Una ricerca condotta dal portale BIRN mostra che la violenza di genere online nei Balcani è in aumento e ancora troppo spesso resta del tutto impunita. La violenza online mira a zittire le donne, a limitare il loro diritto di esprimersi liberamente senza paura di ritorsioni e a dissuaderle dal partecipare, utilizzando mezzi digitali, alla vita politica, sociale e culturale
(Originariamente pubblicato da Balkan Insight , l’11 maggio 2022)
Nonostante gli atti di violenza perpetrati attraverso mezzi digitali colpiscano sia gli uomini che le donne, la violenza online non è quasi mai un fenomeno neutro dal punto di vista del genere. Nella maggior parte dei casi si tratta di forme di violenza basate sul genere, perlopiù dirette contro le donne e le ragazze.
Anche quando hanno accesso a Internet e riescono ad utilizzarlo, le donne e le ragazze in tutto il mondo devono riflettere bene su cosa dire e come dirlo, ma anche su come scegliere con chi interagire, tenendo conto delle innumerevoli forme di violenza che ci attendono in agguato ad ogni angolo nel mondo virtuale, così come in quello reale.
Il progresso tecnologico ha reso possibile il proliferare di varie forme di violenza contro le donne che prescindono dalla distanza, dalle barriere e dal contatto fisico, portando così all’aumento della violenza di genere online, che sembra ormai più frequente rispetto a quella offline. Oggi ognuno può compiere atti di violenza e di intimidazione senza nemmeno dover uscire di casa, nascondendosi dietro ad uno schermo, e spesso anche dietro ad un profilo anonimo, e senza dover temere conseguenze, perché chi compie violenza online raramente si trova costretto ad assumersi la responsabilità delle proprie azioni.
Dall’altra parte, la violenza virtuale comporta conseguenze molto tangibili per le donne e le ragazze che ne sono vittime. Questo tipo di violenza incide fortemente su vari aspetti della vita delle donne, compresa la sicurezza personale, la salute fisica e mentale, la reputazione e la dignità. Oltre ai gravi danni e sofferenze psicologiche, gli atti di violenza perpetrati online comportano anche conseguenze negative per la salute fisica e sessuale delle vittime, ma anche diverse conseguenze economiche: la violenza online mira a zittire le donne, a limitare il loro diritto di esprimersi liberamente senza paura di ritorsioni e a dissuaderle dal partecipare, utilizzando mezzi digitali, alla vita politica, sociale e culturale. Le donne vittime di violenza online spesso finiscono per abbandonare Internet, isolandosi dalla società.
Gli effetti negativi della violenza online contro le donne e le ragazze vanno quindi ben oltre la questione di sicurezza, in ultima analisi impedendo alle donne e alle ragazze di godere pienamente dei loro diritti, ostacolando così il raggiungimento dell’uguaglianza di genere.
La violenza online contro le donne può assumere molteplici forme, dagli atti di molestia e intimidazione ai reati gravi, quali stalking (atti persecutori), stupro virtuale e minacce di morte. Se da un lato è vero che la maggior parte delle persone ha sentito parlare di “doxing”, “trolling”, “sextortion” e “revenge porn”, pur non sapendo sempre come spiegare questi termini, è altrettanto vero – come hanno dimostrato alcune ricerche – che oltre la metà delle donne e delle ragazze che utilizzano Internet ha subito diverse forme di violenza online, comprese quelle sopracitate. Anche nei Balcani le donne e le ragazze sono esposte a varie forme digitali di violenza di genere, tuttavia mancano ancora studi e statistiche approfondite sulla situazione nella regione.
Avendo notato la mancanza dei dati specifici sulla violenza di genere nei paesi dei Balcani, all’interno di una più ampia iniziativa di monitoraggio del rispetto dei diritti digitali nell’Europa centrale e sudorientale (Digital Rights Monitoring Database ) abbiamo analizzato trentacinque casi di violenza di genere online verificatisi tra gennaio 2021 e marzo 2022 in Albania, Bosnia Erzegovina, Kosovo, Montenegro, Macedonia del Nord e Serbia.
