sventrato e devastato. La megalomania di Ceauşescu sembrava volersi realizzare in una forma peculiare di demolizione, la traslazione. Non sempre cancellava edifici, spesso li conservava, ma sfasciava il paesaggio, perché trasferiva i fabbricati in qualche altro posto vicino, li spostava di decine o centinaia di metri, per creare un nuovo, suo spazio. Sbatteva una chiesa del settecento, con tutte le fondamenta, cinquanta metri più in là, dislocava palazzi e case, appiccicava una cappella a un casamento costruito un secolo e mezzo più tardi e se i due blocchi non combaciavano perfettamente tagliava un pezzo dell’uno o dell’altro e lo buttava via, modificando urbanistica e planimetrie con l’arbitrio del bambino che gioca con i castelli di sabbia.
Anche Maria ce lo conferma, spiegando che con questo Ceauşescu si toglieva anche la soddisfazione di demolire le più belle dimore borghesi dei ricchi professionisti che in precedenza abitavano in questa zona di Bucarest.
È ormai ora di pranzo. Anche Maria è invitata. Lei finge un po’ di schermirsi, ma non si fa pregare più di tanto. Il pranzo è organizzato dalla rete Slow Food Romania presso il mercato contadino che si tiene ogni sabato e domenica all’interno del parco dell’Accademia di Scienze Agrarie e Forestali.
Tiberiu e signora hanno preparato per noi: come antipasti, salsiccia di capra, salsiccia tartara di manzo e pecora, Pastrami armeno di manzo, formaggio di pecora Suciu, pancetta affumicata di maiale Botiza, cipolle verdi e ravanelli. Poi involtini di cavolo, polenta, crema contadina, peperoncino, Balmoş (polenta cotta in crema con latte acido di capra) e gelato fatto in casa.
Ma prima di iniziare, un’acquavite di prugne. Ebbene sì, abbiamo scoperto che anche qui c’è quella bella abitudine di iniziare i pasti con un bicchierino di grappa che tanto abbiamo apprezzato in Serbia. Qui si chiama ovviamente in modo diverso, non rakija ma țuica, come quella di oggi, o palinca se distillata più volte e quindi più forte.
Con noi c’è un’allegra comitiva di belgi, multietnica e chiassosa il giusto. Ma anche noi probabilmente, visti da fuori, facciamo un discreto casino.
Dopo pranzo salutiamo Maria e ci concediamo un po’ di riposo, per poi essere pronti per un piccolo fuori programma: la Romanian Design Week, che si tiene in un garage multipiano riadattato come spazio espositivo, non distante dal nostro hotel.
Ci sono esposizioni di architettura d’interni, arredamento, abbigliamento, oggettistica, grafica. Tutto interessante, ma io mi soffermo in particolare su una bella mostra di lavori grafici dedicati al tema dei diritti umani. Più degli altri mi colpisce, per la sua attualità, quello che rappresenta tanti passaporti che diventano i mattoni di un muro.
Nel frattempo ha smesso di piovere. Bucarest non mi sembra ancora una Parigi balcanica, se non per qualche ampio boulevard e una specie di arco di trionfo. Ma il tempo è poco, per scoprirla davvero. Ci torneremo alla fine del viaggio.
Ora ci aspetta un altro appuntamento molto atteso, quello con un attivista dei movimenti di protesta che hanno scosso il paese lo scorso inverno, in particolare tra gennaio e febbraio, dopo la promulgazione di una legge voluta dal nuovo premier Sorin Grindeanu che depenalizzava il reato di abuso d’ufficio, in contemporanea con due ordinanze di amnistia che avrebbero riguardato anche politici corrotti. Questo articolo di Osservatorio Balcani e Caucaso riassume gli avvenimenti di quei giorni, per chi non li avesse seguiti: Romania in piazza .
Chi ci aspetta è Claudiu, un attivista del movimento Demos, una delle realtà che hanno animato quelle proteste e che ora cercano di ritagliarsi un ruolo nel futuro politico della Romania. Con i buoni uffici della nostra Monica, che anche lei fa parte dello stesso movimento, Claudiu è qui per spiegarci chi sono e per rispondere alle nostre domande.
L’incontro è organizzato presso un altro locale molto indie, che ci mette a disposizione una saletta appartata. Nel giardino, in bella mostra, la testa di una statua di Lenin appoggiata su delle assi di legno.
Claudiu ci spiega che in realtà il movimento non nasce con le proteste di piazza di quest’anno, ma i primi fermenti risalgono ad almeno 4 anni fa, quando in Transilvania nacque un movimento locale che, dal basso in stile NO TAV, si opponeva alla costruzione da parte di una grande multinazionale canadese di una miniera d’oro, che avrebbe devastato il territorio dal punto di vista ambientale. E questo movimento alla fine vinse la sua battaglia.
Da lì è iniziato un processo che, gradualmente, ha portato alle proteste dei mesi passati, che quindi non sono nate dal nulla ma hanno trovato terreno fertile per il clima che si era creato. Altrimenti, non sarebbe stato possibile portare in piazza 400.000 persone, un fatto che non si vedeva dal 1989.
Claudiu è un ricercatore di scienze politiche e si considera di sinistra. Per questo ci dice che, dal suo punto di vista, quello che è avvenuto negli ultimi mesi ha aspetti positivi e aspetti negativi. È sicuramente positivo che le persone si siano mosse e siano scese in piazza contro la corruzione e l’impunità, ma allo stesso tempo c’è l’aspetto negativo che così altri problemi fondamentali come povertà, disoccupazione, disuguaglianze siano passati in secondo piano.
Di fatto ora, dice Claudiu, più che un problema di destra o sinistra, in Romania c’è un problema di democrazia, si sta imboccando una via che rischia di portare verso situazioni come quelle di altri paesi che stanno vivendo una pesante involuzione da questo punto di vista, come la Polonia e soprattutto l’Ungheria (Eugenio non manca, giustamente, di aggiungere la Serbia).
Una prova di questo è la proposta, attualmente sul tavolo politico, di un referendum costituzionale sulla famiglia tradizionale, per scrivere nella costituzione che la famiglia è solo quella formata da uomo e donna, anche se il Codice civile già proibisce i matrimoni tra persone dello stesso sesso. Il referendum si farà, perché tutti i partiti lo sostengono, compreso il PSD di Grindeanu che in teoria ha le sue radici nel vecchio Partito Comunista. Tutti tranne uno, che però è un nuovo partito che su questa questione si è spaccato (e qui a noi non può che venire in mente il PD italiano, la battuta è fin troppo facile). Questa proposta è in realtà il “grimaldello” per portare avanti un’agenda conservatrice che, in prospettiva, porta a favorire le scuole religiose, a bandire l’aborto ecc.
Demos è un movimento che è di sinistra, ma soprattutto è democratico ed europeista, per un’Europa riformata. Claudiu ci tiene a far capire che, al di là di quello che è “passato” all’estero, la componente di destra nel movimento è forte ma non è la sola. Ci sono anche loro. E demos potrebbe, forse, diventare un partito, come è successo ai fratelli maggiori di Podemos, anche se su questo lui non si sbilancia.
Ci sono, sostiene Claudiu, tre narrazioni nella società romena contro cui loro si battono: la prima vuole che il movimento anticorruzione sia diretto in realtà dall’estero, con in prima fila USA e UE, e che la lotta che porta avanti sia selettiva e ingiusta. La seconda dice che il capitale straniero fa solo male alla Romania, e il capitale romeno solo bene; per loro invece conta se il capitale fa fare cose giuste o sbagliate, non da dove proviene. E la terza è che l’UE sta “forzando” in Romania l’agenda pro diritti umani e pro minoranze. Queste tre narrazioni sono sostenute, oltre che dal governo in carica, dalla chiesa ortodossa, non tutta ma la parte più retriva, e dalle chiese neo-protestanti (come quella della nostra Maria…) ma nella società romena queste spinte ultraconservatrici e religiose non sono maggioritarie.
In Romania, purtroppo, attualmente c’è crescita ma il livello di povertà non si abbassa. Alla domanda di Cecilia su chi sono gli investitori stranieri più importanti, i veri “padroni” stranieri della Romania, Claudiu dà una risposta inaspettata. Non solo gli italiani non contano poi tanto, e questo ci sta, ma non sono neanche i cinesi. In testa alla classifica ci sono gli olandesi, poi gli austriaci, i francesi, i tedeschi e poi, forse, vengono gli italiani.
Quali le prospettive? Le nostre domande sono molte. Claudiu spiega che i media sono asserviti a potentati politici ed economici, ma cresce il peso dei social network e non solo i giovani li seguono. C’è speranza, secondo lui, nel futuro. Il problema, però, potrebbe essere una spaccatura tra generazioni: gli anziani (anche la Romania è un paese che sta invecchiando, anche perché tuttora molti giovani se ne vanno) votano PSD perché sono tendenzialmente nostalgici e ostili ai cambiamenti.
Questo dibattito stimola, naturalmente, anche le prime discussioni politiche tra noi, e si capisce che c’è parecchio pessimismo e mancanza di punti di riferimento per il futuro della sinistra. C’è chi, in assenza di qualcosa di più vicino, li cerca nel movimento DIEM25 di Varoufakis… di sicuro miagoliamo nel buio, come diceva qualche anno fa quel genio di Corrado Guzzanti.
Un po’ di queste discussioni ce le portiamo anche a cena, al ristorante Lacrimi şi Sfinți (la Lacrima del Santo), il cui proprietario e fondatore è Mircea Dinescu, uno dei più famosi e amati dissidenti romeni. Poeta, scrittore, pubblicitario e giornalista, si oppose strenuamente al regime di Ceauşescu e per questo venne cacciato dalla redazione della rivista letteraria Romȃnia Literarȃ e messo agli arresti domiciliari, dove rimase fino al dicembre del 1989, quando prese parte alla rivoluzione romena. Oggi a Cetate, lungo il Danubio romeno non lontano dal confine con la Serbia, Mircea ha fondato un porto culturale dove ogni anno organizza festival musicali, workshop di poesia, il Divan film festival e un festival di arte e gastronomia.
Il menù di stasera prevede antipasto, carpaccio di agnello e torta al formaggio.
Durante la cena, per non affliggerci troppo con le tristezze della politica, ci spostiamo sullo sport, in particolare sul tennis tavolo (mi raccomando, mai più “Ping pong”: è offensivo!). Abbiamo scoperto che il nostro compagno di viaggio Paolo non è solo medico (e anche appassionato di ornitologia, ma questa è un’altra storia, ne parleremo più avanti) ma soprattutto campione di tennis tavolo. Tra non molto parteciperà ai campionati italiani per veterani. Eugenio ci informa che a Sulina, sul Mar Nero, dove arriveremo fra tre giorni, c’è un bar con un tavolo da ping… ehm, da tennis tavolo, e che anche lui è un discreto giocatore (anche se fa il modesto). Nasce l’idea di una sfida, e nel gruppo si crea già un clima di grande attesa…
Terzo giorno: nel quale, in un paese che si chiama Greci, conosciamo una comunità di italiani e balliamo al ritmo di una band di turchi
Partiamo subito dopo colazione in direzione del Danubio: i chilometri che ci aspettano non sono pochi. Bucarest ci ha sicuramente incuriosito, ma è ora di dirigerci verso quella che è la vera meta del nostro viaggio: il Grande Fiume. Andiamo prima in direzione est, poi a un certo punto piegheremo a nord, tenendoci per ora a distanza dal fiume, che passa a Cernavoda sotto quello che fino a poco tempo fa era l’unico ponte sul Danubio in territorio romeno.
Il paesaggio è abbastanza monotono, e così Eugenio per aiutarci ad ingannare il tempo inizia a raccontare. Racconta dei cardi del Baragan, la steppa romena. E racconta di antichi popoli come gli sciti, che abitavano queste terre quando un po’ più a sud, su un altro mare, le civiltà ellenistiche fiorivano e inventavano quella cosa che, da allora in poi, abbiamo chiamato democrazia. La regione che attraversiamo, la Dobrugia, si chiamava allora Scizia Minore. È allora che nasce la storica contrapposizione tra civiltà e barbarie: i greci, stanziali, rappresentavano la civiltà e gli sciti, nomadi, la barbarie o quella che era vista come tale con gli occhi dei greci e, più tardi, dei romani.
