Milan Buffon è docente presso l'Università di Capodistria e direttore dello Slori, Istituto di ricerca sloveno con sede a Trieste. Con lui ripercorriamo gli ultimi trent'anni della minoranza slovena in Italia
Come è nato lo SLORI?
Lo Slori (Slovenski raziskovalni inštitut) è stato fondato nel 1975, nel periodo in cui è stata organizzata la prima conferenza sulle minoranze nella provincia di Trieste.
Ritenevamo necessario creare un luogo, un istituto, in cui si potesse dibattere, fare ricerca sulle questioni che riguardavano la situazione degli sloveni in Italia e le prospettive di tutela di questa minoranza.
Qual è il suo ruolo all'interno di questo Istituto e dell'Università di Capodistria?
Ho cominciato a collaborare con lo Slori negli anni '80. Mi sono formato a Lubiana come geografo, specializzato in geografia politica. Ho iniziato a lavorare all'Università di Lubiana, e nel frattempo ho partecipato allo sviluppo della nuova Università statale del Litorale, cosiddetto "primorsko". Il nome istituzionale è bilingue, perché è localizzata a Capodistria, dove le due lingue ufficiali sono lo sloveno e l'italiano.
Nei temi di approfondimento e ricerca affrontati dall'Istituto, emerge un processo evolutivo della minoranza slovena in Italia negli ultimi 30 anni. Ci spiega in quali termini?
Si deve pensare che siamo una minoranza di confine, distribuita su un territorio differenziato: da quello rurale e più periferico a quello più urbanizzato, come Trieste e Gorizia, dove si concentra gran parte del gruppo sloveno. Negli anni '70 si è sicuramente avviata una trasformazione della "minoranza" in "gruppo" che ancora oggi ha al suo interno delle diversità. Quegli anni hanno segnato proprio il passaggio dal sistema rurale a quello industrializzato, per cui ci si concentrò su come questi processi potevano influire sull'identità e sulle possibilità di sviluppo della minoranza.
Dagli anni '80 è emerso un altro fattore: le relazioni transfrontaliere. La Jugoslavia di allora aveva un grande interesse ad operare economicamente con l'Occidente, per cui l'area di Trieste e Gorizia, in particolare, era molto importante. Anche la minoranza slovena rientrava in questo progetto. Esisteva la Banca di Credito di Trieste, forte istituto di credito della minoranza slovena in Italia; vi circolava circa un terzo di tutto l'interscambio tra la Jugoslavia e l'Occidente, nel cui ambito la minoranza svolgeva un ruolo cruciale. Allora possedeva le risorse economiche per programmare meglio il suo sviluppo, dunque anche il settore della ricerca economica e sociale.
Verso la fine degli anni '80, in Jugoslavia era in corso una crisi politica ed economica, e le conseguenze si sono sentite anche sulle possibilità di sviluppo locale nei settori di interesse delle minoranze. Dopo la frantumazione della Federazione, ciascun nuovo stato ha introdotto proprie tipologie di funzionamento istituzionale, politico ed economico. La minoranza slovena ha subito molto questa trasformazione. Non si è adattata in tempo, e ancora oggi ha una struttura che non si è evoluta e non è al passo con le esigenze del momento. Attualmente c'è un forte dibattito in corso, perché si sente molto la necessità di un cambiamento.
In che senso?
L'organizzazione della minoranza aveva un impianto che in parte rifletteva la struttura socio-politica slovena del tempo, quindi abbastanza gerarchica, piramidale e mono-partitica. Con la dissoluzione della Jugoslavia, a questo orientamento se n'è aggiunto un altro. E' importante sapere che gli sloveni, sia in Slovenia che all'estero, sono divisi in due grossi blocchi: l'area cosiddetta "rossa", più vicina dal punto di vista ideologico al paese di origine, e l'area cosiddetta "bianca", costituita da molti emigrati politici andati via durante e dopo la Seconda guerra mondiale.
Con l'indipendenza si è avviato un processo di aiuto al gruppo degli emigrati politici, l'area politicamente "bianca", quasi per equilibrare il massiccio aiuto che si era offerto prima all'area "rossa". Si è così arrivati ad una situazione di fifty-fifty: accanto all'organizzazione dei rossi se ne è formata una dei bianchi. L'Istituto sloveno di ricerca è membro di entrambe ma non capiamo la necessità di averne due, visto che le problematiche sono comuni.
