Migliaia di donne, durante i conflitti nei Balcani, hanno subito reati sessuali. La maggior parte di loro non riceve alcun sostegno da parte degli stati della regione, nonostante i progressi segnati dal diritto penale internazionale nel perseguimento di questi crimini
Questo articolo uscirà nell'edizione 2014 dell' "Atlante delle guerre e dei conflitti del mondo", realizzato dall'Associazione 46° Parallelo e distribuito nelle librerie da AAM Terranuova. Lo pubblichiamo oggi, in occasione della "Giornata internazionale per l'eliminazione della violenza contro le donne" istituita dall'Onu il 17 dicembre 1999 con la risoluzione 54/134. La data è stata scelta in memoria delle tre sorelle Mirabal, attiviste politiche dominicane brutalmente assassinate il 25 novembre del 1960.
“Non potevo fare nulla, lì sdraiata mentre mi violentavano, non avevo alcuna possibilità di difendermi…” Aula del Tribunale Penale Internazionale per la ex Jugoslavia (TPI), L'Aja. La donna dai capelli scuri piegata sul microfono del banco dei testimoni, apre il documentario Sexual Violence and the Triumph of Justice, prodotto nel 2012 dal Tribunale.
E' una delle migliaia di donne che, durante il conflitto in Bosnia Erzegovina negli anni '90, hanno subito stupro, deportazione e lunga prigionia. Secondo diverse fonti, le donne vittime di stupro nel periodo 1992-1995 sarebbero state tra le 20 e le 25mila, per la maggior parte musulmane.Un dato difficile da stabilire con esattezza, perché molte donne non hanno mai denunciato pubblicamente la violenza subìta.
Fin dall'inizio della guerra cominciarono ad emergere, attraverso le testimonianze raccolte da organizzazioni internazionali, notizie di civili sottoposti a violenze e stupro sistematico. Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite costituì una Commissione di esperti (detta "Biassouni", dal nome del presidente) che da ottobre 1992 analizzò oltre 40mila documenti, prove e testimonianze.
I risultati spinsero il Consiglio a istituire nel '93 il Tribunale Penale Internazionale dell'Aja per l'ex Jugoslavia (TPI): prima corte costituita in Europa dopo la Seconda Guerra Mondiale. Dal primo processo, iniziato nel '94, fino ai giorni nostri, sono 161 i casi sottoposti a giudizio per violazione delle Convenzioni di Ginevra, crimini contro l'umanità, genocidio, violazione delle consuetudini e delle leggi di guerra. Il dato significativo è che il TPI ha perseguito in maniera specifica i reati di stupro e riduzione in schiavitù sessuale in quanto crimini contro l'umanità. Un orientamento che poi stato è confermato dalla giurisprudenza internazionale e inserito nell'art. 7 dello Statuto di Roma della nuova Corte Penale Internazionale nel '98.
Non solo. Nel corso della guerra in Bosnia Erzegovina, lo stupro è stato utilizzato come strumento specifico di terrore all'interno delle campagne di pulizia etnica. La prima conferma la si ebbe con il verdetto dei giudici dell'Aja il 22 febbraio 2001 per i fatti di Foča, una delle cittadine bosniache più segnate sulla mappa dell'orrore disegnata dalle forze militari serbo-bosniache: Zoran Vukoviċ, Radomir Kovač e Dragoljub Kunarac, furono i primi ad essere condannati rispettivamente a 12, 20 e 28 anni di carcere. Accusati di crimini di guerra e crimini contro l'umanità, vennero giudicati colpevoli di stupro nei confronti di decine di donne e ragazze, tra le quali minorenni.
Secondo il rapporto di Amnesty International del 2001"Bosnia-Herzegovina: Foca verdict - rape and sexual enslavement are crimes against humanity", questo verdetto ha rappresentato un evento di importanza fondamentale sul piano della difesa dei diritti umani delle donne: vengono riconosciuti lo stupro e la riduzione in schiavitù sessuale quali crimini contro l'umanità, contrastando la teoria per cui la tortura delle donne è un fattore "intrinseco" alle guerre. Il verdetto ha riconosciuto inoltre che lo stupro subito dalle donne imprigionate era parte di un piano sistematico e su larga scala di attacco alla popolazione civile.