Non dimentichiamo che da qui, secondo il mito, gli argonauti passarono tornando dal viaggio alla ricerca del vello d’oro nella barbara Colchide. Inseguiti dalle galere di Eete, navigarono attorno al Mar Nero nel senso contrario al giro del sole. Una delle versioni riporta che, quando Eete raggiunse Giasone ed i compagni alla foce del Danubio, Medea prese il piccolo Apsirto, il fratellastro che aveva portato come ostaggio, e lo fece a pezzi, gettandone i pezzi in mare. Eete, inorridito di fronte a tale orrore, costrinse le navi inseguitrici a fermarsi presso Tomi (oggi Costanza, sul Mar Nero, un po’ più a sud del Delta) per recuperare i brandelli del figlio dilaniato. Secondo altri autori, invece, Giasone riuscì ad uccidere anche Eete.
E sempre a Tomi venne relegato Ovidio quando cadde in disgrazia presso Augusto, forse per una illecita relazione con la figlia di Augusto, Giulia, forse per aver partecipato a intrighi e congiure di palazzo. Già da allora il Mar Nero era terra d’esilio, di tristi inverni e di solitudini. Il Mar Nero si chiama così perché spesso il suo cielo si fa cupo e tempestoso, e ancora oggi la potenza delle parole proietta su questo mare l’immagine di un grande stagno opprimente, oscurato da nuvole e incapace di serenità.
Il cielo di oggi è ancora un po’ nuvoloso, ma non piove e la temperatura è in salita. Tra storia e mito, stiamo per arrivare alla prima tappa della giornata, che è un po’ più… prosaica. Abbiamo in programma una degustazione di vini presso l’azienda vinicola Alcovin, nei dintorni di Macin.
Trecento ettari di vigneti, questa azienda vanta il ruolo di fornitrice della corte Reale. I Reali di Romania oggi vivono in Svizzera, anche se volendo potrebbero tornare, nessuna disposizione di legge glielo impedisce. Le terre calcaree bianche di queste zone, ci spiegano, sono ottime per produrre vini bianchi. Ma qui si producono anche vini rossi, come il Feteasca Neagra (nero da signorina), il più prestigioso vino derivante da un vitigno autoctono romeno. E un moscato in grado, niente meno, di giungere secondo al concorso “Muscats du monde”… e solo perché deve per forza vincere un francese, si sa come sono i nostri cugini d’oltralpe.
Qui, a differenza dell’Italia, ci sono poche aziende vinicole ma molto grosse. Da noi ci sono 600.000 aziende piccole (in media 1,5 ettari ciascuna). Chi ce lo racconta, in ottimo italiano, è un ingegnere, che ora lavora, qui in Romania, per un’azienda di Bari che produce attrezzi agricoli ma per 12 anni ha vissuto a Torino. Per un anno si è occupato di impianti di allarme e maniglioni antipanico, ma poi, passando dalle parti di Alba, si è innamorato della viticoltura…
Dopo la degustazione di ben sei vini e il lauto pranzo, ci portano a fare un breve giro in cantina, dove tra l’altro ci raccontano la storia di Terente, un bandito di queste parti, di origine russa (un Lipoveno, per essere precisi, ma quella dei Lipoveni è un’altra storia e ne parleremo meglio più avanti), famoso anche per la sua virilità. Sembra sia il terzo di una speciale classifica in cui lo sopravanzano solo Rasputin e un soldato napoleonico. Era l’amante di molte donne aristocratiche dell’epoca (parliamo degli anni ’20 del ‘900) e si nascondeva proprio qui, in queste grotte sotterranee. Alla fine commise un errore fatale: andò con la moglie di un sacerdote, suscitando sdegno. Allora furono i suoi stessi complici e amici a venderlo, e così fu condannato a morte e decapitato nel 1927. Ma di lui resta qualcosa, un grosso… ricordo conservato, pare fino a non molto tempo fa, all’Istituto di Medicina Forense di Bucarest.
Ripartiamo e ci dirigiamo a Greci, che è a pochi chilometri da qui. È giunto finalmente il momento di conoscere una comunità che mi intriga molto, quella degli italiani, di origine friulana prevalentemente, con qualche veneto, che vivono tuttora qui, in questo paesino. Che si chiama Greci perché, in un periodo imprecisato della sua storia, sembra sia stato anche una colonia greca, anche se su questo ci sono poche certezze. Forse invece qui c’erano i “greci”, nel senso dei cristiani di rito ortodosso greco, quando la zona era controllata dai turchi. Gli italiani, però, sono certamente italiani e sono gli eredi di una migrazione che risale molto indietro nel tempo, fino agli anni ’80 del 1800. È allora che, dal Friuli che allora era terra di fame e di miseria nera, per quanto sia difficile da credere, questi uomini si spostarono fin qui, nella Romania che stava nascendo, in questa terra appena strappata ai turchi. Venivano soprattutto da un paio di paesi del pordenonese, Maniago e Poffabro, e arrivarono qui per lavorare in una cava di granito. Quindi per fare un mestiere ingrato e durissimo, spaccare pietre sotto il sole cocente d’estate e morire di freddo d’inverno. Un mestiere di quelli che non duri, troppa polvere nei polmoni per poter campare a lungo, la silicosi è una brutta bestia. Certo, tutti sappiamo che l’Italia è stato un paese di emigranti (o meglio, chi vuole saperlo lo sa). Ma se pensiamo ai nostri nonni che partivano con la valigia di cartone ci viene in mente Ellis Island, ci vengono in mente gli Stati Uniti, e l’Argentina, il Brasile, l’Australia, e più vicino la Svizzera, il Belgio, la Francia… ma la Romania? Chi l’avrebbe mai detto che a quell’epoca ci fosse in quello che ora è il ricco nordest qualcuno talmente disperato da emigrare in Romania? È davvero una storia straordinaria. Una storia che, a saperla capire, dovrebbe insegnarci molto anche sull’oggi.
La comunità ora è ridotta ad una settantina di persone, soprattutto anziane, ma nei suoi anni “ruggenti” è arrivata a contare anche 600 persone. In anni recenti, dopo il 1989, l’emigrazione si è ripetuta al contrario. Tanti giovani se ne sono andati, proprio verso quell’Italia che non avevano mai visto ma a cui erano sempre rimasti legati, soprattutto parlandone la lingua, per quanto anche questa, negli anni, si stia naturalmente perdendo. All’inizio parlavano addirittura il dialetto friulano… ma, per chi vuole approfondire, lasciamo che sia Eugenio a raccontare la storia come si deve, molto meglio di come posso fare io: I friulani di Greci
Il primo incontro con Otilia, presidente dell’associazione dei Friulani di Greci, per noi avviene in una chiesa, la piccola chiesa bianca di S. Lucia, la chiesa cattolica di Greci. Ci sediamo sulle panche, con il giovane parroco che fa gli onori di casa. Quando tutti abbiamo preso posto Otilia si alza in piedi, inforca gli occhiali, se li aggiusta sul naso e comincia a raccontare la sua storia e quella della sua comunità. Parla un perfetto italiano, con solo un accenno di cadenza tra il veneto e il friulano. I suoi nonni erano uno di Maniago e uno di Poffabro.
Ci racconta degli uomini che morivano presto, perché il lavoro in cava fa male ai polmoni. Dei contadini che dovettero rinunciare alla cittadinanza italiana per avere la terra. Di una comunità unita, laboriosa e tranquilla. A Greci, in tutti questi anni, si ricorda solo di un divorzio, lo dice con un certo orgoglio. Adesso, il paese in totale ha circa 3000 abitanti.
Non vuole dire quanti anni ha ed è giusto così, è un vezzo che le dobbiamo concedere. Ammette solo di aver passato i settanta. Suo marito è romeno, anche lui ha problemi di salute da parecchio tempo, anche se non ha lavorato in cava. Ha due figlie: una vive negli Stati Uniti e l’altra a Bucarest, dove è presidente del WWF Romania.
A Greci c’era una scuola italiana, anni fa, ma ora è diventato un asilo, frequentato da tutti i bambini del paese. Bambini che sono sempre meno, purtroppo. Otilia fino all’anno scorso si occupava di un gruppo folkloristico di bambini, ma ora non più. Fa una piccola pausa, la voce rotta dall’emozione. Mancano i bambini, e mancano anche i soldi. Ma poi la voce torna serena. La vita è così, sembra dire Otilia. Ha le sue regole, che sono regole semplici in fondo. Il tempo è passato e bisogna accettarlo.
Girando per Greci la prima cosa che colpisce è che le strade sono quasi tutte sterrate. Fa impressione pensare che, con tutto il granito che è stato estratto in questa zona, neanche una pietra è rimasta qui per pavimentare le strade. Chissà cosa succede d’inverno, ci diciamo parlando tra noi.
Qui dormiremo in famiglia, divisi in piccoli gruppetti. Io, con Vanna e Maura, vengo sistemato nella dependance della casa del fratello del sindaco, una bella casa, devo dire. Cecilia dormirà da Otilia, altri dal parroco con la sua perpetua.
Ci avviamo verso il parco naturale delle montagne di Macin, dove passeremo il resto del pomeriggio.
Le montagne di Macin sono le più antiche in Romania, formatesi per orogenesi ercinica, il processo che ha contribuito alla formazione delle montagne europee in seguito alla collisione continentale avvenuta nel tardo paleozoico, circa 300 milioni di anni fa, che diede origine al supercontinente Pangea. Qui la steppa è interrotta dai boschi di querce, faggi e frassini che punteggiano i pendii delle colline.
Nel parco ci sono 1300 specie di piante, su 2000 totali in Romania, e 1000 specie di farfalle. La guida del parco ci fa una breve introduzione in inglese, all’interno del museo, ma Otilia ogni tanto lo corregge: sembra saperne più di lui…
Dopo di che ci facciamo una breve passeggiata nel parco, fino a una radura da dove si gode una bella vista.
Negli ultimi anni il parco ha vissuto un notevole sviluppo turistico. Sono molti i romeni che vengono qui per apprezzarne la natura, gli itinerari escursionistici e quelli cicloturistici.
Noi non abbiamo molto tempo purtroppo, ora ci dobbiamo fare una doccia veloce e andare a cena.
Le signore delle famiglie di Greci hanno preparato per noi un sacco di prelibatezze locali, che gusteremo sotto le stelle seduti intorno ad una grande tavolata. Ma prima, non può mancare un bicchierino di grappa. Dobbiamo assolutamente imparare a brindare in romeno, non posso continuare a dire “Živelj!” in serbo. Lo chiedo a Eugenio, e lui, che ormai è in Romania da più di un mese per preparare questo viaggio, non può non saperlo: si dice “Noroc”. Noroc no party, la battuta viene subito spontanea.
Il vocabolario romeno è ancora striminzito: finora abbiamo imparato Buna dimineața (buongiorno) e Mulțumesc (grazie – si può dire anche mersi, che è più facile). Ma i fondamentali ci sono, diciamo. Io l’anno scorso in Serbia ero arrivato già più “pronto” per passate frequentazioni, ma qui in Romania è la prima volta che metto piede.
Il clima è piacevolmente conviviale. C’è qui con noi buona parte della comunità italiana. Al nostro tavolo, oltre a Otilia ci ha raggiunto Nagia, rappresentante della comunità turca di Macin. E turchi sono anche i musicisti che allietano la serata: la band si chiama Lira, forse in omaggio alla moneta turca. Sono davvero simpatici, del resto qualche notizia su di loro è già arrivata dal primo viaggio della radio. Sappiamo che Claudio Agostoni si è fatto fare un jingle, ne è uscito qualcosa che suona tipo “Asculta Radio Popolare”, sulle note di Ramo Ramo, che è uno dei pezzi fondamentali del loro repertorio. Ovviamente chiediamo di ripeterlo per noi e il cantante, che è un grande istrione, non si fa pregare. Ramo Ramo è una canzone d’amore che, curiosamente, nasce da un film indiano che era molto popolare nei Balcani nei primi anni ’70.
La gag divertente che caratterizza la band è che tengono il fez sempre a portata di mano e lo indossano quando suonano un pezzo turco, come a dire “ora siamo turchi”… ma poi lo tolgono e possono essere romeni, serbi, greci, bulgari… è quel grande mélange balcanico che a me piace sempre. E non solo balcanico, a dire il vero: ci regalano anche una loro versione de “El condor pasa”.
