Bilinguismo negato, spionaggio nelle famiglie, Gladio: la storia alla frontiera ha lasciato trincee indelebili che tuttora segnano il presente di Topolò, paese al confine italo-sloveno, dove anche grazie ai fondi europei si cerca di costruire un futuro. Prima parte di un reportage
Di Topolò, agglomerato di case arroccate su un pendio abbracciato dalle montagne in provincia di Udine, a poche centinaia di metri dal confine con la Slovenia, si parla in genere facendo l'elenco di ciò che non c'è: “Manca la scuola, manca un negozio, manca un bar, manca la posta, non ha un ambulatorio, un tabaccaio, una farmacia, e anche la connessione internet fa brutti scherzi”. In effetti, coglierne l'essenza è un'operazione molto più complessa e delicata, che forse poco ha a che fare con ciò che c'è e con ciò che manca, ma più con ciò che stato e ciò che potrebbe essere.
Per secoli snodo di culture e di scambi, cerniera tra il mondo di lingua italiana e quello di lingua tedesca, dopo la Prima guerra mondiale Topolò ha subito in modo drammatico le tempeste della politica, prima con il fascismo, poi con la guerra fredda, e si è letteralmente dissanguato. “Lo spopolamento non è stato solo un fenomeno naturale dettato dalla congiuntura economica – ci hanno detto più voci raccolte durante la nostra permanenza – qui si è trattato di una consapevole strategia di azzeramento della popolazione, per allontanare la minoranza slovena, che qui era maggioranza”.
È la storia, combinata con il particolare disegno geografico di Topolò, collocato dove finisce la strada che sale da Cividale, a risuonare ancora potente nel presente dei suoi venti abitanti. “Qui si legge il Novecento”, sostiene Moreno Miorelli, arrivato in paese trent'anni fa con il suo progetto di installazioni artistiche site-specific; e lo conferma Donatella Ruttar, per diversi anni condirettrice di Stazione Topolò-Postaja Topolove: “Anche se la Cortina di ferro ufficialmente non c'era più, anche durante i primi anni della Stazione, a metà anni Novanta, le tensioni tornavano come ad onde, e chi si occupava di confine o di minoranza slovena era guardato con sospetto e probabilmente anche sorvegliato dalle autorità”.
Con le autorità, per tutto il Novecento la gente di Topolò ha avuto un rapporto profondamente conflittuale e sofferto: colonizzati in casa propria e soffocati nella propria lingua dalla spietata politica di italianizzazione forzata del fascismo, destino analogo ai germanofoni della provincia di Bolzano, e poi dal 1946 manipolati e piantonati dalle autorità centrali democratiche e dai servizi segreti in funzione anti-jugoslava, a differenza dei sudtirolesi che invece si vedevano a poco a poco riconoscere i diritti di minoranza linguistica, gli italiani parlanti sloveno delle valli del Natisone rappresentano una cruda sconfitta della storia del dopoguerra. “Altro che Europa – ci ha detto Moreno Miorelli – qui non c'era neppure la Costituzione italiana!”.
I diritti sulla carta sarebbero arrivati solo nel 2001 (sic!), con il riconoscimento ufficiale della minoranza linguistica, ma quel tessuto di fragilità e sospetto, di vergogna e sfiducia, avrà certo bisogno di qualche altro decennio perché i torti siano se non parificati almeno meno acuti e la cittadinanza del tutto piena.
“Anche se qui si parlava sloveno dappertutto – racconta l'architetta Donatella Ruttar, cresciuta a Clodig a un paio di chilometri da Topolò – i miei stessi genitori ci proibivano di parlarlo, e mio padre pretendeva da mio fratello di essere chiamato papà in italiano”. Anni Sessanta, piena guerra fredda, con i cultori della lingua slovena tacciati di essere “titini”, sospettati di avere legami con il nemico oltreconfine, sorvegliati dagli aderenti all'organizzazione segreta Gladio.
Moreno ci mostra la tessera nr. 2443, rilasciata il primo agosto 1946 al patriota dal nome di battaglia Piemonte: “Il terzo corpo volontari della libertà sarebbe poi diventato Gladio, e sappiamo di che altre faccende si sono poi occupati questi patrioti”. La storia per Miorelli è stata il richiamo più forte per stabilirsi nelle Valli del Natisone a inizio anni Novanta: appassionato, meticoloso, creativo nel cercare e trovare connessioni, poeta, amico e collaboratore di Andrea Pazienza, il fondatore di Stazione Topolò sottolinea con insistenza quanto intricata, complessa e sofferta sia la storia che ha attraversato questa zona d'Italia.
