A pochi mesi dalla commemorazione del centenario del genocidio del popolo armeno, in Europa diverse iniziative in campo politico e giudiziario si confrontano sul tema del negazionismo
È un crimine negare il genocidio armeno? Sì, secondo il parlamento greco, che il 9 settembre scorso ha approvato un disegno di legge che renderà illegale il disconoscimento di diversi genocidi, incluso quello subito a partire dal 1915 dagli armeni nell’allora Impero ottomano. Il nuovo provvedimento, che mira in aggiunta a inasprire le sanzioni per l'incitamento all'odio, alla discriminazione e agli atti di violenza, nonché il negazionismo dei crimini di guerra e di quelli contro l'umanità, è stato adottato dal parlamento in sessione estiva con una maggioranza di 54 voti a favore, 42 contrari e 3 astenuti.
Quanti violeranno la nuova legge potranno così essere puniti con un’ammenda di un massimo di 30.000 euro e con pena detentiva fino a tre anni di carcere. Inoltre, partiti e associazioni che sostengano apertamente il negazionismo o il razzismo – e qui il pensiero non può che andare ai neonazisti greci di Alba Dorata – vedranno sospesi i finanziamenti governativi per un periodo dagli uno ai sei mesi, e rischieranno multe fino a 100.000 euro.
2015: il centenario
L'incriminazione di quanti negano il genocidio armeno è stata accolta con grande favore in una Yerevan che si appresta a commemorarne l’anno prossimo il centenario, e segue analoghi provvedimenti intrapresi in precedenza dalla Svizzera e dalla Slovacchia. Da parte sua, la Francia – stando a quanto affermato dal presidente del gruppo socialista all'Assemblea nazionale Bruno Le Roux durante una recente visita in Armenia – potrebbe adottare da qui all’anno prossimo un analogo disegno di legge, dopo aver visto due anni or sono bocciare dalla propria Corte Costituzionale una norma atta a reprimere i fenomeni di negazionismo. Pur senza prevedere nella maggioranza dei casi sanzioni, è bene ricordare come sino ad oggi i parlamenti di 21 stati abbiano riconosciuto formalmente che quanto avvenuto a danno degli armeni negli anni della grande guerra debba essere definito genocidio.
Eppure, non si tratta solo di una questione morale e storica. In ballo ci sono anche alcuni importanti nodi della politica internazionale e gli interessi di diversi attori. E così sia la Turchia, erede di quell’Impero ottomano ormai in disfacimento che commise i crimini in questione, sia l’Azerbaijan, paese impegnato in un conflitto cosiddetto congelato con l’Armenia per il territorio del Nagorno Karabakh, si impegnano attivamente per scongiurare il riconoscimento del genocidio armeno da parte di diversi stati e organizzazioni. Per farlo, l’Azerbaijan e la Turchia sono più volte ricorsi a lobby e gruppi di pressione, con ingenti finanziamenti, e anche a pressioni diplomatiche molto forti, a testimonianza dell’importanza da loro attribuita alla questione.
Libertà di espressione e negazionismo
Oltre a ciò, il tema rientra in un problema legislativo più ampio e a tratti insidioso: quello del difficile bilanciamento tra l'esigenza di reprimere il negazionismo dei crimini di genocidio e il diritto alla libertà di espressione. Così, la Francia – che pur ha formalmente riconosciuto il genocidio armeno con la legge n. 70 del 29 gennaio 2001 – ha recentemente visto dichiarare da parte della Corte Costituzionale l'illegittimità degli artt. 1 e 2 della legge n. 647 del 23 gennaio 2012, che esplicitamente reprimevano la pubblica apologia, negazione o grossolana minimizzazione dei crimini di genocidio (fra cui si includeva quello armeno), dei crimini contro l'umanità e dei crimini di guerra. La legge, proposta dalla deputata Valérie Boyer, che pur aveva ottenuto l’approvazione sia dall’Assemblea nazionale che dal Senato, veniva così respinta in quanto si riteneva rappresentasse “una violazione incostituzionale del diritto alla libertà di parola e di espressione”.
Sulla scorta di tale verdetto, e richiamandosi esplicitamente all’art. 10 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, dedicato appunto alla libertà d’espressione, anche la Corte europea dei diritti dell’uomo si è pronunciata il 17 dicembre scorso sulla questione. L’occasione è stata fornita dalla sentenza per il caso Perinçek contro Svizzera. Doğu Perinçek, presidente del Partito dei lavoratori della Turchia, invitato per una serie di conferenze in Svizzera, aveva negato pubblicamente l'esistenza del genocidio armeno, definendolo tra l'altro una “menzogna internazionale”. Affermazioni che avevano spinto l'Associazione Svizzera-Armenia a sporgere denuncia per razzismo, facendo appello all'articolo 261 bis del Codice penale svizzero. Nel marzo del 2007, Doğu Perinçek era stato condannato dal Tribunale di polizia di Losanna a una pena pecuniaria di 9.000 franchi, sospesa con la condizionale per due anni, più una multa di 3.000 franchi.
Il caso Perinçek a Strasburgo
Interpellata dallo stesso Perinçek, la Corte europea dei diritti umani ha però sconfessato i giudici elvetici, rimettendo in causa l'applicazione stessa della norma antirazzismo. Strasburgo ha ricordato che “il diritto di dibattere apertamente di questioni sensibili e suscettibili di non piacere è uno dei diritti fondamentali della libertà d’espressione”. Un diritto, prosegue la Corte, che “distingue una società democratica, tollerante e pluralista da un regime totalitario o dittatoriale”.
La sentenza, che rischia di rimettere in discussione la stessa norma elvetica che si oppone al negazionismo, ha suscitato le ire dell’Associazione Svizzera-Armenia, che si è detta “profondamente delusa e indignata”. Non è da escludersi, inoltre, che questa abbia un’influenza negativa sugli analoghi provvedimenti approvati da altri paesi europei, inibendo in aggiunta l’iniziativa di quanti possano volerne proporre in futuro. Data l’importanza della questione, l’Armenia ha richiesto e ottenuto di costituirsi parte civile, in seguito alla domanda della Svizzera di riesaminare il caso, accettata dalla Grande Camera della Corte europea.
La sentenza Perinçek contro Svizzera risulta di particolare interesse, in quanto la soluzione si discosta nettamente da quella del processo Francia contro Garaudy del 2003, nella quale la stessa Corte europea dei diritti umani aveva affermato la legittimità dell'incriminazione della negazione dell’olocausto del popolo ebraico. Si può forse stabilire una gerarchia fra i due maggiori genocidi del XX secolo, applicandovi soluzioni così diverse? Si tratta di un terreno evidentemente impervio, nel quale la politica rischia di giocare un ruolo determinante.
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