Ma io preferisco proporveli in questo pezzo, che è forse tra le espressioni migliori di quello che sono i Balcani: Üsküdar’a Gider Iken, andando a Üsküdar. Una canzone popolare di origine turca probabilmente, anche se non è certo. Üsküdar si trova sulla sponda asiatica del Bosforo, questo è sicuro. Ma ne esistono innumerevoli versioni, con altri titoli e altri testi: in greco, in serbo, in ebraico, in albanese, in bulgaro, sembra perfino in pakistano e bengalese. Ogni popolo la canta nella sua lingua e ogni popolo la sente in qualche modo sua.
Dopo cena, Nagia ci offre Baklava e caffè turco. “Teşekkür ederim”, grazie mille, le dico spendendo una delle pochissime parole del mio vocabolario turco, e lei mi sorride. Suo nonno era imam di Macin, spiega Eugenio, e consegnò le chiavi della città al re Carlo di Romania quando questi ne prese possesso. In Dobrugia oggi vivono circa 80.000 turchi, è una comunità ancora numerosa. Sono ovviamente gli eredi degli ottomani, che dominarono per circa 450 anni qui, fino al 1878. Ma, in particolare, molti turchi di queste zone appartengono in realtà all’etnia dei circassi, un popolo musulmano del Caucaso che si era trasferito nei territori dell’impero ottomano perché scacciato dalla Russia zarista.
Nagia ha più o meno la stessa età di Otilia. È bello vederle insieme. Si capisce che si conoscono e si stimano, ognuna cerca di tenere viva più che può la sua comunità ma ci dicono che non ci sono mai stati contrasti; in questo lembo di terra diverse etnie e religioni convivono in pace da sempre. Forse è facile per questo, ma mi piace pensare che sia la dimostrazione che è possibile.
Queste due donne ci dicono che convivere è una cosa semplice e naturale, da queste parti è sempre stato così, non c’è mai stato bisogno di pensarci troppo. Qui tutti sono stranieri e nessuno è straniero, ci si aiuta l’un l’altro e basta. È sicuramente una delle immagini più forti che mi porterò a casa da questo viaggio.
E poi si balla. Tutti (o quasi) ci buttiamo nelle danze. Si distingue particolarmente il nostro valente autista, Florin. Questa è una serata libera per lui, non è lui che ci deve riaccompagnare tutti a casa, quindi ha potuto anche bere qualcosina… e ora si scatena e strappa applausi. Lanciatissimo, si esibisce, nonostante qualche chiletto di troppo, con sapienti movenze da consumato animatore delle notti balcaniche, rivelando un lato finora insospettabile.
Tutti insieme proviamo a ballare in cerchio, nello stile greco, o forse serbo, chi lo sa. Ma non erano turchi, poi? Va bene, non importa. Durante uno degli ultimi giri prendo per mano una bellissima bambina di quattro o cinque anni, che vive qui ma ha il papà in Italia. Si chiama Edi. Aveva voglia di ballare ma è l’unica bambina così piccola ed era un po’ intimidita, poverina… ora non si ferma più, la mamma deve quasi trascinarla via a forza, ma è tardi per lei.
Sarebbe tardi anche per noi, ormai i turchi se ne stanno andando ma per il mio piccolo gruppetto, che è rimasto l’ultimo ad aspettare le macchine che ci devono riportare alle nostre case, c’è un ulteriore fuori programma. Un tipo muscoloso, con la testa rasata e in maglietta mimetica, ci annuncia che è il suo compleanno: 50 anni ben portati, devo dire. Nonostante l’aspetto vagamente inquietante, è simpatico, parla un buon inglese e sembra a suo agio con l’impianto stereo, che poi ha una potenza ragguardevole. E così inizia un improvvisato DJ set…
Quarto giorno: nel quale iniziamo a navigare il Delta e incontriamo i Lipoveni
Facciamo colazione nelle nostre case questa mattina, non prestissimo per fortuna, visto che la serata è stata abbastanza lunga.
È l’occasione per fare due chiacchiere con la famiglia di Daniel, per tutti Dani, il fratello del sindaco. Ieri sera non c’è stata l’opportunità, per mancanza di tempo e anche perché a cena ci ha accompagnato sua moglie, che non parla molto bene l’italiano. Lui invece lo padroneggia perfettamente, e ce ne spiega anche il motivo: è uno dei tanti che, da Greci, sono partiti verso l’Italia dopo la caduta del regime. Curiosamente, sono finiti quasi tutti in provincia di Torino. Lui, per parecchi anni, ha fatto il camionista; portava l’olio dalla Spagna, o anche dalla Tunisia. Olio che veniva venduto poi come olio toscano, ci racconta.
Sua moglie ha preparato per noi dei buoni dolcetti, e abbiamo caffè in abbondanza. Lei è incinta di cinque mesi, si vede un accenno di pancia anche se non è ancora evidentissimo. Il bambino, un maschietto, nascerà in ottobre. È il loro primo figlio. Lui ne è orgogliosissimo, dice che era ora visto che ha passato i quaranta… ma lei è più giovane, precisa sorridendo.
Non so come, il discorso va a finire sugli stranieri, l’emigrazione e tutti gli annessi e connessi. Dani fa quella premessa che, anche se fatta con le migliori intenzioni, mi rende sempre, diciamo, non particolarmente ben disposto nei confronti di chi la fa: “Io non sono razzista, ma…”. A questa premessa, infatti, in genere segue un’affermazione (o spesso più di una) con la quale la premessa stessa viene completamente smentita. Non dico che questo sia il caso di Dani, però insomma si capisce che è stato in Italia e che ha respirato un bel po’ della nostra aria. Perché qui un problema di immigrazione recente non esiste, tutte le comunità straniere che sono in questo territorio ci sono da almeno un secolo. Anzi, il Delta si sta spopolando, negli ultimi 30-40 anni la popolazione si è dimezzata e ora non supera le 15.000 persone. Ma lui si riferisce all’Italia, è chiaro, e più in generale all’Europa. I concetti di base sono degli evergreen: non possiamo accogliere tutti, non c’è lavoro neanche per noi, dovremmo aiutarli a casa loro. Sintetizzando e semplificando forse non gli rendo giustizia, lui in realtà non ragiona affatto male. Dice che ha visto un documentario sulla BBC, dove si vede che in Inghilterra, in Francia, in Belgio ci sono villaggi completamente in mano a immigrati musulmani, potenziali terroristi, dove la polizia non ha neanche il coraggio di entrare. Non si può neanche dire che sia del tutto falso, forse solo un po’ ingigantito, ma certo il contrasto con l’immagine di ieri sera di Otilia e Nagia è stridente e non posso fare a meno di farglielo notare. Ma come, gli dico, voi qui siete un esempio che la convivenza di diverse etnie e religioni è possibile, e tu mi dici questo? Lui ribatte che è diverso, che oggi con questi che arrivano dai paesi islamici è troppo difficile, che qui è diverso da una grande città (e su questo non posso dargli torto)… bisogna anche capirlo, probabilmente quando escono da questo piccolo mondo così particolare cambiano anche il modo di ragionare, fatalmente è così.
Per cambiare argomento gli chiedo del fratello sindaco, gli dico che intanto è una bella cosa che il sindaco sia italiano, visto che tutto sommato ora sono una piccola minoranza, e poi gli chiedo se è contento, se si ricandiderà… probabilmente no, dice lui. Spiega che il fratello è un imprenditore prestato alla politica, che ha fatto il suo dovere per la comunità ma alla fine del mandato lascerà a qualcun altro. Si è sentito in dovere di dare una mano perché le cose andavano troppo male, i politici locali sono degli incapaci (anche questo discorso mi sembra di averlo già sentito, non so dove…), ma ora è troppo stressato, si è reso conto che la politica non fa per lui.
Forse è un po’ eccessivo per un paese di tremila anime, ma Dani sostiene che in Romania, a tutti i livelli, c’è troppa corruzione e poca competenza. Il paese, secondo lui, risente ancora dei disastri del periodo comunista. I comunisti – dice – hanno ammazzato tutti gli uomini di cultura e hanno messo al potere gli ignoranti. Anche questa visione non è certamente infondata, ma suscita da parte nostra qualche perplessità. È vero che lui quel periodo l’ha vissuto, ma era un ragazzino… comunque il confronto è interessante, in fondo siamo qui anche per questo, per capire cosa pensano le persone che vivono qui.
Dani e sua moglie ci portano nella piazza del paese, dove, davanti al mercato agricolo, abbiamo appuntamento per la partenza. Salutiamo loro, Otilia e tutti gli altri e siamo pronti per incamminarci verso Tulcea, dove finalmente ci imbarcheremo.
Eugenio ci racconta che, con il tipo in maglietta mimetica, hanno festeggiato e bevuto fino a notte fonda. Lui ogni tanto cercava di staccarsi per andare a dormire (lui ha dormito lì, dove abbiamo mangiato ieri sera: è una struttura per i visitatori del parco) ma invariabilmente gli offrivano un altro bicchiere di rum. E anche quando finalmente è riuscito a salire nella sua stanza, ha continuato a sentire il rumore della festa. Quindi oggi, forse, non sarà al massimo della forma. Guardandolo può darsi, ma io conto sulle sue capacità di recupero.
Oggi il sole splende. Il nostro ballerino preferito Florin ci porta, finalmente senza navigatore, verso Tulcea. Arriviamo in tempo per prendere un caffè di metà mattina e depositare i bagagli in un hotel che ce li terrà in custodia durante le nostre scorribande in barca sul Delta. Dato che gli spazi in barca sono ridotti, infatti, ognuno di noi si può portare solo un bagaglio essenziale, quelli più grandi verranno lasciati qui fino a quando ripasseremo, fra tre giorni. Io, visto che il mio zaino è di dimensioni contenute e soprattutto non è rigido, sono stato autorizzato da Eugenio a portarlo con me.
Tulcea è una città di circa 90.000 abitanti, piuttosto anonima, per quanto possiamo vedere, dal punto di vista delle architetture, non è ancora il Delta ma ne rappresenta un po’ la porta. È qui che anche noi ci imbarcheremo; il viale che conduce al porto fluviale è orlato di palazzoni e hotel per turisti internazionali, ma per noi rappresenta pur sempre il primo contatto visivo col Grande Fiume che da mesi aspettiamo di tornare a solcare. Qui il Danubio, citando ancora una volta Magris, comincia a spargersi e ad effondersi come vino da rotto cratere. E, anche qui, non è esattamente blu come vuole la visione romantica del valzer di Strauss. E neanche biondo, “a szöke Duna”, come dicono gli ungheresi. Tende più al verde-grigio.
Sul lungofiume, dove passeggiamo in attesa del pranzo, campeggia un monumento allo storione, altra conferma che stiamo proprio per entrare nel Delta. Ma prima, ci aspetta la seconda degustazione di vini in due giorni. Stavolta il produttore è italiano, marchigiano per la precisione, ma vive qui già da parecchi anni e ha impiantato qui la sua azienda, La Sapata, che produce vini biologici sia da vitigni romeni che internazionali.
Per la degustazione, e per il pranzo “leggero” che la accompagna, ci fermiamo da Ivan Pescar, un ristorante tradizionale di pesce. Il menù prevede, per iniziare, un tagliere con insalata di uova di pesce, spratto marinato, merluzzo e carpa affumicati, verdure e pane tostato. Poi zuppa di pesce, e per finire pasticcio di formaggio e torta di miele e mirtilli.
Anche qui, come in tutti i posti dove abbiamo mangiato finora, è previsto un apposito menù per i vegetariani, che sono un piccolo drappello guidato ovviamente da Cecilia, e vengono diligentemente prese in considerazione le esigenze degli intolleranti al lattosio o ad altro. Il gruppo non è dei più semplici da gestire, da questo punto di vista, ma Eugenio come sempre è attento a tutto e bisogna dire che i ristoratori lo seguono, anche se a volte si vedono camerieri un po’ spaesati.
