Come sta cambiando il Kosovo rispetto ai rapporti interetnici? Un gruppo di operatori kosovari che lavorano con il Tavolo Trentino con il Kossovo raccontano la loro esperienza a Osservatorio sui Balcani
Come siete venuti in contatto con il Tavolo Trentino con il Kossovo e di cosa vi occupate?
Mi chiamo A. e vivo a Gorazdevac, sette chilometri da Peja/Pec. Ho conosciuto il Tavolo Trentino con il Kossovo tramite l'associazione Papa Giovanni XXIII che è presente a Gorazdevac già da anni con l'operazione Colomba e che fa parte del Tavolo. Il gruppo presente qui, composto da due serbi, un egiziano, un albanese, si è costituito dopo aver constatato che esisteva un serio problema legato alla libertà di movimento delle persone. Abbiamo così avuto l'idea di offrire un servizio di accompagnamento delle persone in città, a Peja/Pec, presso gli uffici comunali, a fare il passaporto o a fare la spesa. Ma è solo una parte della nostra attività: infatti lavoriamo ad un progetto che possiamo definire sociale, cioè siamo operatori del Tavolo, facilitatori delle sue attività sul territorio kosovaro.
E.: Sono nato a Pec e vivo a Gorazdevac dove frequento l'università e faccio parte della comunità egiziano-kosovara, quindi di lingua albanese. E' importante sottolineare che il nostro gruppo è nato dopo una lunga strada, nell'ambito di gruppi di lavoro che analizzavano il tema del conflitto e cercavano di costruire percorsi condivisi. Fanno parte di questi gruppi persone che oggi sono in grado di vedere "l'altro" in quanto persona, senza l'intento di cambiarla ma riconoscendola per quello che è.
J.: A differenza degli altri, io sono arrivato a far parte del gruppo in maniera trasversale, strettamente connessa all'operato dell'Operazione Colomba, che ha ri-costruito in me la fiducia e la capacità di credere in qualcosa e non pensare che qui in Kosovo esista solo opportunismo. Ce n'è stato tanto e ce n'è tuttora, anche nelle fila delle organizzazioni internazionali, che in una situazione già caotica ha prodotto dei danni. Ho conosciuto il Tavolo durante la mia collaborazione nell'organizzazione di dibattiti, di gruppi di lavoro sul conflitto tra Peja/Pec e Gorazdevac, iniziata circa 4 anni fa e che continua tuttora.
Quali sono le motivazioni personali che vi hanno spinto a farne parte? Come vi sentite durante il vostro lavoro?
Sono S., di Peja/Pec, e sono anch'io membro del "gruppo conflitto" come J. La spinta che ho sentito era legata al desiderio di rispondere a dei bisogni che abbiamo tutti, ciascuno in modo differente, convinto che una risposta ad essi renda possibile il vivere insieme. Non solo: sono entrato nel gruppo per il piacere di stare con gli altri, frequentare i colleghi ma anche perché in quanto albanese-kosovaro ho vissuto in passato le odierne condizioni di vita della comunità serba e ne comprendo il peso.
A.: Per quanto mi riguarda, avevo percepito il mio grande bisogno di libertà di movimento e così ho deciso di fare qualcosa anche per gli altri. In seguito, lavorando nel gruppo, mi sono accorto che il problema colpiva anche altre persone, non solo i serbo-kosovari. E' un'attività che mi piace anche perché crea un "bene per tutti", le condizioni per una vita comune. La dimostrazione che tale aiuto va in questa direzione è dato dal fatto che nelle persone, una volta che cominciano a muoversi con più facilità, diminuisce la paura, migliora lo stato d'animo e il senso di sicurezza.
J.: Abbiamo motivazioni differenti che però in un punto si incontrano. Personalmente mi spinge il desiderio che tutto ciò che è stato sconvolto e di cui oggi si pagano le conseguenze, venga riportato alla normalità. Ciò significa lavorare seriamente sul piano dei rapporti interetnici ed arrivare a restituire la fiducia negli altri. Per capire che esistono le condizioni per la convivenza, possibile prima di tutto se gli albanesi si rendono conto che esistono i serbi e viceversa, ma altrettanto rendendosi conto che vivono nella stessa casa gli egiziani, i rom, i bosgnacchi, i turchi, i gorani.
