In molti territori al confine tra Italia e Slovenia si stava respirando - finalmente - un clima di osmosi. Le misure introdotte per limitare la pandemia hanno cambiato tutto. Né Roma né Lubiana si sono preoccupate più di tanto. Ma c'è chi, con creatività, è "sceso in campo" a favore della complessità, degli interessi e delle relazioni delle aree transfrontaliere
È stato un anno schizofrenico al confine orientale. La pandemia ha cancellato molte delle certezze di una popolazione che aveva cominciato a credere che la frontiera non esistesse più. Da una parte sono arrivati segnali confortanti dal goriziano, dove gli amministratori locali hanno fatto di tutto per continuare a collaborare, dall’altra parte invece c’è stato chi non è sembrato angosciarsi più di tanto per le limitazioni poste ai confini. L’unica certezza è che né Roma né Lubiana si sono preoccupate più di tanto della complessità, degli interessi e delle relazioni di chi vive tra Italia e Slovenia.
I primi a chiudere sono stati gli sloveni. Era il 10 marzo 2020, quando il premier Marjan Šarec, poco prima di cedere la cabina di comando a Janez Janša, non ha perso l'occasione di annunciare su Twitter che il confine con l’Italia sarebbe stato “chiuso”. Poche ore dopo i valichi secondari sono stati sbarrati. In alcuni punti sono stati addirittura portati massi per bloccare la strada, in altri il passaggio è stato impedito da cumuli di ghiaia. All’epoca il coronavirus si stava diffondendo in Italia; in Slovenia i casi erano pochi e la paura che il contagio si propagasse massicciamente era tanta.
Tra lo sgomento generale, in piazza della Transalpina - Trg Evrope, tra Gorizia e Nova Gorica, le autorità slovene pensarono bene di montare una rete. La piazza, che era stata il simbolo dell’allargamento ad est dell’Unione europea, era tornata ad essere divisa. Uno schiaffo per tutti i goriziani, che proprio in quei mesi stavano entrando nell’ultima fase della loro candidatura a Capitale europea della cultura 2025. La loro reazione è stata stupenda. Le immagini di giovanotti che giocavano a pallavolo e a badminton, usando la nuova rete, accanto a quelle di ragazzini che si tenevano per mano o bevevano insieme una bibita hanno fatto il giro del web. Il pregio dei goriziani è stato quello di non perdersi d’animo, ribadendo in ogni modo che loro volevano continuare a vivere nell’Europa senza confini. Per dimostrarlo i due sindaci, Klemen Miklavič e Rodolfo Ziberna, sono arrivati a portare platealmente le loro scrivanie in mezzo alla piazza, per sedersi a parlare tra di loro divisi dalla rete. Una reazione in controtendenza rispetto al resto delle aree di confine dove i nuovi blocchi imposti dal virus sono stati vissuti con assoluta indifferenza. Le amministrazioni di Capodistria e Trieste, ad esempio, non hanno sentito nessuna esigenza di incontrarsi e tanto meno di farlo in maniera spettacolare davanti ad una sbarra di confine.
Più di altri Ziberna e Miklavič hanno capito che l’unico modo per far uscire il loro territorio dalla marginalità di frontiera era quello di ripensarlo in maniera integrata. Proprio per questo hanno inteso il titolo di Capitale europea della cultura 2025 come una grande opportunità. I due suggestivi personaggi sono l’espressione delle loro rispettive comunità: di sinistra Miklavič, di destra Ziberna. Al primo probabilmente non dispiace che sul monte Sabotino ci sia ancora in bella vista la scritta inneggiante al maresciallo Tito; mentre il secondo non trova nulla di male nel fatto che ogni anno i reduci della X Mas commemorino i loro morti facendo tappa nell’atrio del comune. Due mondi diversi, tanto che in queste settimane Miklavič ha salutato l’idea che il Gay Pride-FVG faccia tappa nella sua città, mentre Ziberna ha chiaramente dato ad intendere che non vuole avere nulla a che fare con l’iniziativa. Per collaborare hanno usato una semplice strategia. Si sono messi a lavorare sulle molte cose che li accomunano, lasciando da parte ciò che li divide. Non è stata una scelta né semplice né così scontata, come potrebbe sembrare a prima vista.
Intanto le loro due città sono diventate il simbolo della collaborazione tra Slovenia ed Italia. Un esempio per tutti, tanto che sono state adottate dai due presidenti della repubblica. Sergio Mattarella e Borut Pahor, nel luglio scorso hanno fatto tappa, mano nella mano, di fronte alla Foiba di Basovizza e davanti al Monumento ai martiri antifascisti sloveni fucilati nel 1930, due luoghi simbolo delle sofferenze provocate a sloveni e italiani dai regimi autoritari del secolo scorso. Ora i due presidenti nell’autunno prossimo torneranno ad incontrarsi a Gorizia e Nova Gorica. Intanto in settimana Miklavič e Ziberna sono stati ricevuti insieme al Quirinale.
Avrebbero molto da insegnare alla politica italiana e slovena. Prima di tutto che in tempo di crisi (e quindi anche nell’affrontare l’emergenza sanitaria) i provvedimenti al confine si sarebbero dovuti concordare. Non è stato fatto a marzo del 2020 e non lo si fa nemmeno ora. Slovenia e Italia hanno continuato ad andare avanti in ordine sparso nel marasma causato dal virus. Roma e Lubiana hanno gestito il confine disinteressandosi dei problemi della popolazione locale: gli unici di cui si sono occupati sono stati i frontalieri. A loro è stato consentito, in maniera quasi indisturbata, di andare a lavorare o a scuola da una parte ed a dormire dall’altra, ma poco o nulla è stato fatto per mantenere tutta quella rete di relazioni in un territorio che aveva cominciato ad essere alquanto integrato.
Ora dopo 15 mesi di apertura a singhiozzo del confine, di regole che cambiano di giorno in giorno e di una sostanziale difformità nelle modalità di passaggio da una parte all’altra sembra giunto il momento di calcolare i danni di una politica che non è mai stata in grado di pensare al territorio in chiave diversa rispetto a quella nazionale. Ne hanno sofferto la minoranza italiana in Slovenia e quella slovena in Italia, ma ne ha sofferto anche tutta quella fetta di popolazione che aveva imparato oramai a vivere come se non ci fosse il confine.
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