Qui incontriamo anche Cristian, uno specialista in ornitologia del WWF romeno, che ci seguirà per tutti i tre giorni del Delta, e Ana, detta Anca o Ancuța, che è la sua interprete. In realtà Cristian qualche parola di italiano la butta già lì, e andrà migliorando col passare dei giorni. Ma Ancuța non parla solo un ottimo italiano, ha anche un master nel settore turistico, perciò può farci anche lei un po’ da guida, anche se è specializzata su Costanza, che è la sua città. Cristian, invece, è di Tulcea.
Arriva finalmente il momento di imbarcarci. Siamo diretti a Mila 23, a 23 miglia marine dalla foce del Danubio. I bracci principali in cui il fiume si divide, a partire da Tulcea, sono tre: quello di Chilia, a nord, che entra a sua volta nel mare attraverso quarantacinque bocche, e versa due terzi dell’acqua e dei detriti del Danubio; quello centrale, che navigheremo noi, il braccio di Sulina, che si getta dritto nel Mar Nero grazie alla canalizzazione operata fra il 1880 e il 1902, che ne rende agevole la navigazione e simbolicamente rettilineo e deciso il percorso; quello di Sfintu Gheorghe (San Giorgio), a sud, serpentino e attorcigliato, al quale il Danubio deve la lunghezza canonica attribuitagli nei manuali.
Per arrivare a Mila 23 ci addentreremo nei piccoli canali, alcuni tra i più spettacolari. In questi canali non si può entrare con barche da 15-20 persone, quindi dobbiamo dividerci in due gruppi: abbiamo una barca un po’ più grande, che si chiama Lolita, e una un po’ più piccola, senza nome. Per sicurezza, dobbiamo metterci i giubbotti salvagente. Io salgo su quella più piccola, con Eugenio, mentre l’altro gruppo, con Cecilia e con Cristian, parte con Lolita. La presenza di Cristian è importante perché il Delta è un punto di incrocio delle migrazioni di uccelli, sei direzioni migratorie in primavera e cinque in autunno. C’è ad esempio la rotta pontica, che seguono gli uccelli dell’Europa centrosettentrionale, la rotta sarmatica e quella carpatica. Più di trecento specie di uccelli. Gru, cicogne, storni, anitre, oche, colombe, aquile, falchi, marangoni, folaghe, aironi, gruccioni, garzette, cormorani, pellicani. Solo per citarne alcuni.
Anche Paolo, il nostro compagno di viaggio, è un grande appassionato di ornitologia, e ha portato con sé un libro pieno di foto di tutte le specie che potremmo avvistare, se siamo fortunati. Forse, tenendo conto di questo, avremmo potuto fare in modo che lui stesse su una barca e Cristian sull’altra, ma al momento non è andata così. A posteriori è sempre tutto facile.
Ma comunque, quando lasciamo il braccio principale per imboccare i canali più piccoli, l’impatto col Delta è davvero fortissimo. È uno spettacolo naturale incredibile. Avanziamo lentamente tra giunchi e canneti, ma spesso anche alberi che si riflettono nell’acqua. In certi punti è un tappeto di ninfee, sormontate da piccoli fiori gialli. Eugenio li chiama nannuzzoli, ma scopriremo poi che si chiamano nannuferi. Nel gruppo, quando l’abbiamo scoperto, c’era incredulità: allora anche lui è umano! Può sbagliare…
Ma torniamo allo spettacolo della natura. Anche qui temo che le mie parole non siano adatte per descriverlo, ammesso che ce ne siano di veramente adatte. Io non lo so, se ce ne sono, ma ancora una volta mi faccio aiutare da Claudio Magris: “Il Danubio si confonde con i prati in una grande e inestricabile giungla d’acqua, folti alberi si chinano sul fiume formando grotte liquide, dimore profonde e labili, verdecupo e blu come la notte, nelle quali non è possibile distinguere la terra dall’acqua e dal cielo. La vegetazione copre ogni cosa, s’inerpica e s’attorciglia dovunque, in una proliferazione esuberante e cedevole, gioco di specchi che si rimandano i loro riflessi.”
Attraversiamo il lago Fortuna, dove abbiamo, davvero, la fortuna di vedere un volo di uccelli che non ha bisogno di alcuna spiegazione.
Nel tardo pomeriggio arriviamo a Mila 23, che appunto si chiama così perché si trova a 23 miglia marine dal punto zero di Sulina, da quello che convenzionalmente è considerato, ebbene sì, esiste, il punto dove finisce il Danubio.
Mila 23 è un villaggio di circa quattrocento abitanti, dove molte case sono case tradizionali del Delta, costruite con un impasto di paglia e fango, o in legno dipinte di bianco e di azzurro, con i tetti di giunchi. Anche la nostra pensione è così, piena di atmosfera, e naturalmente sulla riva del fiume. Qui tutto è sulla riva del fiume, non esiste altro. E non esistono strade, ci si può arrivare solo in barca. Siamo entrati davvero nel microcosmo del Delta.
Qui lavora l’associazione Ivan Patzaichin, che si propone di realizzare e promuovere progetti di sviluppo sostenibile di interesse locale e regionale. L’associazione è stata fondata su iniziativa dell’ex campione di canoa Ivan Patzaichin e applica i principi dello sviluppo sostenibile: proteggere l’ambiente e la biodiversità, promuovendo l’uso sostenibile delle risorse naturali e contemporaneamente sostenendo la crescita economica e l’occupazione.
Questo attraverso progetti e programmi incentrati sul turismo che fa vivere la natura e la cultura, ma anche lo sviluppo di programmi e strategie per migliorare la qualità della vita della comunità.
Dopo una lunga e importante carriera di sportivo plurimedagliato e allenatore, Ivan Patzaichin, classe 1949, ha deciso di utilizzare così la sua reputazione, per promuovere la cultura della sua terra natale e favorire una vita sana in un ambiente sostenibile.
È Cristian che ce lo spiega, con la traduzione di Ancuța. Gli chiedo se ancora oggi esiste, da queste parti, un vivaio di campioni di canoa. Non è solo il 4 volte campione olimpico e 8 volte campione del mondo Ivan Patzaichin, infatti. Qui davanti a noi, sui cartelloni dell’associazione, abbiamo un lungo elenco di campioni che sono nati da queste acque, tutti con un palmares invidiabile. Mi risponde che purtroppo no, non c’è più, la tradizione si è persa. Cristian non lo dice, ma è finita con la caduta del comunismo, che notoriamente aveva tra i suoi principi la creazione di una cultura sportiva che ha prodotto tante storture ma anche, soprattutto per gli sport “minori”, una serie di successi che non ha più trovato un seguito negli anni del “post”.
È sempre l’associazione che ha organizzato per noi una cena tradizionale. Anche stasera mangiamo all’aperto, sotto le stelle, nel bellissimo cortile di una casa tipica del Delta. Dopo un antipasto a base di pesce gatto fritto, insalata di uova di pesce e insalata di sgombro, il piatto forte è rappresentato da abbondanti porzioni di carpa e pesce siluro, condite con l’immancabile, onnipresente salsa all’aglio. Anche qui, come già avevamo visto in Serbia l’anno scorso, il siluro non è, nella considerazione popolare, il pesce infestante, razziatore di fiumi e immangiabile che è da noi, ma è molto apprezzato.
La cena e il dopo cena sono allietati da un coro lipoveno, di cui abbiamo avuto ieri una piccola anticipazione sul pullmino, ma devo dire che sono meglio dal vivo. Anche perché i costumi tipici russi e i sorrisi delle ragazze e delle signore (sono tutte donne, con alcuni bambini e bambine) fanno la loro parte. Qui i lipoveni sono una presenza storica; Patzaichin stesso è un lipoveno, quindi il coro è sicuramente in tema.
Nel XVII secolo il patriarca della chiesa russa, Nikon, corresse i passi dei testi liturgici in disaccordo con l’originale greco, quelli che a suo parere erano errori dei copisti insinuatisi col passare del tempo. Nikon tolse anche le icone diverse dal modello bizantino, cambiò la grafia del nome di Gesù, la forma del segno della croce, il numero delle prostrazioni. Fu vietato toccare la terra con la fronte. Accadde che molti fedeli rifiutarono questa riforma “purista”. Erano i Vecchi Credenti.
Ma subito da Mosca partì contro questo rifiuto un anatema terribile: deportazioni, roghi, lingue mozzate. Allora, i contadini russi non ebbero dubbi: era arrivato il regno dell’Anticristo. Tanti risposero con il suicidio di gruppo, per fame, pugnale o annegamento. Alcuni si seppellirono nella terra o si bruciarono vivi. Altri presero con sé i libri, le icone addobbate di perle, i testi dei canti originali, le preghiere, e andarono lontano, fino ai confini dell’Impero. Portarono con sé la voce dell’antica Russia per conservarla così com’era.
Questa è la storia dei lipoveni, ed ecco come e perché partirono a più riprese, spinti da varie persecuzioni. Ma perché qui? Perché i lipoveni erano pescatori, e quindi dove se non qui potevano trovare il loro nuovo ambiente naturale? I lipoveni, scrive Magris, ora sono il popolo del fiume, vivono nell’acqua come i delfini o gli altri mammiferi del mare. Sulle rive, le loro barche nere assomigliano ad animali che riposano sulla spiaggia e al sole, foche pronte a tuffarsi e a sparire fra le onde al minimo segnale. Sull’acqua sono le loro case di legno e di fango e paglia, coperte di canne, i loro cimiteri con le croci azzurre, le scuole che i loro bambini raggiungono in canoa.
Al nostro ritorno a casa, poi, abbiamo scoperto che una banda di pescatori lipoveni emigrati da Tulcea agiva sui fiumi lombardi (Adda, Lambro e Ticino) con metodi non proprio ortodossi: stordivano i pesci con la corrente elettrica prodotta da batterie di camion, massacrando di tutto e devastando i fiumi. Ma a noi, ovviamente, piace molto di più questa immagine romantica e sappiamo che questi delinquenti sono solo un’eccezione.
Capiamo ogni giorno di più che il Delta è sempre stato rifugio di irregolari, reietti, perseguitati e scacciati. Il Delta, per Sadoveanu, è anche un bacino di popoli e genti, come se il Danubio portasse al mare e spargesse intorno a sé, traboccando sulle rive, detriti di secoli e di civiltà, frammenti di Storia. Ma questi residui hanno vita breve, si rovesciano dalle sponde nella stagione dell’inondazione e spariscono nella terra, come foglie e altre scorie portate dal fiume. Le storie del Danubio, dice Sadoveanu, nascono e spariscono in un soffio, come una pozzanghera che si asciuga.
Il repertorio del coro, insieme ad altri pezzi belli ma meno conosciuti, annovera tutti i grandi classici russi, da Kalinka a Oci Ciornie a Katjuša, che potete ascoltare e vedere qui in quella che è stata la loro applauditissima esibizione finale:
Usciamo nella sera e ci accorgiamo che, ora che il coro tace, c’è un altro coro che si fa sentire, con un rumore fortissimo e incessante: sono le rane, ma anche un uccello, ci dice la padrona della casa dove abbiamo cenato salutandoci sulla porta.
Torniamo alla pensione. Il resto della serata passa tra qualche chiacchiera e un bicchiere di palinca, gentilmente offerto da… Claudio Agostoni! Sì, veniamo a sapere che proprio lui ha comprato la bottiglia che troviamo qui e l’ha lasciata in eredità al gruppo che sarebbe venuto dopo, cioè a noi… e allora, come si fa non approfittarne? Sarebbe offensivo nei suoi confronti.
La grappa dovrebbe facilitare la digestione e conciliare il sonno, ma mi accorgo che non è così facile. Ho lasciato socchiusa la porta-finestra che dà sul giardino per far entrare un po’ d’aria, ma il frastuono delle rane che gracidano è davvero incredibile e all’inizio mi dà fastidio. Non l’ho mai sentito così forte. Mi alzo e chiudo, ma fa troppo caldo. Mi alzo di nuovo, riapro e torno a letto. Mi accorgo che, piano piano, il frastuono diventa una musica che mi culla. Non ho mai dormito così bene in questo viaggio.
“Mi incammino verso il mare, curioso di vedere la foce, di immergere la mano e il piede nella miscela del trapasso oppure di toccare la soluzione di continuità, l’ipotetico punto del dissolvimento. La polvere diventa sabbia, la terra è già la duna della spiaggia, le scarpe s’infangano in pozzanghere che forse sono anch’esse foci, minime bocche storte nelle quali si dissangua il Danubio. In fondo si vede il mare.”
