Il pluralismo linguistico è uno dei principi fondanti dell'Unione europea, ma solo un europeo su cinque sa parlare due lingue straniere – anche se la percentuale è in aumento. Tra i fattori che fanno la differenza, l'efficacia dei metodi di insegnamento linguistico e l'esposizione alle lingue straniere

21/01/2020 -  Jacopo Ottaviani

(Questo articolo è stato originariamente pubblicato su Internazionale  nell'ambito del progetto EDJNet.)

A maggio del 2019, la Gazzetta ufficiale dell’Unione europea ha pubblicato un documento di sette pagine intitolato “Raccomandazione del consiglio su un approccio globale all’insegnamento e all’apprendimento delle lingue” . L’obiettivo richiamato dal consiglio dell’Unione europea è tanto semplice quanto affascinante e ambizioso: è essenziale che i cittadini dell’Unione europea conoscano almeno due lingue straniere, oltre alla propria lingua madre.

Già ai tempi della Comunità europea del carbone e dell’acciaio del 1951 i sei paesi fondatori – Italia, Francia, Germania, Belgio, Paesi Bassi e Lussemburgo – riconoscevano quattro lingue ufficiali: italiano, francese, tedesco e olandese. Con l’estensione della comunità europea a nuovi stati, cresce anche il numero delle lingue ufficiali: nel 1973 si aggiungono l’inglese e il danese e negli anni ottanta il greco, lo spagnolo e il portoghese. Nel corso degli anni a queste sono state aggiunte altre lingue con la creazione e l’espansione dell’Unione europea fino a raggiungere un totale di ventiquattro lingue ufficiali e oltre sessanta lingue minoritarie e regionali.

Il multilinguismo è uno dei principi fondanti dell’Unione europea ed è inteso dalle istituzioni europee sia come la capacità del singolo individuo di esprimersi in più lingue (definita plurilinguismo), sia come la coesistenza di differenti comunità linguistiche in una specifica area geografica. Oltre ai naturali risvolti commerciali e industriali, promuovere l’apprendimento delle lingue significa favorire la comprensione reciproca tra persone di diverse culture, facilitare un dibattito pubblico transnazionale e rafforzare l’identità europea. In altre parole, il multilinguismo ha una dimensione strategica per l’Europa e per dirla come il Consiglio dell’Unione europea “la competenza multilinguistica rappresenta il fulcro dell’idea di uno spazio europeo dell’istruzione”.

Allo stato attuale delle cose l’apprendimento delle lingue da parte dei cittadini europei è ancora solo un progetto sulla carta. Osservando i dati dell’Eurostat , poco più della metà dei cittadini europei dichiarano di essere capaci di tenere una conversazione in una seconda lingua. Solo un cittadino su cinque può parlare due lingue oltre alla propria e meno di uno su dieci ne conosce più di tre. Le percentuali naturalmente variano di paese in paese e in base alla classe d’età e alla situazione lavorativa del cittadino (mentre non ci sono grosse differenze tra uomini e donne). Per esempio se circa il 73 per cento dei cittadini tra i 25 e 34 anni parlano almeno una lingua straniera, il dato che scende gradualmente per tutti i gruppi d’età successivi, fino a raggiungere il 55 per cento tra i cittadini tra i 55 e 64 anni.

Non a sorpresa, secondo Eurostat , l’inglese è la lingua straniera più parlata e conosciuta nell’Unione europea e quella più comunemente studiata nelle scuole primarie e secondarie inferiori (da circa il 98 per cento degli studenti). Al secondo posto appare il francese (33 per cento degli studenti), seguito dal tedesco (23 per cento) e dallo spagnolo (17 per cento).

In molti paesi – inclusa l’Italia – si comincia a studiare anche la terza lingua. Il francese è studiato come terza lingua da più del 50 per cento degli studenti delle scuole secondarie inferiori in Irlanda, Italia, Paesi Bassi, Romania e Portogallo. Il tedesco è studiato come terza lingua da più della metà degli studenti in Danimarca e Polonia, mentre lo spagnolo da circa la metà degli studenti in Francia. L’italiano, invece, è studiato dal 57 per cento degli studenti a Malta, il 10 per cento in Croazia e il 4 per cento in Francia.

Ma non è sufficiente misurare quanti studenti fanno lezione di lingue straniere. È anche necessario capire quanti effettivamente poi le imparano e sono incentivati a praticarle. E se i dati ufficiali sull’età di apprendimento delle lingue straniere sono incoraggianti, dai dati di altre ricerche emergono differenze importanti sulla padronanza delle lingue tra gli studenti dei vari paesi europei. Come emerge dalla prima indagine comparativa sull’effettivo apprendimento degli studenti europei delle lingue straniere uscita nel giugno del 2012, i risultati tra i vari paesi europei varia moltissimo. Per esempio l’82 per cento degli studenti svedesi sa parlare con padronanza l’inglese a fronte del 27 per cento degli spagnoli e del 29 per cento dei polacchi. Alcuni paesi, tra cui l’Italia, non compaiono nello studio (ma compariranno nella prossima pubblicazione prevista tra qualche anno).