Dall’analisi sono emerse alcune tendenze e forme prevalenti di violenza di genere online che contribuiscono all’acuirsi delle discriminazioni contro le donne e le ragazze, ostacolandole nell’esercizio dei loro diritti. Tuttavia, i casi analizzati non forniscono un quadro completo del fenomeno della violenza di genere nei Balcani , rappresentano solo un piccolo tassello del puzzle che ci aiuta a comprendere meglio le tendenze in atto e a individuare possibili soluzioni.
I casi analizzati rivelano sei principali forme di violenza digitale:
- attacchi online accompagnati da palesi espressioni di incitamento all’odio
- attacchi online che fanno seguito alla violenza domestica
- attacchi online che sfociano in violenza fisica
- attacchi online che comprendono il reato di violazione della privacy o sfociano in tale reato
- attacchi online contro alcune categorie di donne pubblicamente esposte, in particolare contro le giornaliste e le donne impegnate in politica
- attacchi online contro alcuni gruppi vulnerabili, in primis contro le minoranze, i migranti e i membri della comunità LGBTQ
Diritto di avere e di esprimere una propria opinione vs. diritto di vivere liberi dalla violenza
Oltre la metà dei casi documentati gli atti di molestia verbale contro le donne si intrecciano con commenti sessisti, misogini, umilianti e denigratori, e con insulti e minacce, comprese le minacce di violenza (fisica e sessuale), di stupro e di morte, nonché varie forme di incitamento alla violenza.
I fattori scatenanti della violenza online contro le donne sono molteplici. A volte però gli atti di violenza digitale si verificano senza un chiaro motivo: alcuni utenti dei social media ritengono di avere il diritto di condividere contenuti e commenti sessisti, misogini e pieni di odio contro le donne, e istigano altre persone a partecipare a tali campagne denigratorie.
Ad esempio, in Macedonia del Nord una donna è diventata bersaglio di una valanga di commenti sessisti e misogini dopo la pubblicazione di un articolo che parlava della sua passione per la lettura. Un portale aveva riportato la notizia secondo cui la donna in questione leggerebbe circa 438 libri all’anno, suscitando un’ondata di commenti pieni di odio e derisori nei confronti della donna, commenti che, tra l’altro, mettevano in dubbio la sua capacità di essere madre e i suoi risultati professionali, prendendo di mira anche la sua famiglia. La maggior parte dei commenti è stata pubblicata su Facebook, nella sezione dedicata ai commenti su alcune pagine su cui l’articolo in questione è stato condiviso. I commenti non sono mai stati cancellati, nonostante violino palesemente le regole di Facebook relative all’incitamento all'odio .
Capita molto spesso che i portali web alimentino discriminazione e incitino alla violenza contro le donne pubblicando contenuti misogini, sessisti e degradanti nei confronti delle donne. Molti media, dai tabloid ai media mainstream, espongono le donne e le ragazze alla violenza e alla discriminazione, non solo con le parole, ma anche attraverso immagini. I motivi di questo fenomeno vanno ricercati nella logica del clickbait e nella mancanza di adeguati standard etici, ma anche nella scarsa (auto)regolazione dei giornalisti.
Dei trentacinque casi che abbiamo analizzato due riguardano proprio questo tipo di violenza online. Alcuni portali in Bosnia Erzegovina hanno pubblicato una serie di articoli in cui la questione dell’aspetto fisico delle donne viene affrontata utilizzando un linguaggio sessista, con chiari elementi del cosiddetto "age shaming" (discriminazione in base all’età). Questi articoli hanno provocato ulteriori violenze contro le donne, scatenando un’ondata di discorsi stigmatizzanti e discriminatori, derisioni e molestie verbali messe in atto dagli utenti dei social che hanno commentato i controversi articoli. Né i portali su cui sono stati originariamente pubblicati gli articoli in questione né i social media su cui sono apparsi i commenti di cui sopra hanno ritenuto opportuno cancellare i contenuti offensivi, violando così gli standard deontologici della professione giornalistica e le regole di comportamento sui social.