(C. Magris – Danubio)
Quinto giorno: nel quale immergiamo i piedi nel Mar Nero e nella storia di Sulina
Facciamo colazione e ci prepariamo per la partenza. Oggi percorreremo l’ultimo tratto del braccio di Sulina fino alla foce.
Ma prima, c’è in programma una “lezione” di Cristian, il nostro ornitologo di riferimento, che ci deve rendere tutti più consapevoli delle caratteristiche e dell’unicità dell’ambiente del Delta. Ci sediamo davanti al televisore, su cui scorrono le diapositive della presentazione che ha preparato per noi. Sappiamo che, oltre che Patrimonio dell’Umanità UNESCO e riserva della biosfera, il Delta è zona Ramsar, cioè è un’area protetta dalla speciale convenzione sulle zone umide firmata nella città iraniana di Ramsar nel 1971. Sappiamo dei tre bracci, su cui Cristian ci dà qualche notizia in più. Il braccio di Sulina fu regolarizzato su impulso della Commissione Europea del Danubio, che fu istituita nel 1856. I lavori, nel tratto che percorreremo, si conclusero nel 1894 e portarono alla realizzazione di un tratto di canale rettilineo e navigabile anche dalle grandi navi. Il braccio di San Giorgio è quello più vecchio e “naturale”, con i suoi infiniti meandri. Il braccio di Chilia è quello di origine più recente, che è ancora in fase di sviluppo e convoglia il 60% della portata totale. La rete di canali è raddoppiata dal 1910 al 1990.
Tra i progetti del WWF c’è quello di riportare nel Delta il castoro, sparito 250 anni fa. Esiste già una famigliola di castori, attualmente sotto osservazione per accertare che siano in grado di adattarsi e che il loro impatto non sia in alcun modo negativo. Il progetto fa parte di una strategia più generale che va sotto il nome “Rewilding Europe”. La pesca allo storione è vietata dal 2005. Come in tutte le aree protette, il punto centrale è perseguire un equilibrio tra sviluppo e conservazione.
Oggi io e la mia “metà” del gruppo saremo con Cristian anche durante la navigazione, è il nostro turno. Abbiamo anche contrattato con Eugenio di navigare su Lolita, la barca più grande, per provare l’ebbrezza. Ma, in realtà, il tratto di oggi non è molto spettacolare dal punto di vista paesaggistico, soprattutto se confrontato con quello di ieri. Dopo circa un’ora di navigazione ci butteremo nel grande canale navigabile, che è una specie di autostrada fluviale. E non avremo neanche grandi possibilità di avvistare uccelli. Cristian, però, cerca di rendersi comunque utile spiegandoci come distinguere i pellicani comuni dai pellicani ricci, molto più rari: i ricci sono solo 500, contro 22.000 comuni. I pellicani ricci si caratterizzano soprattutto per il piumaggio della testa, che è più increspato, riccio appunto. Ma da lontano questo è difficile da vedere. Molto più semplice riconoscere i pellicani ricci dal colore delle piume del sottoala, che è grigio, e delle zampe, anch’esse grigie. I pellicani comuni, invece, hanno le penne sotto le ali nere e le zampe color arancio. Questi uccelli dal volo così elegante possono fare anche 300 km al giorno. Ancuța aiuta sempre Cristian con la traduzione, ma stiamo scoprendo che anche lui un po’ di italiano lo mastica davvero, e più sta con noi più impara, è fenomenale.
Vediamo il monumento che celebra la fine dei lavori di regolarizzazione del canale.
Non avendo molti uccelli da avvistare, finiamo col parlare della varietà di “specie” umane, l’altra grande ricchezza del Delta. E qui, però, Cristian ci dà una risposta un po’ spiazzante, almeno per qualcuno. “Ma non ci sono rom, qui?” è la domanda. La risposta arriva secca, tagliente come una rasoiata: “No. Qui si viene per lavorare, e a loro il lavoro non piace”. Una risposta così, data con tono che non ammette repliche, crea un po’ di imbarazzo. Cerco di stemperare dicendo che però in passato ci sono stati. Magris dice che nei racconti di Sadoveanu e Banulescu, due importanti autori romeni, compaiono spesso gli zingari, come se questo popolo randagio e ai margini della società fosse una tribù adatta ad abitare il mondo arcaico e dimenticato del Delta. E che un secolo fa (Magris scrive nel 1986) questo era realmente un regno di irregolari e di fuggiaschi, una terra di nessuno rifugio dei senza legge provenienti d’ogni parte. I turchi, signori della regione, non tenevano alcuna guarnigione regolare, ma una milizia sbandata e raccogliticcia, reclutata irregolarmente fra i contadini, la quale faceva lega con i disertori e briganti nascosti nelle paludi, che avrebbe dovuto sorvegliare e combattere e da cui a mala pena si distingueva. Ma oggi non è più così, naturalmente. Tutto è cambiato, da allora. E anche gli zingari non ci sono più.
Ma capisco che è meglio cambiare argomento. Purtroppo la Romania è uno dei paesi dove il pregiudizio contro i rom è più radicato e forte. Perché sono una minoranza importante, in termini numerici, e perché scontano la confusione che spesso si fa, nell’Europa occidentale, tra romeni e rom, come se fossero lo stesso popolo. Questo a molti romeni risulta insopportabile, anche perché quasi sempre avviene quando i rom finiscono in prima pagina per episodi negativi.
Mangiamo un veloce pranzo al sacco in barca, prima di arrivare a Sulina. Qui depositiamo i bagagli alla pensione Perla, dove ci fermeremo stanotte. È un edificio che ha un sapore antico, con le sue scale di legno scricchiolanti. Un po’ tutto, in questa città, sembra trasudare storia, lo capisci subito. E noi ce ne potremo rendere conto visitandola, ma più tardi. Ora, per prima cosa, dobbiamo vedere il mare.
Il Mar Nero: è per questo che siamo qui, in fondo. Qui si trova la foce, quella ufficiale, il punto zero da cui si contano le distanze, la fine del Danubio. Anche se sappiamo, ormai, che di foci ce ne sono tante, che la fine può essere qui come in tanti altri posti, che tutto il Delta è un grande dissolvimento.
La spiaggia è quasi deserta. Pochi sparuti ombrelloni di paglia e giunchi, un pontile di legno, le porte di un campo da calcio, senza reti, come perse nella sabbia. Il mare è calmo, fa caldo anche se c’è un po’ di vento. Qualcuno si bagna i piedi. Per solennizzare il momento raccogliamo castagne d’acqua, ce ne sono tantissime. Sappiamo che qui Claudio Agostoni, Eugenio e Luciano, un altro nostro amico viaggiatore, hanno fatto qualche tiro al pallone una settimana fa, durante il primo viaggio della radio. A me, personalmente, non dispiacerebbe condividere la loro esperienza. Ma noi abbiamo già un altro appuntamento fissato, quello col tavolo da tennistavolo, che ci aspetta nel bar della spiaggia.
Dobbiamo decidere in che modo sfidare Paolo, il campione. Da solo sicuramente è troppo forte, ci sembra una buona idea farlo giocare in doppio, forse con un compagno/a non alla sua altezza diventerà più abbordabile. Patrizia si offre per fargli da partner; dall’altra parte giocherà Eugenio, che è sicuramente l’unico in grado di tenergli testa. Ma ovviamente anche a lui serve un compagno, e pare che io sia l’unico disponibile, al momento. Metto subito le mani avanti: non gioco da almeno vent’anni, forse di più. Certo, da ragazzino un po’ ho giocato, al bar dell’oratorio e nel giardino di una pensione di Moena, in val di Fassa, sulle Dolomiti. Lì andavo in vacanza coi miei, ogni estate dai 12 anni fino alla maturità, e anche dopo almeno per qualche giorno quando potevo ci andavo, in agosto. Lì ho ricordi di lunghi pomeriggi al tavolo da ping pong, sì, che ci devo fare, noi lo chiamavamo così. Ma non sono mai stato particolarmente bravo.
Ci proviamo, comunque. Facciamo riscaldamento per un bel po’, per studiarci e prendere le misure. Si capisce già che Paolo, se ci si mette, è ingiocabile, con i suoi effetti imprevedibili. Lui cerca anche, per la verità, di spiegarci come leggere le sue mosse, ma una cosa è la teoria e un’altra è la pratica. Oltretutto c’è vento ed è tutto aperto, ma non cerchiamo scuse, è proprio che non ce n’è.
Facciamo due partite. In entrambi i casi Paolo e Patrizia vanno subito in vantaggio. Anche lei non gioca da parecchio tempo e si vede, ma basta lui. E lei poi, quando ci prende un po’ la mano, non è neanche così male come vorrebbe far credere. Eugenio ed io resistiamo, entrambe le volte abbiamo un momento in cui sembra che ce la possiamo quasi fare, ci rifacciamo sotto, ma alla lunga finiamo per soccombere. Soprattutto per colpa mia devo dire, sbaglio anche colpi facili.
Lasciamo, poi, che Paolo ed Eugenio giochino da soli, così il maestro può dare lezioni all’unico che sia degno di fargli da allievo, e noi guardiamo.
Ci siamo divertiti, ma dobbiamo andare. Ci aspetta Ilinca, la bibliotecaria di Sulina, che ci farà da guida nella visita della città. È una signora piena di energia e molto appassionata della sua città, ci racconta Eugenio. Se qui esiste un minimo di vita culturale, è quasi solo grazie a lei.
Vediamo tre chiese, tutte dedicate a San Nicola: una ortodossa greca, una cattolica, una ortodossa romena. Nell’ultima, che vanta una bella iconostasi lignea e almeno tre preziose icone, è il giovane pope a farci da guida. Ci racconta, serio e molto compreso nel suo ruolo, di come l’ultimo restauro della chiesa, che ora ne avrebbe ancora disperato bisogno, sia stato possibile solo grazie alla visita della Regina Giuliana d’Olanda, che nel 1975 volle vederla, essendo imparentata con Carlo I di Romania che l’aveva fatta costruire, e decise di contribuire fattivamente.
Torniamo sul lungofiume e ci fermiamo davanti al palazzo ottocentesco della Commissione Europea del Danubio. Sì, si chiamava proprio così, Commissione Europea; curioso pensare che, essendo nata nel 1856, dopo la guerra di Crimea, abbia anticipato di oltre un secolo la Commissione Europea di oggi. Ne facevano parte tutte le potenze europee dell’epoca: Regno Unito, Francia, Austria, Prussia, Italia (o meglio, Regno di Sardegna), Russia e Turchia. La Romania ne era fuori all’inizio, non essendo ancora uno stato indipendente. Tutti avevano interesse a marcare stretto gli altri e ad avere voce in capitolo per garantire che il Danubio avesse una sorta di status internazionale, che ne assicurasse la navigabilità. Sulina divenne porto franco e si sviluppò rapidamente diventando una piccola cittadina cosmopolita, la cui neutralità, anche in caso di guerra, era certa per statuto. Oggi di quella Sulina poco rimane: qualche casa turca, il faro costruito con le tasse imposte alle navi che entravano in porto, qualche facciata vagamente Art Nouveau.
Ma gli echi di quell’epoca restano immortalati nel romanzo Europolis dello scrittore romeno Eugeniu (!) P. Botez, alias Jean Bart, di cui Eugenio, il nostro, ci legge qualche passo. Nel romanzo Sulina è un posto dove i destini umani arrivano come relitti di un naufragio; la città, come dice il suo nome immaginario, vive ancora in un alone di opulenza e splendore, porto situato su grandi rotte, luogo in cui s’incontra gente di paesi lontani e si sogna, s’intravvede, si maneggia ma soprattutto si perde la ricchezza. Nel romanzo, scrive Magris, la colonia greca, con i suoi caffè, è lo sfondo di questa declinante floridezza, cui la Commissione Europea del Danubio fornisce la dignità politico-diplomatica o almeno un suo riverbero. Il libro, tuttavia, è una storia di illusione, di decadenza, di inganno e di solitudine, di infelicità e di morte; una sinfonia della fine, nella quale la città che si atteggia a piccola capitale europea si trasforma in bassofondo e in rada abbandonata.