Dalle finestre qui si vede il profilo del Kolovrat, la trincea che gli italiani hanno dovuto cedere agli austriaci nell'ottobre del 1917 durante la celeberrima disfatta di Caporetto. Ora di là, a Kobarid (la slovena Caporetto) i friulani ci vanno la domenica a mangiare, a visitare le gole dell'Isonzo e a fare benzina, ma l'idea del confine è rimasta lì, tangibile, concreta, soprattutto per colpa di quello che sarebbe accaduto nei decenni successivi.
“Fino alla Grande Guerra qui il confine linguistico non coincideva con quello politico-militare”, spiega Donatella, ideatrice e curatrice dello SMO (Slovensko multimedialno okno / Finestra multimediale slovena) di San Pietro al Natisone, museo di narrazione dedicato al paesaggio culturale dalle Alpi Giulie al mare, dal Mangart al golfo di Trieste. Fino agli inizi del Novecento, nonostante a pochi passi corresse il confine tra Regno d'Italia e Impero Austroungarico, la gente di queste valli con i villaggi “dall'altra parte” aveva rapporti molto più intensi che non con il fondovalle “di qua”, nella Benecia o Slavia friulana. “Curavano i pascoli, raccoglievano la legna, andavano a caccia, usando un territorio che spesso sconfinava”, precisa Donatella che racconta di come questi sconfinamenti permanenti riguardassero anche la vita religiosa, con le parrocchie di fatto transfrontaliere, e con i cimiteri nell'Impero destinati ad esempio ad accogliere anche i cittadini del Regno.
L'autentica disfatta qui è iniziata con il fascismo e la soppressione della lingua, di quel dialetto sloveno che era lingua madre per la maggior parte degli abitanti delle valli del Natisone; ed è continuata anche con l'arrivo della repubblica democratica, nel secondo dopoguerra, con la strategia dello svuotamento. “Qui serviva un permesso del ministero della Difesa anche solo per tagliare un albero”, racconta Moreno Miorelli. “E la vita era difficile anche per quei preti che coltivavano la cultura locale, ma che erano invisi al potere, alla Nato, ed erano sorvegliati speciali”.
Di qui l'emorragia di popolazione che dai 400 abitanti ha portato Topolò ad averne ora venti volte di meno. E con gli abitanti se ne sono andate le attività, l'ultimo bar è stato chiuso quarant'anni fa. Destino simile subisce nel Novecento tutta la zona che a ventaglio occupa le pendici del Kolovrat e del Monte San Martino: gli uomini vanno nelle miniere del Belgio, le donne a servizio in tutta Europa.
“Eppure Topolò ha sempre accolto iniziative controcorrente, come l'arrivo delle trecento pecore dalla Macedonia a metà Anni Settanta”, ricorda Donatella. Quello che sarebbe poi diventato suo marito, l'architetto Renzo Rucli, nella nuova amministrazione comunale di sinistra (unico esempio in tutta la valle, in un contesto fortemente democristiano, con inclinazioni semmai verso i partiti di destra) nel 1975 collabora all'ideazione di un progetto pilota per la manutenzione del territorio, la creazione di posti di lavoro, lo sviluppo di nuova imprenditorialità. Antesignano dei progetti europei transfrontalieri, il “progetto delle pecore” ha incluso percorsi di formazione per la tosatura, la lavorazione della lana, la tessitura, e anche se poi è andato fallendo negli anni, qui lo ricordano tutti con orgoglio. “Per noi era il segno che a Topolò la comunità era viva, nonostante tutto”, sorride Donatella.
E infatti in seguito sarebbe arrivata la Stazione, con artisti da mezzo mondo, ma anche la ristrutturazione di mezzo paese grazie ai fondi europei per l'albergo diffuso, e il recupero del paesaggio e dei sentieri nell'ambito di altri progetti europei. Ma questa è un'altra storia.
(continua)
Il reportage da Topolò include anche:
E un audio reportage
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