La posta in gioco del conflitto russo-georgiano, il rischio di guerra fredda e il nuovo scenario regionale dopo il riconoscimento di Ossezia e Abkhazia. Intervista a Francesco Strazzari, docente di relazioni internazionali
Francesco Strazzari è docente di relazioni internazionali presso il Dipartimento di Scienze Politiche dell'Università di Amsterdam e nostro collaboratore
Perché Mosca si è spinta fino al riconoscimento di Abkhazia e Ossezia meridionale?
La Russia vuole tracciare una linea chiara, che mostri dove il percorso di espansione della NATO deve arrestarsi. L'Occidente non ha voluto tracciare questa linea, ed ora l'ha fatto la Russia. Oltre questa linea si spara. Con il riconoscimento Mosca ha voluto arrivare fino in fondo, mostrando il proprio atteggiamento in maniera inequivocabile.
Ci sono confronti possibili con la situazione del Kosovo?
I russi hanno il vantaggio di avere a disposizione una vasta dotazione di argomenti che sono stati forniti dall'Occidente. Mosca sta utilizzando le stesse logiche e gli stessi strumenti, la categoria dell'umanitario, le televisioni per mostrare colonne di profughi con un sottofondo musicale che tocca le corde dell'emozione, come l'Occidente ai tempi della guerra in Kosovo. La differenza è che quando Mosca utilizza la tradizione del pensiero liberale e democratico per le proprie argomentazioni, e invoca ad esempio il rispetto dei diritti delle minoranze, lo fa in maniera estremamente grossolana.
Perché il conflitto tra Russia e Georgia è esploso proprio in questi giorni?
Quale che sia stata la dinamica di innesco, credo che questo scontro avvenga oggi perché le condizioni per la Russia sono estremamente favorevoli. Putin coglie l'Europa in una fase delicata, che è quella del varo del trattato di riforma della Costituzione che la doterà - almeno da un punto di vista formale - di una politica estera. Gli Stati Uniti d'altro canto sono nella fase declinante della presidenza e in una situazione di generale incertezza, non è ancora chiaro se le sorti del Paese saranno rette dai democratici o dai repubblicani.
Qual è la posta in gioco in Georgia?
La Georgia rappresenta una tessera fondamentale nel mosaico energetico, per la sua posizione strategica nel congiungere il mondo turco e di derivazione turca con l'Europa, quindi il mondo che produce idrocarburi con il mondo che li consuma. Per la Russia, Tblisi rappresenta una spina nel fianco, dato che le impedisce una posizione di monopolio sull'approvvigionamento europeo.
Con l'oleodotto Baku-Tbilisi-Ceyhan?
Sì, che si avviava l'anno prossimo a veicolare un milione di barili al giorno. Dico "si avviava" perché proprio negli stessi giorni del conflitto russo-georgiano i guerriglieri curdi hanno attaccato l'oleodotto in Turchia, una cosa di cui i giornali hanno parlato poco. Questa economia di transito ha come sbocco i porti sul Mar Nero, cioè i mari caldi che per la Russia sono storicamente legati alla propria affermazione come grande potenza. E' questa la posta in gioco. Lo status di grande potenza della Russia si misura con la sua capacità di interagire con lo scenario europeo, e questo avviene tramite i mari caldi. Per questo arrivano a Poti e distruggono tutto, non solo le strutture militari. Questo scenario naturalmente comunica con quello ucraino. E questo è un segnale chiaro di quello che potrebbe succedere nel momento in cui da parte atlantica si volesse arrivare ad un passo deciso, come candidare l'Ucraina alla Nato.
Ci sono rischi di una escalation con l'arrivo delle navi da guerra americane nel Mar Nero?
Il pericolo che la situazione sfugga di mano nel Mar Nero è reale. Ma in questo momento vedo con maggiore preoccupazione le tensioni che ci sono altrove nella regione. Il conflitto in Nagorno Karabakh dà ampi segnali di instabilità. Pochi mesi fa è avvenuta la peggiore rottura del cessate il fuoco negli ultimi anni tra Armenia e Azerbaijan, che sono Stati clienti - almeno per le forniture militari - il primo della Russia e il secondo degli Stati Uniti.
A chi conviene una nuova guerra fredda?
La Russia ha da guadagnare una riaffermazione del proprio status e la dimostrazione che gli Stati Uniti sono una potenza in declino, impantanata in conflitti nelle periferie con un Islam con cui la Russia, in casa, fa i conti in maniera diversa. L'Abkhazia è un Paese islamico, la Cecenia pure e le sorti che seguono non sono certo quelle dello scontro di civiltà descritto da Huntington. La realpolitik russa è diversa da quella statunitense. Gli Stati Uniti d'altro canto si sono ritirati dal trattato ABM di difesa missilistica, che era la chiave di volta degli equilibri della guerra fredda, e hanno infine firmato con Polonia e Repubblica Ceca un protocollo di intesa che porterà all'installazione di un nuovo sistema antimissile. Tutto questo comporta una speculare politica di riarmo e di reinnesco della guerra fredda.
Chi ci perde in una nuova guerra fredda?
L'Europa. Per questo assistiamo ad una generale cautela, e credo che questo sia anche uno dei motivi per cui il ministro degli Esteri francese Kouchner ha dichiarato che nel vertice europeo sul Caucaso del primo settembre prossimo le sanzioni contro Mosca non saranno oggetto di discussione.
Qual è la posizione europea?
L'Unione procede in ordine sparso, dall'Italia che esprime una posizione apertamente filorussa alle posizioni britanniche, vicine agli Stati Uniti, con in mezzo Francia e Germania che cercano di mantenere un canale di comunicazione con Mosca. Naturalmente tutto l'arco della cosiddetta nuova Europa, dai paesi baltici alla Romania e alla Polonia, sono compattamente filostatunitensi.
Si arriverà ad una posizione comune?
Trovo preoccupante il relativo silenzio in questi giorni di quelli che dovrebbero essere gli strumenti propri della politica estera europea. L'Europa ha il famoso uomo che dovrebbe rispondere al telefono quando avviene una crisi, si chiama Javier Solana, ex segretario generale della Nato. In questi giorni però a dettare la rotta è la presidenza di turno, quella francese. Si tratta di uno strumento politico e diplomatico di alto livello, è chiaro, ma non è l'Europa espressione di una politica estera comune. E' un'Europa che tenta di creare la somma delle volontà dei singoli. In politica estera l'Unione sembra scegliere ancora la linea del minimo comun denominatore.
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