Un mosaico complesso

Secondo Nathalie Baïdak, coordinatrice di analisi e ricerca di Eacea , l’Agenzia esecutiva per l’istruzione, gli audiovisivi e la cultura alla guida di programmi e attività per conto della Commissione europea, la realtà dei fatti è un mosaico complesso. “Da un lato assistiamo a un incoraggiante abbassamento dell’età in cui si comincia a studiare le lingue straniere. Venti anni fa i bambini cominciavano a studiare una lingua straniera non prima dei 10-11 anni, oggi invece in quasi tutti i paesi dell’Unione europea si inizia dai 6-8 anni,” spiega Baïdak. “Dall’altro osservando i dati si scopre che le differenze tra i paesi sono enormi e c’è ancora molto lavoro da fare per migliorare lo studio della seconda lingua straniera.”

Secondo Baïdak, i fattori che determinano il successo dell’apprendimento delle lingue straniere sono principalmente due: l’efficacia dell’insegnamento delle lingue nel sistema scolastico e l’esposizione alle lingue nell’ambiente in cui si vive. Oltre quindi a potenziare la scuola (per esempio investendo nella formazione dei docenti e migliorando la continuità tra scuole elementari e medie) è utile favorire un’esposizione alle lingue più diffusa, per esempio attraverso la proiezione di film sottotitolati e non doppiati, come avviene nei paesi del nord. In questo senso la diffusione di internet e dei video on demand hanno facilitato l’apprendimento delle lingue, soprattutto dell’inglese.

Gli ultimi studi di Eurydice – la rete europea di informazione sull’istruzione finalizzata a fornire ai politici degli stati membri informazioni aggiornate e affidabili sulle quali basare le riforme dell’istruzione – fanno riflettere anche la necessità di approcci dell’insegnamento delle lingue ad hoc in un mosaico ricco e complesso come l’Europa.

Per avere un’idea, il rapporto Eurydice “Dati chiave sull’insegnamento scolastico delle lingue in Europa” analizza sessanta indicatori relativi allo studio delle lingue, prendendo in considerazione variabili come l’offerta delle lingue studiate nei programmi dell’istruzione dell’obbligo, le ore effettivamente dedicate all’insegnamento delle lingue, la mobilità transnazionale di docenti e studenti e il sostegno linguistico per gli studenti immigrati appena arrivati.

“L’Italia sotto questo aspetto mostra segnali di miglioramento. Ad esempio dal 2003, è stato introdotto l’insegnamento obbligatorio dell’inglese a partire dal primo anno della scuola primaria. Inoltre, gli studenti italiani, come circa il 60 per cento circa degli studenti europei, stanno iniziando ad apprendere una seconda lingua straniera a partire dalle scuole medie”, spiega Simona Baggiani, analista di sistemi e politiche educative europee dell’unità italiana di Eurydice e parte dell’Agenzia Erasmus+/INDIRE.

Ma come nel resto d’Europa anche in Italia l’apprendimento delle lingue che varia di regione in regione. Dal rapporto Invalsi del 2019 i risultati medi migliori compaiono tra gli studenti dell’Italia settentrionale rispetto a quelli dell’Italia centrale e meridionale in termini di ascolto e comprensione della lingua inglese. Un quadro non lontano da quello emerso dall’indagine internazionale Pisa (Programme for international student assessment), dove il nord ottiene risultati superiori alla media Ocse, e via via muovendosi verso sud il risultato scende finendo sotto a quello della media Ocse.

Ci sono poi da considerare altri mezzi molto importanti per un apprendimento efficace delle lingue a scuola. “Tra questi spicca il programma Erasmus+ e tutti gli incentivi alla mobilità transnazionale degli studenti (non solo universitari ma anche di livello secondario) messi a disposizione dall’Unione europea”, spiega Baggiani. La mobilità degli studenti è una leva fondamentale per l’acquisizione di migliori competenze linguistiche. Su questa l’Unione europea ha promesso di investire fino a 30 miliardi tra il 2021 e il 2027 per rendere il programma più inclusivo. Ma serve uno sforzo ancora maggiore per aumentare il numero dei cittadini europei capaci di parlare più lingue, come raccomandato dal Consiglio dell’Unione europea.

Questo articolo è pubblicato in associazione con lo European Data Journalism Network  ed è rilasciato con una licenza CC BY-SA 4.0

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