Attualmente siamo arrivati al reciproco riconoscimento e alla realizzazione di piccole collaborazioni, ma non siamo ancora nella fase di grossa trasformazione, cioè di costruzione di un'unica organizzazione che possa operare al meglio per tutta la minoranza. Personalmente sono molto critico riguardo a questa situazione, come lo sono molti altri, ma non si vedono ancora possibilità di evoluzione, perché con il cambiamento ciascun gruppo teme di poter perdere qualcosa.
Dunque vi sono stati cambiamenti anche sul piano della rappresentanza politica della minoranza?
Tradizionalmente, a Trieste la minoranza slovena votava a sinistra. Nella provincia di Gorizia, invece, le tendenze politiche vedevano una divisione tra voto cattolico e di sinistra, cioè ex comunista. Nelle valli della provincia di Udine, dove la minoranza non era riconosciuta, il voto andava alla Democrazia Cristiana. Questi diversi orientamenti si sono mantenuti in seguito, anche se negli anni '60 è anche esistito un partito etnico "Slovenska skupnost" (Unione slovena) che partecipava alle tornate elettorali.
Nell'ultimo periodo tutto è molto cambiato: gli sloveni non si sentono più molto rappresentati dall'area di sinistra, formata oggi da nuovi partiti che dimostrano meno interesse alle questioni etniche e minoritarie di quanto non facesse prima il partito comunista. Lo dimostrano i risultati delle ultime elezioni: la minoranza slovena ha diminuito il suo sostegno al neonato Partito Democratico, come è scemato anche il voto ai partiti di sinistra che oggi non sono più in Parlamento.
E' una situazione in continua trasformazione e purtroppo la minoranza non ha ancora un progetto di ristrutturazione adeguato alla realtà attuale. Solitamente, per una minoranza, quando le divisioni con la maggioranza sono più marcate e vi sono condizioni di "oppressione politica", il processo di identità è molto più forte, più sentito, e ci si raggruppa meglio intorno ad un'identità. Quando invece tali pressioni vengono a mancare, la tendenza a raggrupparsi attorno ad un'identità specifica è decisamente inferiore.
Dalle analisi realizzate dal nostro Istituto di ricerca emerge l'esistenza di una mescolanza etnica, linguistica, e dunque di identità; un cambiamento profondo della struttura, non solo della minoranza, ma di tutta la popolazione nell'area in cui la minoranza è tradizionalmente presente. Ad esempio, di recente abbiamo realizzato una ricerca, da cui risulta che il 75% di coloro che operano all'interno delle strutture culturali slovene in Italia, si dicono sloveni. Cioè la maggioranza ha un'identità originale, locale, ma sussiste una marcata presenza d'identità mista o di pura identità italiana.
Ritiene questa nuova condizione un punto di forza o di debolezza?
Credo che questa minoranza oggi si senta più scoperta che non in passato, pur essendo un paradosso, perché la situazione socio-politica è decisamente migliore rispetto agli anni '70 e '80. Ritengo che le potenzialità di sviluppo che il panorama odierno potrebbe offrire non vengano sfruttate in maniera appropriata, e così ci si sente più vulnerabili. Credo sia un sentimento presente anche nelle altre aree di confine. L'integrazione in Europa prevede l'abbattimento dei confini, gli stessi confini che aiutano molto a preservare un'identità, una separazione, perché marcano il territorio. Se viene a mancare questa divisone confinaria aumenta il sentimento di vulnerabilità. E vediamo che la reazione si rivolge in direzione neo-nazionalista, di preservazione dell'identità autoctona dichiarata da movimenti come quello della Lega Nord.
Dal punto di vista della comunità slovena in questo territorio, quali potrebbero essere le reazioni a questi fatti epocali, in ultimo l'entrata nell'area Schengen?