I due casi sopra descritti non rappresentano un fenomeno isolato nel panorama mediatico della Bosnia Erzegovina. La tendenza dei media a pubblicare contenuti misogini e sessisti, che poi diventano virali sui social, provocando una valanga di commenti pieni di odio, è molto diffusa anche in altri paesi della regione, dove – esattamente come in Bosnia Erzegovina – né il mondo dei media né le grandi aziende tecnologiche sembrano intenzionate ad affrontare la questione.
La violenza di genere online come un’estensione della violenza domestica
In molti casi, la violenza digitale rappresenta un’estensione della violenza domestica commessa da un partner intimo. Molto spesso la violenza domestica costituisce un fattore che facilita il verificarsi di attacchi online e atti di violenza basata sul genere. In Bosnia Erzegovina, ad esempio, alcune notizie riguardanti il femminicidio e le denunce di stupro hanno suscitato molti commenti misogini e offensivi, alcuni particolarmente sconcertanti in quanto finalizzati a incolpare e denigrare le vittime, sostenendo che le vittime “meritavano quanto accaduto”.
Tali commenti rispecchiano l’atteggiamento prevalente nei confronti delle vittime di violenza domestica e di abusi sessuali nei paesi dei Balcani. Questa situazione spinge le donne a ricorrere a una sorta di autocensura, astenendosi dal parlare della violenza subita per il timore di scontrarsi con i pregiudizi e di danneggiare la propria reputazione.
In molti casi, la violenza sui social è provocata dal modo i cui i media parlano di violenza domestica contro le donne e le ragazze. Un'inchiesta realizzata da BIRN ha dimostrato che i media in Macedonia del Nord tendono a parlare di violenza di genere con toni sensazionalistici e a colpevolizzare le vittime. Stando ad una ricerca condotta da un gruppo di giornaliste impegnate nella lotta contro la violenza sulle donne, in Serbia il 27% degli articoli incentrati sul fenomeno della violenza domestica parlano delle vittime utilizzando espressioni stereotipate e toni sensazionalistici. La stessa ricerca ha dimostrato che l’identità delle vittime è stata rivelata in circa il 40% degli articoli. Capita spesso che dopo la rivelazione dell’identità delle vittime queste ultime diventino bersaglio di attacchi sui social media.
Tuttavia, in alcuni paesi dei Balcani, come Albania, Kosovo e Montenegro , i casi di violenza domestica, e gli attacchi online che ne sono seguiti, hanno suscitato proteste in difesa delle vittime, accompagnate da appelli rivolti ai governi affinché adottassero una normativa più stringente in materia di tutela delle vittime di violenza.
Quando la violenza online si sposta nel mondo reale
Il diritto di avere ed esprimere la propria opinione vale anche per le idee che qualcuno potrebbe giudicare offensive o negative. Non si tratta però di un diritto illimitato. L’incitamento all’odio, alle azioni ostili o alla discriminazione non può essere giustificato invocando il diritto di esprimersi liberamente. Le parole e altre forme di espressione possono sfociare in violenza fisica contro le persone bersagliate dai discorsi d’odio. A differenza degli atti di violenza compiuti nel mondo “reale”, la violenza perpetrata nell’ambiente digitale viene considerata da molti, spesso anche dalle forze dell’ordine, un fenomeno “non reale”, che non comporta danni “reali”. Questo è sicuramente l’atteggiamento prevalente per quanto riguarda le minacce di attacchi fisici perpetrate online. La violenza online non rimane però confinata dietro ad uno schermo. Che molti casi di violenza online finiscano per riversarsi nel mondo reale lo dimostra un episodio verificatosi in Serbia, dove un uomo, prima di aggredire fisicamente una donna che lavorava in una palestra, l’ha bersagliata con minacce online, persino annunciando sui social di volerla aggredire.