Europolis in italiano, chissà perché, è stato tradotto “Sirena nera”. Botez, che non a caso si era scelto come pseudonimo il nome di un corsaro francese, era stato nella marina militare prima di lavorare nell’amministrazione portuale. Morì nel 1933 poco dopo l’uscita dell’unico romanzo che gli diede notorietà, ma solo postuma. Oggi in Italia il libro non viene più pubblicato ed è quasi introvabile. Eugenio lo ha scovato alla Sormani, la biblioteca centrale di Milano e, siccome non si poteva prendere in prestito né fotocopiare, lo ha pazientemente fotografato pagina per pagina, ha stampato tutto e lo ha fatto rilegare. Un lavoro certosino, davvero nel suo stile. La rilegatura, in realtà, di quelle vecchio stampo con la copertina in similpelle, è già andata in parte perduta, ma questo gli dà un’aria ancora più vissuta.
Dopo questa tappa, il prosieguo naturale del nostro percorso è il faro, con il suo piccolo museo dedicato anche, in buona parte, a Jean Bart, ça va sans dir. Dall’alto del faro, il palazzo della Commissione ha la forma di una E, non lo avevamo notato prima.
E da qui, la naturale conclusione non può che essere il cimitero multietnico di Sulina. In realtà sono tanti cimiteri in uno, a brevissima distanza l’uno dall’altro: ortodosso, cattolico, turco, ebraico, britannico. Noi ci soffermiamo prima su due tombe vicine, quella di Margaret Ann Pringle, morta a ventitré anni il 21 maggio 1868, e quella di William Webster, Chief Officer dell’”Adalia”, annegato mentre tentava di salvarla. Queste due tombe sono diventate, negli anni, un simbolo potente di tutto ciò che lega insieme l’amore, il mare e la morte. E poi sulla tomba di Georgios Kontogouris, un pirata greco che fu giustiziato nel 1871 per aver saccheggiato numerose navi. Il sistema che lui e i suoi uomini usavano era ingegnoso: attaccavano fanali alle corna dei buoi e in questo modo confondevano i marinai che, credendo di vedere un faro, finivano con le loro navi in secca, nella trappola dei pirati che erano lì, pronti a rapinarli. Kontogouris, a Sulina, era una specie di eroe popolare, un Robin Hood della sua epoca.
Uscendo, buttiamo un occhio nella parte turca del cimitero, che ora è chiusa, ma dove è uso lasciare fez sulle lapidi.
Prima di cena abbiamo appuntamento, in una piazzetta davanti alla biblioteca, con un gruppo folkloristico di danze tradizionali greche. Ci sediamo e assistiamo allo spettacolo sorseggiando una birra fresca sotto il sole che inizia a calare, ma è ancora caldo. Sono tutti ragazzi molto giovani, davvero bravi. Un piccolo assaggio:
video
Ceniamo nella nostra pensione. Cecilia condivide con noi un ricordo che, ancora fresco, le suscita già tenerezza. Una storia che le ha raccontato Otilia, una storia di quando era bambina, di quelle che le raccontava la sua mamma. Una sera di festa, le ragazze con un po’ di trucco che parlottano arrossendo mentre i ragazzi col vestito buono le guardano e le invitano a ballare. A un certo punto arriva un ragazzo forestiero, bellissimo, elegante, sicuro di sé, sorrisi e sguardi che conquistano. Tutte le ragazze sono già innamorate, ciascuna vorrebbe essere lei la prescelta. Ma quando finalmente il ragazzo prende per mano una di loro e comincia a ballare, tutte lo guardano e improvvisamente si rendono conto che al posto delle gambe ha delle zampe di capra…
Stasera è anche il compleanno di Paolo, naturalmente ci siamo organizzati per festeggiarlo con una torta. Laura, sua moglie, dice che ora finalmente è davvero un “sessantottino”… gli viene richiesto anche il discorso di prammatica, è ovvio. E lui se la cava alla grande facendo, sì, un discorso, ma con la voce di Paperino… applausi.
Dopo cena breve passeggiata sul lungofiume, poi andiamo a bere una birra in un pub. Ci ha raggiunto Andrea, una ragazza dell’associazione Letea in UNESCO, che domani sarà con noi quando vedremo il suo villaggio, Letea appunto, e la spettacolare foresta che si trova poco lontano.
Con Eugenio parliamo di vari suoi progetti. Gli piacerebbe organizzare, nell’auditorium di Radio Popolare, una proiezione di “Italiani veri”, il film del suo amico regista Marco Raffaini che racconta l’incredibile successo che hanno avuto in Russia alcuni esponenti della musica leggera italiana (Toto Cutugno, Celentano, Al Bano e Romina, Pupo, i Ricchi e Poveri… Robertino!) negli ultimi 50 anni. Io aggiungo che allora sarebbe bello proiettare anche “Cinema Komunisto”, il film che racconta l’epopea della cinematografia jugoslava e della Cinecittà di Belgrado.
Un altro bellissimo progetto è quello di creare una radio del Danubio, magari in forma di cooperativa e con un modello di finanziamento da parte degli ascoltatori come quello di Radio Popolare. Una sede sarebbe sicuramente a Belgrado, e poi sarebbe bello averne una qui, sul Delta, magari proprio a Sulina, sarebbe il posto perfetto secondo me.
E poi una gustosa anticipazione: l’ultima sera, a Bucarest, andremo in un locale hipster… scatta il dibattito su chi siano davvero gli hipster, se sia solo una moda o ci sia dietro qualcosa di più. Proviamo a spiegare la “cultura” hipster a chi non la conosce, ma non è un’impresa facile. Per questioni generazionali, è Eugenio l’unico a conoscerne veramente qualcuno, io ne so qualcosa solo per sentito dire. Alla fine concludiamo solo che portano (i ragazzi) lunghe, folte e curatissime barbe, si vestono in modo minimalista (o forse fintamente minimalista), comunque di scuro, con magliette di gruppi underground, che è poi la musica che ascoltano, deve essere tutto il più underground possibile. Portano i jeans attillati col risvolto alla caviglia, amano tutto ciò che è alternativo come stile di vita, sono spesso architetti, designer o creativi in genere. Ma poi, gli hipster di Bucarest saranno come quelli italiani? È un fenomeno ormai così internazionale? Speriamo di scoprirne di più dopodomani sera, nel frattempo cominciamo a pensare a come vestirci per essere più hipster possibile…
Sesto giorno: nel quale scopriamo un villaggio incantato e un pezzo di foresta vergine
Oggi a Sulina è un giorno di festa: non abbiamo capito bene il perché, ma i bambini non vanno a scuola, vanno invece in corteo, un allegro corteo mascherato di principessine e supereroi. Ci dicono che è una specie di festa dei bambini, una festa nazionale che c’è ogni anno in Romania. Un gruppetto di bambini che vediamo passare è guidato da Ilinca, la nostra bibliotecaria e guida locale di riferimento, che ci riconosce e ci saluta con calore ma… velocemente perché poi deve correre dietro ai bambini, non può perderli di vista.
Noi, invece, prima di lasciare Sulina andiamo a visitare il museo del Delta, sempre con Cristian che ci fa da guida.
Ci sono foto, pannelli esplicativi e ricostruzioni degli ambienti del Delta e delle innumerevoli specie che lo popolano. Vediamo le barche dei pescatori, in legno di quercia e d’abete. Scopriamo che il Beluga, la più nota specie di storione, famosa per il pregiato caviale che produce, vive cent’anni. E che i visoni, in qualche modo, si sono… autoridotti di numero dopo la rivoluzione che ha provocato la caduta del socialismo reale, perché era nettamente diminuita la domanda di pellicce.
Interessante, ma noi dobbiamo partire. Ci aspetta un altro tratto di delta estremamente spettacolare, che ci porterà a Letea, la prima tappa della giornata. Ripercorreremo un tratto del braccio di Sulina “regolarizzato”, poi un pezzo del vecchio braccio naturale, e infine prenderemo il canale Mageru. Oggi possiamo viaggiare tutti insieme sulla “Speedboat”, un motoscafo veloce. Ma quando serve rallentiamo, ovviamente. E serve spesso, perché il canale è veramente di una bellezza da togliere il fiato. Qui vi tocca un’altra citazione di Magris, ma è davvero l’ultima, giuro: "Odori, colori, riflessi, mutevoli ombre sulla corrente, bagliore di ali nel sole, vita liquida che fugge tra le dita e costringe ad avvertire, pure nella festa di questo giorno in cui si sta sul ponte del battello come un re omerico sul carro, tutta la nostra inadeguatezza percettiva, sensi atrofizzati da millenni, odorato e udito impari ai messaggi che arrivano da ogni ciuffo oscillante, antica scissione dal fluire, fraternità perduta e rifiutata. Ulisse che non ha più bisogno di farsi legare e marinai che non hanno più bisogno di farsi turare le orecchie, perché il canto delle sirene è affidato a ultrasuoni che Sua Maestà l’Io non distingue.”
È proprio vero, i nostri sensi sono insufficienti a captare tutti gli stimoli che arrivano dal Delta. Ancora un’overdose di giunchi, canneti, ninfee su cui ogni tanto si arrampica una tartaruga.
Ma oggi a sorprenderci non è solo la natura, è anche la bellezza di questo villaggio fermo nel tempo. Letea è il villaggio di pescatori meglio conservato del Delta, dove praticamente tutte le case sono case tradizionali dipinte di bianco e d’azzurro, con i tetti spioventi fatti di giunchi e canne palustri. Sulle sommità di tutti i tetti c’è un simbolo, che rappresenta la famiglia o il gruppo sociale di appartenenza di chi abita in quella casa. Spesso il simbolo è un uccello, rappresentato in volo a testa in giù mentre si tuffa per pescare un pesce. Quasi tutte le case hanno splendidi giardini pieni di fiori, come quello che sta curando la signora che ci apre le porte, gentile anche se un po’ imbarazzata.
Molti degli abitanti di Letea sono Haholi, cioè ucraini. Gli ucraini che vivono in Dobrugia provengono da due ondate migratorie dei cosacchi di Zaporižžja, città situata sulle rive del Nipro. I cosacchi (la parola forse deriva dalla parola turco-tatara qazaq, nomade o uomo libero) erano un’antica comunità militare, che viveva nella steppa dell’Europa dell’Est (Russia meridionale, Ucraina) e dell’Asia (Siberia, Kazakistan). Inizialmente con questo nome furono indicate le popolazioni nomadi tartare (mongole) delle steppe della Russia del Sud. Tuttavia, a partire dal XV secolo, il nome fu attribuito a gruppi di slavi (per lo più russi e ucraini) che popolavano i territori che si estendevano lungo il basso corso dei fiumi Don e Dnepr.
La loro migrazione al di là del Danubio viene interpretata in vari modi dagli studiosi. Alcuni la vedono come un tentativo di evitare la schiavitù, altri come speranza di una vita migliore al di fuori dell’Ucraina, attratti dall’avventura, secondo quelle che sono ritenute caratteristiche proprie dei soldati. La prima ondata avvenne in seguito alla battaglia di Poltava nel 1709, quando Pietro il Grande inizia le rappresaglie contro coloro che avevano lottato per la liberazione dell’Ucraina. I cosacchi, caduti prigionieri, vengono impiegati per la costruzione di San Pietroburgo, dove muoiono a migliaia. Di quelli che riescono a fuggire, una parte si dirigono verso le zone che si trovano sotto la dominazione ottomana, in Dobrugia. La seconda ondata avviene intorno al 1775, quando la zarina Caterina di Russia scioglie l’organizzazione militare Zaporijsca Sici. Una parte dei cosacchi viene asservita, mentre circa 80.000 si spostano verso la zona del Delta del Danubio, dove trovano la stessa atmosfera e ricchezza ittica della regione del Nipro da dove provenivano. In questa zona, trovano già stanziati i russi lipoveni, con i quali non costruiscono buone relazioni e spesso nascono conflitti per le zone di pesca. Dopo la guerra russo-turca del 1806-1812, l’impero zarista avanza fino alle foci del Danubio e del fiume Prut. Il sultano ottomano Mehmet II, conoscendo l’avversione dei cosacchi verso l’impero zarista, lascia loro il compito di difendere la regione della Dobrugia, dichiarandoli padroni di una zona lunga venti km. I cosacchi sono sempre stati ortodossi di vecchio rito, sotto il patronato della Patriarchia Romena, anche se, senza riuscirvi, i turchi hanno cercato di imporre loro il culto islamico.