Abbiamo già proposto parecchio tempo fa che le associazioni e le organizzazioni della minoranza slovena si occupino più di promozione della loro lingua e cultura. Un aspetto che dovrebbe affrontare anche la Slovenia, proprio perché nella casa comune europea la lingua e cultura slovena, di per sé piccola, va valorizzata e tutelata. Quindi, per esempio, promuovere politiche che favoriscano gli sforzi di quelle persone interessate alla nostra lingua e alla nostra cultura: aumenta il numero di coloro che richiedono di studiare lo sloveno in Italia, sia per motivi di studio sia di lavoro, perché vi sono attualmente più possibilità di lavoro in Slovenia che non nell'area italiana del confine.
Sempre più famiglie miste e famiglie italiane, iscrivono i propri figli nelle scuole di lingua slovena...
E' un fenomeno già visto negli anni '80. Attualmente questi gruppi non sloveni, formati da italiani ma anche da immigrati di altre aree dell'ex-Jugoslavia, rappresentano il 20-30% degli iscritti. Mentre il gruppo che si sta sempre più ingrandendo è quello mistilingue, cioè di genitori misti.
Perciò oggi non abbiamo più l'identità oggettiva del passato. La nostra identità è soggettiva, dipende solo da noi. Noi emigriamo tranquillamente da un'identità all'altra ogni giorno: oggi lavoriamo in un'azienda italiana e siamo uguali agli altri, di sera andiamo in un'associazione slovena, e siamo sloveni come gli altri.
Questa "migrazione culturale" non è più un fattore generazionale ma un fattore di concreto scambio culturale quotidiano, che non necessariamente porta all'assimilazione o alla de-assimilazione, ma semmai alla convivenza di entrambi i processi. E' una caratteristica di quest'area di confine mobile, dove non c'è un confine etnico netto, ma un confine di interscambio etnico che si mantiene nel tempo.
A questo proposito, una delle materie inserite nel programma dell'Università del Litorale a Capodistria, è "geografia di contatto" ...
Sì, è il nome che ho personalmente dato al programma di studio. In qualche modo viene introdotto il concetto di "area di contatto": non solo di contatto politico nel caso dell'abolizione di confini politici, ma anche di un'altra serie di confini dello spazio sociale. Dunque confini etnici, culturali, linguistici, amministrativi, economici e così via. Tutta questa interrelazione fra diverse potenzialità e aree sociali possono intercettarsi in maniera molto differente e anche contraddittoria, determinando da un lato potenziali di conflitto e dall'altro potenzialità di coesistenza. Dipende molto da quali politiche vengono perseguite e sviluppate all'interno di questi ambiti di contatto.
Una sua ricerca è titolata "Da un confine di conflitto a un confine di armonia". Quali sono, a suo avviso, le contraddizioni ancora forti che rimangono in quest'area?
Dal punto di vista dei contatti quotidiani tra comunità, non ci sono mai state molte conflittualità e penso che la situazione istituzionale trans-confinaria abbia contribuito. Con il confine che si è aperto a livello locale, la popolazione ha mantenuto il contatto, perché nel quadro del Trattato di Udine c'era la possibilità di usufruire di passaggi di confine speciali dedicati proprio alle persone di confine. Quindi i contatti, sia sul piano personale sia su quello istituzionale locale, funzionano abbastanza bene.
Purtroppo non avviene altrettanto a livello interstatale, dove sul piano politico sussiste una diffidenza abbastanza marcata. Probabilmente per vari motivi, anche storici, molto forti. C'è dunque la necessità di un impegno forte dei due stati. Andava in questo senso la mia proposta di creare un'opportunità di dialogo interculturale, riaprendo l'ex Narodni dom a Trieste: è una struttura che rientra nella Legge di tutela, che prevede, tra l'altro, proprio il sostegno e lo sviluppo di varie forme di attività interculturale.
A questo proposito il ruolo degli enti regionali, delle istituzioni locali, è stato più lungimirante?
Sì, sia in Slovenia che in Italia ci sono pochissime possibilità di lavorare a livello transnazionale: a differenza di altri paesi europei, le politiche statali in questo campo vengono molto frenate. Riccardo Illy, nell'ultimo periodo della sua presidenza della Regione Friuli Venezia Giulia, sì è dato da fare, anche perché vedeva in questo ambito di intervento la possibilità concreta di reperire disponibilità finanziarie a livello europeo attraverso le linee "Interreg".