A.: Questo lo capisci anche nello svolgere il lavoro di accompagnamento, che a volte sa essere frustrante. Quando incontri, presso gli uffici pubblici, una persona buona, disponibile e dalla quale ottieni risposte chiare e positive, sei contento e senti che tutto evolve, fa passi avanti. Se però incontri persone che sanno essere brutali, che si comportano come se la guerra non fosse mai finita, è pesante.
Avete la percezione che questo lavoro abbia influito su di voi come sulla vostra comunità?
E.: In base alla mia esperienza e quindi non solo alle mie convinzioni, posso dire che nella mia comunità esiste un atteggiamento per cui se ti viene offerto qualcosa in maniera sincera e onesta la accetti per quello che è. Sono convinto che si debba partire da questo assunto perché si possa, come individui, cambiare le cose in senso positivo. E così anche in questo gruppo: ho risposto e agito su di un piano di pari diritti, in cui ciascuno è considerato per quello che è innanzitutto in quanto individuo. Le restanti valutazioni vengono solo in seguito.
E' importante un atteggiamento di reciproco riconoscimento, di ascolto del pensiero che gli altri hanno su di te e del tuo su di loro, se vuoi stare in contatto con loro, se ci lavori insieme, se ci vivi insieme. Mentre se lo boicotti, per primo ti metti in una condizione di isolamento, ti escludi dalla realtà concreta in cui stai vivendo. I cambiamenti in me sono avvenuti prima, durante le attività a cui ho partecipato in passato. Ciò che faccio oggi è solo un proseguimento di una strada che ho deciso io, come individuo, di intraprendere tempo fa. Perché la comunità a cui appartengo spesso non lavora sull'individualità delle persone quanto sulla loro appartenenza ad una delle comunità, come entità. Ciò che tento di fare in essa e anche con le rappresentanze politiche e sociali, è di spingere verso questo concetto: se vogliamo aprirci e vivere insieme è importante considerare il singolo, non in base alla nazionalità di appartenenza ma in base all'essere una "buona" o una "cattiva" persona.
Avete la percezione che la situazione, se parliamo di vita in comune, sia cambiata in questi anni? E come? E in base all'attualità, alla questione dello status del Kosovo, percepite che siano in corso ulteriori cambiamenti?
S.: Certo, due-tre anni fa la situazione era molto più brutta. Oggi "crediamo", e voglio metterlo tra virgolette, che tra le persone ci sia meno tensione rispetto a tre anni fa, forse perché la politica è un po' cambiata su parecchie questioni ma forse anche perché si è stanchi di ascoltare le discussioni sullo status e di restare ad aspettare.
A.: Nelle città si ha la netta percezione che la situazione sia drasticamente cambiata, non altrettanto nei villaggi, dove la situazione è pressoché quella di prima. Le città come Peja/Pec, Pristina, Prizren, sono città in cui anche se sei serbo-kosovaro puoi andare al supermercato, negli uffici pubblici, senza rischio che qualcuno ti tocchi o ti provochi. Mentre nei centri più piccoli anche se non sei tu a provocare, sarai provocato di sicuro. Cosa è cambiato? Posso dire sicuramente che l'aria che si respira oggi, vista la questione dello status, è di attesa.
G.: Vorrei specificare che complessivamente non si vede alcun cambiamento, se prendiamo la società nel suo insieme non si è mossa una mosca. Mentre si può dire che sono avvenuti dei cambiamenti, anche profondi, in alcuni segmenti. Qualcosa si muove, c'è chi sta lavorando in questo senso, anche altri gruppi oltre al nostro ma incidiamo parzialmente, solo in alcuni settori.
Parlate dunque di cambiamenti superficiali?
J.: No, direi che in alcuni ambiti si lavora in profondità, solo che questo lavoro, onesto e serio, non deve emergere alla superficie, arrivare sulla bocca della politica, perché potrebbe essere strumentalizzato. In base alla nostra esperienza abbiamo capito che è vero che serve impegno e buona volontà ma che si deve anche essere molto attenti a questo aspetto. La domanda però è sempre quella: se e quando risuccederà qualcosa.