Il pranzo è organizzato dall’associazione “Letea in UNESCO” presso una famiglia. L’associazione, spiega Andrea, è stata fondata nel 2012 e si propone di coinvolgere la maggior parte possibile di persone della comunità nello sviluppo sostenibile del villaggio, promuovendo un turismo culturale ed ecologico e mantenendo vive le tradizioni, per quanto riguarda l’artigianato locale e soprattutto le architetture tradizionali delle case. L’obiettivo è promuovere il paesaggio rurale del Delta, partendo dalla realtà di Letea, e in particolare la lavorazione artigianale dei tetti di canne, per ottenere la qualifica di patrimonio immateriale universale dell’umanità UNESCO. Anche perché è un sapere che rischia di perdersi: nel 2014 era rimasto solo un maestro artigiano esperto nella costruzione di tetti. Tra il 2014 e il 2015, grazie a un progetto europeo, altri 12 sono stati formati, e di questi 5 hanno già costruito tetti nel Delta.
Il pranzo prevede come antipasto una zuppa di pesce gatto, carpa e luccio, poi una versione locale della Moussaka greca, pesce gatto in salamoia e ciambelle fatte in casa.
Cristian, ormai sempre più a suo agio con la lingua italiana, parla volentieri di qualsiasi argomento ma rimane decisamente fermo sulle sue posizioni quando qualcuno del gruppo tenta disperatamente di tirargli fuori una cosa positiva, una sola, del periodo comunista. Per lui non ce ne sono, è più che evidente. Io, nel frattempo, sto cercando su Spotify un vecchio pezzo del gruppo moldavo O-Zone, che si intitolava “Dragostea din tei”, qualcosa come “Amore dai tigli”, e che ebbe uno strepitoso successo internazionale nell’estate del 2004; il gruppo poi sparì quasi subito, la classica meteora. Ma anche questo a Cristian non è particolarmente gradito: dice che ha un testo infantile. Gli credo sulla parola e lo capisco, sarebbe come se un romeno venisse da noi e ci facesse sentire “Nel blu dipinto di blu” o “L’italiano” come paradigma della musica italiana. Ma, sfortunatamente, è l’unica canzone in romeno che conosco.
Dopo pranzo partiamo su due carretti trainati da cavalli per raggiungere la foresta. Intanto si stanno addensando delle nuvole minacciose. Un giovane puledrino ci segue per un po’, con quelli che a noi sembrano nitriti disperati. C’è chi ipotizza che la cavalla che tira il nostro carretto sia la sua mamma, e che lui abbia paura di perderla, ma ci spiegano che non è così, in realtà non c’è nessun grado di parentela… forse aveva solo voglia di correre.
Ci raccontano che qui vivono ancora circa 2000 cavalli di piccola taglia, eredi di quelli che portarono qui i cosacchi.
Proprio mentre scendiamo dal carretto ed entriamo a piedi nella foresta inizia a piovere, noi ci attrezziamo come possiamo ma in realtà piove poco e per poco tempo, roba di minuti; tanto rumore per nulla.
L’ambiente della foresta è davvero singolare. Ce la descrivono come una foresta vergine, ci sono liane, un fatto non normale a questa latitudine, dune di sabbia e piante di efedra. L’ambiente è sicuramente affascinante ma le zanzare ci attaccano a nugoli e picchiano duro, nonostante i repellenti che ci siamo abbondantemente spruzzati. Forse quella di mettere i pantaloni corti oggi non è stata un’idea brillante ma faceva molto caldo… In un modo o nell’altro ne usciamo vivi e siamo pronti per ritornare a Letea sui nostri carretti.
Da qui, la Speedboat ci porta, attraverso il braccio vecchio del Danubio e poi una serie infinita di laghi e laghetti, verso Chilia Veche, che sarà la nostra tappa finale nel Delta. Percorriamo molti tratti a tutta velocità, sollevando grandi onde, con i giunchi che si piegano e sembrano fare la ola al nostro passaggio. Ma, attraversando i laghi a velocità più moderata, riusciamo anche ad avvistare e fotografare, finalmente da una distanza accettabile, parecchi pellicani.
Prima di Chilia c’è un’altra tappa da fare. Si tratta di un’isoletta dove sta sorgendo un progetto di carcere senza sbarre, in collaborazione con il governo norvegese. Qui verranno trasferiti un certo numero di detenuti a fine pena, per trascorrere qui gli ultimi sei mesi di carcerazione, riprendendo confidenza con la vita oltre le sbarre e imparando mestieri tradizionali, con lo scopo naturalmente di favorirne il reinserimento sociale. Del progetto fa parte anche l’associazione Ivan Patzaichin, che abbiamo già avuto modo di conoscere.
Molti edifici sono già pronti, in alcuni manca solo l’arredamento. Il progetto è iniziato nel 2013, ma ha scontato fatalmente la sua brava dose di lungaggini burocratiche. Ora però dovrebbe essere in dirittura d’arrivo e dovrebbe partire entro l’anno, se come si augurano i promotori arriveranno tutte le autorizzazioni. Qui, per me, c’è una piccola disavventura: la macchina fotografica mi cade proprio sull’obiettivo e, purtroppo, nonostante i miei tentativi di rianimarla, sembra non avere assorbito bene la botta: funziona ma non mette a fuoco, né in automatico né in manuale. Così è inservibile, di fatto. Per fortuna posso fare comunque qualche foto decente col cellulare, e in fondo non manca molto alla fine del viaggio (purtroppo).
Arriviamo a Chilia Veche nel tardo pomeriggio. Qui siamo, lo dice la parola stessa, sul braccio di Chilia, quello più a nord. Da qui, l’Ucraina è davvero a due passi: il confine è a qualche centinaio di metri da dove ci fermeremo stasera, alla Pensione Limanul, che significa rifugio. In realtà, si tratta di un rifugio molto bello, molto “pettinato” e di design. Facciamo in tempo a berci una birretta fresca intorno alla piscina, poi si scatena un acquazzone e siamo costretti a rintanarci nelle camere.
Il temporale per fortuna non dura molto e così possiamo uscire per la cena, che si svolge nel cortile, ancora una volta in un’atmosfera conviviale, parlando di viaggi e… del futuro della sinistra. Sono usciti dei sondaggi che danno il Labour di Jeremy Corbyn in netta e clamorosa rimonta, in vista delle imminenti elezioni in Gran Bretagna. Un’improvvisa botta di ottimismo, ma come al solito scatta impietoso il confronto con la situazione di casa nostra. Dove, peraltro, pare che ci sia l’accordo sulla legge elettorale alla tedesca. Forse evocate da questi discorsi, sono comparse parecchie rane che saltellano con disinvoltura a bordo piscina e in tutto il cortile. C’è una specie di invasione di rane. Ok, forse esagero ma speriamo che non sia un segnale di cattivo auspicio, ricordando che l’invasione delle rane era una delle piaghe d’Egitto…
Settimo giorno: nel quale, tornando a Bucarest, ci imbattiamo in una fortezza misteriosa
Partiamo da Chilia Veche abbastanza presto. Il viaggio che ci aspetta non è breve. Abbiamo prima di tutto l’ultimo tratto di navigazione che, quasi sempre a tutta velocità, ci riporta a Tulcea. E qui, ripresi i nostri bagagli, ci aspetta Florin per proseguire in pullmino verso Bucarest. Salutiamo Cristian e Ancuța e ci avviamo lungo la strada del ritorno.
Chiedo in prestito a Eugenio il libro di Jean Bart, Europolis, anzi Sirena nera. Mi incuriosisce non poco e leggerne un po’ di pagine mi sembra un buon modo di ingannare il tempo durante queste ore di viaggio. So già che non riuscirò a finirlo, ma almeno mi farò un’idea. Devo dire che fin dalle prime pagine mi cattura: è ben costruito, i personaggi sono tratteggiati con maestria e soprattutto regala un quadro molto vivido di come doveva essere Sulina tra il suo massimo splendore e l’inizio della sua decadenza.
Sono così preso che quasi senza accorgermene la strada scivola via fino alla prima tappa, che è la fortezza di Enisala.
Siamo nel territorio di Babadag, che in turco significa “la montagna del padre”; il toponimo trarrebbe però origine dal nome del derviscio Baba Sari Saltuk, che nel XIII secolo avrebbe condotto in Dobrugia un gruppo di turcomanni, insediatosi poi nell’area della città attuale.
Storicamente questo luogo è stato un insediamento traco-getico già dal XII al IX secolo a.C. e successivamente dacico fino al III secolo a.C.; divenne in seguito un forte romano, per passare poi sotto i bizantini che costruirono la fortezza di Herakleia (questo era il nome greco dell’insediamento) tra il 645 e il 650. I resti della fortezza come li vediamo oggi sono i ruderi del castello che nel XIII secolo fu ricostruito dai genovesi, che dal Mar Nero avevano individuato i punti strategici per controllare le rotte commerciali che da oriente giungevano in Europa.
I genovesi avevano concretamente raggiunto il controllo della navigazione su questo mare e il monopolio sulle merci che i carovanieri trasportavano. Il castello, conquistato da Mircea cel Batran, voivoda della Muntenia, entra a pieno titolo nella nazione romena dal 1397 al 1418. L’impero turco è il successivo padrone della fortezza, quando, nel 1419-1420, la Dobrugia entra a far parte dell’Impero Otttomano e qui viene posta una guarnigione militare. Col passare dei secoli cambia la morfologia del terreno e già nel XVI secolo le sedimentazioni di sabbia prodotte dal Danubio fanno sì che quello che era stato un importante punto di controllo delle vie di mare resti una fortificazione chiusa tra due laghi.
E fin qui tutto normale – direte voi – dov’è il mistero? Ci avevi promesso una fortezza misteriosa… portate pazienza, il mistero lo sveleremo dopo. Intanto, diciamo che la fortezza è un ottimo posto per una foto di gruppo.
C’è tempo per un veloce pranzo al sacco, uno sguardo alla moschea di Babadag e si riparte.
Viaggiamo fino a Bucarest tra distese di papaveri. Ad interrompere la monotonia ci pensa Silvana, che a sorpresa ci regala un testo che ha scritto in questi giorni, una storia inventata (ma non troppo) intitolata “Una storia vera”, dove si racconta di un tipico tirannello balcanico di nome Bennato che, dopo aver invaso la Serbia, vuole estendere i suoi domini in Romania e sottopone un gruppo di malcapitati a delle terribili prove. Per chi non avesse dimestichezza con il greco, Bennato non è altro che la traduzione di Eugenio… e i malcapitati, naturalmente, siamo noi. Malcapitati anche perché Silvana ha colto ogni nostro più piccolo difetto o mania e la sua ironia intelligente e raffinata ci colpisce, sia pure in punta di fioretto, senza lasciare scampo a nessuno. Non lo riporto qui perché sarebbe comprensibile solo a chi ha fatto parte del gruppo, ma fidatevi: applausi meritatissimi.
Io non sono riuscito a finire Europolis, ma ho preso la decisione di cercare di procurarmelo una volta tornato a casa: non ho la pazienza di Eugenio per rifare il lavoro che ha fatto lui in Sormani, ma si è sparsa la voce che qualcuno lo vende su eBay…
A Bucarest, ci sistemiamo per l’ultima notte all’Hotel Venezia (già un riavvicinamento all’Italia) e, dopo una doccia e un breve riposino, usciamo per la cena. Prima della cena, che sarà al ristorante The Ark, c’è tempo per una visita al mercato dei fiori, che si trova proprio di fronte. La maggior parte dei fiorai, se non tutti, sono rom. Allora ce ne sono anche che lavorano, fa notare qualcuno. Sì, lavorano, ma è un lavoro che probabilmente chi non li ama considera poco dignitoso… avremo modo di capire ulteriormente che il sentire comune contro di loro è davvero piuttosto forte.
A cena conosciamo Marius, che ci farà da guida domani in un tour della zona della città più caratterizzata da architetture liberty e cubiste, tour che comprenderà anche il quartiere ebraico. Marius ha vissuto per parecchi anni a Milano, dove ha lavorato come artista e come critico d’arte per la rivista Flash Art. A tavola, quindi, si discute soprattutto di arte contemporanea, anche perché Marius, sarà il look da artista, saranno i capelli lunghi leggermente brizzolati raccolti in un codino, riscuote consensi tra il numeroso pubblico femminile (le donne sono in maggioranza nel gruppo).