Sul piano delle politiche di cooperazione sono dell'idea che gli stati dovrebbero delegare di più a livello locale. Lubiana, ad esempio, rispetto a Roma, pur essendo geograficamente vicina al confine è una città con una mentalità distante. Inoltre, questa nostra area geografica rappresenta un confine molto complesso e richiede capacità manageriali molto forti nel creare, sviluppare e mantenere relazioni di cooperazione. Le potenzialità sono immense, ma non esiste ancora la progettualità necessaria perché si esprimano.
Una giornalista di "Primorski dnevnik", in un'intervista che le abbiamo fatto recentemente, ha affermato che ritiene che la maggioranza non riconosca ancora piena cittadinanza alla minoranza. Concorda?
E' una sensazione abbastanza presente e reale. Rispetto, ad esempio, alla minoranza italiana in Slovenia o a quella tedesca in Südtirol, quella slovena è un nucleo molto poco compatto, diviso all'interno, che non rappresenta una maggioranza locale. Inoltre, ha un handicap istituzionale: dopo tanti anni, lo stato italiano ha adottato la Legge di tutela del 2000, che è interessante dal punto di vista dei contenuti, ma è molto problematica dal punto di vista della sua attuazione. Per esempio, la riapertura del Narodni dom come area di aggregazione interculturale è di fatto prevista per legge, però mancano gli elementi per metterla in pratica. Non basta scrivere una legge per risolvere istituzionalmente il problema, bisogna avere gli strumenti di monitoraggio e di indirizzo per poterla attuare. Credo si debba innanzitutto analizzare meglio la situazione delle minoranze, quella italiana in Slovenia e in Croazia, ma anche la minoranza slovena in Italia, perché la situazione deriva dallo stesso documento, che è il memorandum di Londra, dopo la spartizione della zona di Trieste.
In passato la posizione istituzionale era uguale per entrambe le minoranze, ma l'interpretazione in realtà era molto diversa. In Slovenia, ai tempi dell'ex-Jugoslavia, la situazione era di tipo leninista e oggi è l'unico paese che addotta la stessa tipologia di tutela delle minoranze: dove la minoranza era storicamente presente tutto deve essere bilingue. Dunque, paradossalmente, se non ci fosse più un italiano presente nell'area considerata tale, questa rimarrebbe comunque bilingue ed un rappresentante siederebbe nel parlamento sloveno. Mentre in Italia la situazione è molto diversa: la nostra rappresentatività è legata alle attività e alla presenza effettiva della minoranza, che però si scontra con un divario molto grande sul piano istituzionale.
Rispetto all'università, parla di rilancio culturale e collaborazione transfrontaliera sulla base della promozione della cooperazione culturale. Negli ultimi tempi sono cresciute molto, ad esempio, le Università di Capodistria e di Pola. Quanti sforzi di integrazione si sono fatti con l'Università di Trieste?
La collaborazione esiste eccome. Una priorità che ci siamo posti fin dall'inizio era proprio quella di creare un network regionale tra le università che operano in un'area ristretta che, però, è abbastanza densa di centri universitari. Partendo da Klagenfurt, dopo l'Università di Udine troviamo quella di Gorizia e poi Trieste. Mentre di là ci sono le Università di Pola, Fiume, Zara e così via. Si sono già siglati degli accordi e abbiamo sviluppato vari progetti concreti. Uno di questi è a favore della mobilità degli studenti in quest'area, perché crediamo che non basti avere un solo progetto Erasmus a livello europeo, ma vi sia la necessità di indirizzare meglio gli studenti verso scambi interculturali.
Un altro ambito è quello dello sviluppo congiunto degli indirizzi di studio: ad esempio, con l'Università di Trieste abbiamo già lanciato un Master congiunto in biologia marina. Inoltre, stiamo approntando un dottorato comune in Diversity mamagement con Graz e Bologna. Abbiamo avviato grandi cambiamenti, sia noi sia l'Università di Trieste, proprio per andare in questa direzione. L'idea è quella di creare, assieme all'Università del Litorale di Capodistria e quella di Trieste, corsi specifici di interculturalità e dialogo interculturale. Il Narodni dom potrebbe essere la sede appropriata per questa iniziativa, e penso che le università sarebbero in grado di andare avanti con un lavoro di qualità laddove gli stati sono ancora un po' latitanti.
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