E.: I cambiamenti ci sono stati, in senso negativo e in senso positivo. Però, ad esempio in relazione alla questione maledetta dello standard pre-status: ne ho sentito parlare in continuazione nelle campagne di sensibilizzazione e penso che sia stata utilizzata per prendere tempo. Perché non si poteva dire apertamente agli albanesi che dovevano aspettare per arrivare alla definizione dello status e dunque si è posta loro la condizione "prima gli standard poi vedremo lo status". Ed era una richiesta assurda, perché se analizzi quali infrastrutture sono necessarie per assicurare gli standard imposti al Kosovo, ti rendi conto che non esistono. Sono arrivati tanti soldi, spesi dal governo e dalla società civile per la realizzazione di campagne di informazioni sugli standard. Con gli stessi soldi si poteva fare molto di più, spendendoli ad esempio nelle infrastrutture. Puoi essere ben informato su che cos'è ogni singolo standard ma se non esistono i mezzi concreti per metterli in pratica, è tutto inutile.
Rispetto allo status: si sente il conflitto che si sta svolgendo al di fuori del Kosovo tra chi è per l'indipendenza e chi per altra forma di autonomia?
E.: E' un dato di fatto che determinate posizioni internazionali cancellano automaticamente la possibilità del raggiungimento di un compromesso. Ad esempio: perché gli albanesi dovrebbero accettare una soluzione "inferiore" all'indipendenza se gli stessi Stati Uniti e altri stati forti li sostengono nella loro idea, nel loro desiderio di indipendenza? Inversamente per i serbi: perché dovrebbero concedere e accettare l'indipendenza quando la Russia assieme ad altri stati tirano dall'altra parte? Per cui sia gli uni che gli altri sarebbero stupidi ad abbandonare la propria posizione, con alleati così forti in giro per il mondo...
J.: Detto questo, un punto su cui sia serbi che albanesi sono d'accordo: no alla spartizione del Kosovo. Per quanto riguarda il gioco di chi tira da una parte e chi dall'altra che si sta svolgendo fuori dal Kosovo, non so se riusciremo a reggerlo. Personalmente credo che così, i problemi potranno solo moltiplicarsi, non certo risolversi. In quanto serbo-kosovaro mi irrita la retorica che viene usata quando si parla dello status e quindi degli USA che appoggiano una parte, e della Russia che appoggia l'altra. Certo negli anni novanta la stampa serba era stracolma di retorica e di violenza ed oggi non è più così, si sente che c'è un tentativo di risolvere i problemi attraverso la diplomazia. Ma nonostante ciò si ricomincia a sentire di nuovo tensione, sotto la pressione legata allo status.
E.: Rispetto alla stampa voglio aggiungere che sia quella serba che quella kosovara, non aiutano nella ricerca della soluzione, anzi. Vengono ancora usate parole offensive, termini che incitano non dico alla violenza ma sicuramente al mantenimento di una situazione di conflitto; accade meno nei titoli dei giornali kosovari perché è proibito per legge usare parole offensive ma poi nel testo dell'articolo il messaggio duro passa ugualmente. Voglio concludere con una cosa importante che vedo in università: esistono tante persone che vogliono vivere insieme e lasciare da parte la questione politica dello status. Vogliono lavorare, vivere insieme pacificamente. Sono queste le persone con cui si deve lavorare.
S.: Al di là del fatto che si devono trovare modi per lavorare insieme e capirsi, penso che la pace nei Balcani ci sarà con l'indipendenza del Kosovo. Credo comunque che lo spauracchio di novembre, cioè della decisione unilaterale per l'indipendenza, slitterà nel tempo. La gente è stanca, questo non si deve dimenticare e lo si deve guardare con attenzione. In televisione si vedono già soggetti che premono in un verso o nell'altro, con i veterani pronti, almeno a parole, a riprendere le armi.
G.: Mi chiedo anche cosa succederà, il giorno in cui il Kosovo dovesse passare sotto "controllo" europeo. C'è da chiedersi, povera Europa, come si districherà. Ammetto di essere preoccupato.
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