Il menù prevede come antipasto Balmoş Ciobanesc (polenta al formaggio), poi Gulasch e per dolce Lapte de pasare, una specie di Ile flottante. I piatti sono introdotti dallo chef Mihai Toader, serissimo e molto convinto. Ma, non sappiamo se è un fatto di traduzione o se sono veramente espressioni che usa lui, vengono fuori cose curiose come “sabbia di lardo”, che sarà l’hashtag dell’ultima serata e del giorno successivo.
Ma è anche il compleanno di Silvano, è giusto festeggiare anche lui con una torta e un brindisi. Per lui un compleanno che è foriero di buoni propositi per la sua nuova vita: sta per chiudere la sua società (ma lui spera che qualcuno dei suoi dipendenti voglia rilevarla) e andare in pensione.
Dopo cena ci organizziamo, sempre al ristorante, per l’ultima presentazione, le ultime slide di questo viaggio. Questa volta è il geografo Stefan Constantinescu che ci porta dentro la storia cartografica del Danubio. Sì, perché non ci sono solo le slide, ci sono anche le carte vere, che possiamo aprire e toccare. Sono tutte originali, alcune risalgono al 1800. E ora che conosciamo abbastanza bene la zona, ci appassioniamo nel cercare sulle carte i posti che abbiamo visto, confrontando come sono ora e com’erano allora. Marius, per ora, fornisce un supporto in veste di traduttore.
Stefan ci spiega che nella parte nord del delta i sedimenti avanzano, e quindi il mare si ritira, di circa 10 metri l’anno. Nella parte sud, al contrario, è il mare che avanza, di 20-25 metri l’anno.
E qui arriva il mistero di Enisala: il geografo dice che lo sbocco al mare, in quella zona, è chiuso da duemila anni; ma questo è in contrasto con quello che Eugenio ci ha raccontato oggi, e che è scritto nella mitica dispensa, cioè che fu nel XVI secolo che i sedimenti portati dal Danubio modificarono la morfologia del territorio in maniera tale che la fortezza restasse chiusa tra due laghi. Rileggiamo insieme la dispensa, c’è un conciliabolo, ma Stefan resta della sua idea e afferma deciso che è impossibile. Resteremo col dubbio, in fondo forse è più affascinante così.
Parlando di cartografi e cartografie, Eugenio non può fare a meno di fare un accenno a una delle sue più recenti ossessioni (è lui stesso a definirla così) e cioè Luigi Ferdinando Marsili. Nato a Bologna nel 1658, Marsili fu esploratore, scienziato, soldato, uomo eclettico e di vastissimi interessi, di grande fama all’estero, meno in Italia. Svolse in Turchia osservazioni sulle correnti del Bosforo e si dedicò allo studio della pianta del caffè, di cui descrisse accuratamente le proprietà. Ma soprattutto il suo lavoro Danubius Pannonico Mysicus, pubblicato ad Amsterdam nel 1726, costituisce un fondamentale trattato sulla dinamica e sulla biologia delle acque del Danubio. Inoltre ebbe una parte rilevante nelle trattative di pace tra l’Impero Austroungarico e l’Impero Ottomano nel 1691 e più tardi in quelle che condussero alla pace di Carlowitz; fu lui fra l’altro a guidare la commissione di demarcazione per conto dell’Impero austriaco per stabilire i confini con l’Impero ottomano. Carlowitz oggi si chiama Sremski Karlovci e si trova in Serbia, l’abbiamo visitata l’anno scorso. Ma questa è un’altra storia…
Salutati Stefan e Marius (lui lo rivedremo domani), dovremmo andare a finire la serata nel famoso locale hipster, ma qualcosa rovina i nostri piani: il locale è pieno, o almeno non lo è ancora ma lo diventerà. A quanto sembra hanno una prenotazione per una festa privata aziendale. Insomma, non c’è posto per noi. Siamo costretti a ripiegare su una più ordinaria birreria, dove cerchiamo di affogare in una birra Ciuc (Sì, non ci crederete ma c’è una birra romena che si chiama così) le prime tristezze di fine viaggio.
Epilogo
Oggi è in programma un tour della Bucarest modernista e liberty. Abbiamo ancora una mezza giornata qui, prima di andare a prendere l’aereo, e ci è sembrato giusto spenderla così, esplorando un altro lato della città, una città di cui in fondo abbiamo avuto finora solo un piccolo assaggio.
Sarà Marius a farci da guida, e questo provoca già una certa fibrillazione in una parte consistente della componente femminile del gruppo. Lui assesta subito il primo colpo di classe, arrivando in bici all’appuntamento, da vero alternativo, e iniziando la passeggiata con noi così, spingendo la bici a mano. Intanto ci racconta le prime cose, anticipandoci qualcosa di quello che vedremo dopo.
Ma la prima, importante tappa è la sinagoga, per essere precisi il Tempio Corale di Bucarest. La prima cosa che si nota è che, rispetto ad altre sinagoghe che ho visto, nell’Est Europa e non solo, non è nascosta, non è un edificio anonimo da fuori che tende ad occultare quello che c’è dentro agli occhi di chi potrebbe non avere buone intenzioni. Che questo poi significhi che qui nei confronti degli ebrei c’è sempre stata tolleranza sarebbe una conclusione sbagliata da trarre, ma questo è l’effetto che fa. Nel cortile campeggia un’enorme scultura che rappresenta una menorah, la lampada ad olio a sette bracci che nell’antichità veniva accesa all’interno del Tempio di Gerusalemme attraverso la combustione di olio consacrato. La menorah è uno dei simboli più antichi della religione ebraica. Secondo alcune tradizioni la menorah simboleggia il rovo ardente in cui si manifestò a Mosè la voce di Dio sul monte Horeb, secondo altre rappresenta il sabato (al centro) e i sei giorni della creazione. Si tratta, qui, di un monumento alla memoria dei sei milioni di ebrei morti nell’Olocausto, dei quali 400.000 venivano dalla Romania, come ricorda la lapide collocata sul basamento.
Questa sinagoga, che non è l’unica di Bucarest ma è certamente la più bella, ha 151 anni e fu costruita, in stile neomoresco, ispirandosi alla sinagoga di Vienna che fu incendiata nel 1938 durante la notte dei cristalli. I restauri e i consolidamenti del 2007, costati 4 milioni di euro, l’hanno riportata all’antico splendore, dopo che aveva dovuto sopportare gli effetti di diversi terremoti: i più recenti sono quello del 1977, che fu il più catastrofico, quello del 1986 e quello del 1990.
Prima della seconda guerra mondiale c’erano 850.000 ebrei in Romania, ora solo 7000, di cui 3000 a Bucarest. La comunità di Bucarest è storicamente a maggioranza ashkenazita, circa l’85% contro un 15% di sefarditi. Ora, in realtà, di sefarditi non ce ne sono praticamente più. Dopo la decimazione avvenuta con l’Olocausto, anche ad opera delle milizie fasciste ungheresi (gli ungheresi avevano occupato parte del paese, durante la guerra), molti ebrei sono partiti per Israele negli anni del comunismo e anche dopo. Durante il periodo comunista, gli ebrei potevano partire solo al prezzo di una specie di “riscatto”, prezzo che dipendeva dal ceto sociale e dall’importanza della persona.
Tutto questo ce lo racconta un esponente della comunità ebraica, che parla in inglese con accento americano alla velocità della luce. Siamo tutti solidali col povero Eugenio che deve tradurre, anche perché la nostra guida conosce anche qualche parola di italiano, per quanto un po’… broccolino, e allora non si accontenta di spiegare in inglese, ma spesso traduce anche lui senza lasciare a Eugenio il tempo di farlo. È un continuo inseguimento che mette a dura prova la pazienza di Eugenio, che alla fine appare comprensibilmente esausto. Qualcuno accosta il nostro anfitrione a Woody Allen, e in effetti pur essendo decisamente più giovane ha un po’ i segni di quelle nevrosi che sono familiari a chi ha frequentato il cinema di Woody Allen, insieme a un certo senso dell’umorismo tipicamente da ebreo americano. Nonostante tutto, però, la visita è molto interessante, anche se poteva essere fatta con un po’ più di calma.
Lasciamo la sinagoga e proseguiamo il giro. Fuori da una chiesa, possiamo anche constatare che era vero quello che ci aveva raccontato Maria il primo giorno, che qui è uso accendere candele per i morti ma anche per i vivi.
Cominciamo poi il viaggio nell’insolita Bucarest modernista, liberty (o Art Nouveau se preferite) e cubista. Qui Marius gioca davvero sul suo terreno e ci può parlare ad esempio di Marcel Iancu, un architetto e artista romeno (un ebreo romeno, tra l’altro) poco conosciuto all’estero ma che ha dato un grande contributo allo sviluppo di varie forme d’arte nella prima metà del secolo scorso. Fu co-inventore del dadaismo e un esponente di primo piano del costruttivismo nell’Europa dell’Est. Praticò anche l’Art Nouveau, il futurismo e l’espressionismo; lavorò anche come illustratore, pittore e scultore. Ma a noi, oggi, interessa in particolare il suo lavoro come architetto, in questa zona centrale di Bucarest dove si concentrano diversi edifici che uniscono elementi Art Nouveau con altri più decisamente modernisti o cubisti.
Per esempio la casa Frida Cohen, che ha un’impronta tipicamente costruttivista, o la villa Solly Gold, che è forse l’edificio più spettacolare progettato da Iancu. L’estetica dell’esterno sembra una sintesi di una struttura modernista con elementi cubisti. Partendo dalla forma liscia e convessa del piano terra, si dispiega un’articolazione di volumi irregolari, che genera un grande spazio vuoto dove il terrazzo sopra il secondo piano sembra scolpito.
Nel 1941 Iancu, sulla spinta delle persecuzioni naziste, emigrò in Israele dove trascorse il resto della sua vita. È interessante anche la lettura che Marius ci offre della storia urbanistica di questa zona, caratterizzata con l’avvento del socialismo reale dall’espropriazione di case borghesi. Case che poi spesso, ci racconta Marius, venivano abbandonate, lasciando che fossero i rom ad occuparle. Questo, dice, portava in breve tempo ad un degrado tale da giustificare la demolizione e il successivo riutilizzo dell’area secondo i piani del regime. Un effetto collaterale di questa politica era che i cani, che prima vivevano con i loro padroni nelle abitazioni borghesi, restavano anche loro senza casa e diventavano randagi.
Insomma, la sintesi conclusiva di questa ulteriore mezza giornata alla scoperta della capitale è secondo me in una battuta di Marius che mi piace citare: “Forse Bucarest è una piccola Parigi, ma sicuramente Parigi non è una grande Bucarest”.
Ed è venuto il momento anche di concludere questo racconto. È stato un altro viaggio di cui mi resterà molto. Ci siamo lasciati trasportare dalla corrente; forse non abbiamo scoperto dove finisce davvero il Danubio, ma ce lo aspettavamo, in fondo. Forse non finisce affatto, forse il Mar Nero è la continuazione del Danubio. Comunque sia, il Delta ha mantenuto appieno tutte le sue promesse, e in fondo anche Bucarest.
Concludo con l’auspicio di poter, un giorno non lontano, ascoltare Radio Popolare Danubio. Per un malato di Balcani come me, sarebbe una medicina omeopatica salutare, da somministrare tra un viaggio e l’altro.
Un ultimo aggiornamento: ho davvero trovato su eBay “Sirena nera”, nell’edizione del 1945. Ora potrò finire di leggerlo…
Grazie al sempre impeccabile deus ex machina di questo ed altri viaggi, Eugenio Berra alias Bennato. Grazie a Viaggiare i Balcani, a ViaggieMiraggi, a Radio Popolare e a Slow Food Romania. Grazie a Giovanna, Grazia, Patrizia, Piera e Carlo che mi hanno permesso di usare alcune delle loro foto e a tutto il resto del gruppo che ha condiviso con me questa ulteriore esperienza di balcanizzazione.
Hai pensato a un abbonamento a OBC Transeuropa? Sosterrai il nostro lavoro e riceverai articoli in anteprima e più contenuti. Abbonati a OBCT!