Dal 2005 il Tribunale Internazionale cominciò a trasferire sempre più processi dall'Aja alle Corti locali. Molti casi finirono davanti alla Corte di Sarajevo, costituita per giudicare i crimini più gravi commessi durante il conflitto. E' proprio qui che uno dei primi verdetti fece discutere. Milan e Sredoje Lukić vennero riconosciuti colpevoli di numerosi crimini commessi nella regione di Višegrad tra il '92 e il '94. Dei 21.000 abitanti di Višegrad, prima della guerra, due terzi erano bosgnacchi (bosniaco musulmani), e più di 13.500 di loro furono costretti a lasciare le proprie case. La condanna, rispettivamente all'ergastolo e a 30 anni di reclusione, provocò forti proteste tra le associazioni di donne vittime di guerra: pur essendo emerso durante il processo che gli imputati erano responsabili di violenze sessuali, non comparendo tale crimine negli atti di accusa non vennero per questo condannati. Sono le donne che fuori dalle aule si battono perché venga riconosciuto il reato di cui sono state vittime. Nei tanti processi per crimini di guerra che si sono perseguiti fino ad oggi nelle Corti locali - in Bosnia come in Croazia e Serbia – è emerso anche un altro tipo di coinvolgimento delle donne in guerra: nel ruolo di carnefici.
Il primo, e unico, caso di donna perseguita dal Tribunale dell'Aja era stato quello di Biljana Plavšić, che tra il '96 e il '98 era presidente della Republika Srpska, una delle due Entità della Bosnia Erzegovina. Venne messa sotto processo per genocidio, crimini contro l'umanità e crimini di guerra. Dato che si costituì volontariamente, patteggiando poi con il Tribunale e dichiarandosi colpevole di crimini contro l'umanità, il Tribunale lasciò cadere l'imputazione di genocidio. Il 27 febbraio 2003 venne condannata a 11 anni di prigionia. Nelle Corti locali invece, stanno emergendo sempre di più casi a carico di donne, non solo in Bosnia Erzegovina.
La prima condanna a carico di una donna presso una Corte locale venne infatti comminata dalla Procura speciale di Belgrado il 12 dicembre del 2005. Nada Kalaba venne condannata a 9 anni di reclusione per aver partecipato ai crimini commessi nella fattoria di Ovčara presso Vukovar nel novembre del 1991, quando in una notte furono maltrattati e uccisi circa 200 prigionieri di guerra croati. In Bosnia Erzegovina, il primato viene raggiunto nel 2012: Rasema Handanović, detta Zolja (Vespa), estradata a fine 2011 dagli Usa, viene processata presso la Corte di Sarajevo per crimini perpetrati su civili croato-bosniaci e soldati prigionieri nel villaggio di Trusini nel 1993, quando faceva parte di un'unità speciale dell'Armija Bih (esercito bosniaco-musulmano). Nell'aprile 2012 viene condannata in primo appello a 5 anni e mezzo di carcere.
Una seconda condanna al femminile viene emessa alla fine dello stesso anno a carico di Albina Terzić, detta "Nina". Durante la guerra era arruolata nell'HVO (forza militare croato-bosniaca) e aveva partecipato a atti disumani nei confronti di prigionieri serbo-bosniaci ad Odžak, in Bosnia Erzegovina, tra maggio e luglio del '92.
Nell'arco del 2012 la Corte di Sarajevo ha condannato 30 persone ad un totale di 483 anni e mezzo di carcere, mentre ha emesso 23 nuovi mandati di accusa di cui alcuni a carico di donne. Come Azra Bašić, arrestata nel marzo 2012 negli Usa e che durante la guerra era arruolata nell'esercito croato. L'accusa è di aver perpetrato crimini di guerra su civili serbo-bosniaci nella primavera del '92, nel campo di concentramento vicino alla città bosniaca di Derventa.
Alcune donne carnefici non cambiano però la sostanza: migliaia di donne sono state vittime. Secondo le numerose associazioni di queste ultime, infatti, il ricorso sistematico alla violenza sessuale ha portato a ridefinire l'intero conflitto come una guerra che è stata, ancor prima che contro gruppi etnici, contro le donne. Una guerra che prosegue in tempo di pace: nella maggioranza dei paesi dei Balcani non esiste alcun riconoscimento giuridico delle vittime di stupro in guerra e quindi alcun sostegno sociale ed economico.
Questa pubblicazione è stata prodotta con il contributo dell'Unione Europea. La responsabilità sui contenuti di questa pubblicazione è di Osservatorio Balcani e Caucaso e non riflette in alcun modo l'opinione dell'Unione Europea. Vai alla pagina del progetto Racconta l'Europa all'Europa.
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