Inoltre, un caso in cui la notizia di un’azione illecita compiuta nel mondo reale è stata diffusa online, in modo da provocare ulteriori danni e sofferenza alla vittima, dimostra come le forme di violenza online e offline spesso risultino intrecciate e interdipendenti.
In un altro caso registrato in Serbia, un uomo è stato denunciato alla polizia per aver fotografato di nascosto una donna mentre si stava spogliando, per poi pubblicare le foto scattate online. Così facendo, oltre a violare il diritto alla privacy della vittima e a sottoporla ad una forma di violenza di genere nel mondo reale, l’uomo ha anche contribuito al perpetuarsi delle violazioni nell’ambito digitale.
Un altro aspetto importante riguarda l’esistenza di una stretta correlazione tra violenza online e traffico di esseri umani, che ha contribuito all’acuirsi del fenomeno del cosiddetto cyber-trafficking delle donne, soprattutto durante la pandemia da Covid-19. Stando ad una ricerca realizzata dall’organizzazione non governativa “Atina” con sede a Belgrado, basata su 178 interviste con donne che negli ultimi cinque anni hanno ricevuto una qualche forma di sostegno dall’ong serba, oltre il 42% delle donne vittime di traffico di esseri umani ha subito anche varie forme di violenza online, dal cyberbullismo alla diffusione online di dati personali, passando per tutta una serie di molestie online (cyberstalking, catfishing, hacking, doxing) finalizzate a danneggiare pubblicamente e denigrare le vittime. Il 32% delle donne intervistate ha dichiarato che le molestie subite online erano direttamente legate al traffico di esseri umani.
La condivisione di contenuti espliciti e la violazione della privacy
La violenza online contro le donne viene spesso perpetrata attraverso azioni di manipolazione e condivisione non consensuale di informazioni e contenuti personali, compresi contenuti espliciti e immagini ritoccate con Photoshop con l’intento di umiliare e stigmatizzare le donne.
In Bosnia Erzegovina , un fotomontaggio raffigurante il corpo nudo di un’artista è stato condiviso online, accompagnato da insulti sessisti e misogini, arrivati non solo dalla persona che ha creato il fotomontaggio, ma anche dai suoi numerosi follower.
Un’altra forma di violenza di genere online, la cosiddetta sextortion, consiste nell’utilizzo di mezzi digitali per ricattare la persona presa di mira. Di solito la vittima viene ricattata con la minaccia di diffusione di sue fotografie o altri contenuti intimi, allo scopo di ottenere altri contenuti espliciti o di avere un rapporto sessuale con la vittima. Questa forma di violenza online è stata registrata anche nei Balcani, come dimostra un episodio accaduto in Bosnia Erzegovina, dove un uomo è stato denunciato per “ricatto sessuale” dopo aver molestato una donna per molto tempo, mandandole messaggi offensivi e minacciando di diffondere alcune sue foto sessualmente esplicite qualora dovesse rifiutare di avere una relazione con lui.
Una tendenza particolarmente preoccupante registrata nei paesi dei Balcani riguarda la diffusione di immagini e video espliciti e di dati personali delle donne sui social media, attraverso varie applicazioni di messaggistica e all’interno di gruppi segreti sul web.
Recentemente, in Macedonia del Nord è stato riattivato un gruppo Telegram dove gli utenti pubblicano e condividono contenuti sessualmente espliciti raffiguranti donne e ragazze. Oltre alle fotografie, gli utenti condividono anche indirizzi e numeri di telefono delle vittime, molte delle quali minorenni. Un caso simile è stato registrato anche in Serbia, dove sono state intercettate alcune chat di gruppo in cui venivano condivisi video e immagini esplicite delle donne, cercando servizi sessuali. Tali atti non solo violano il diritto alla privacy di donne e ragazze i cui dati personali vengono condivisi, ma rappresentano anche una minaccia diretta alla loro sicurezza.
Le donne impegnate in politica come uno dei principali bersagli
Alcune categorie di donne sono più esposte alla violenza online a causa del ruolo ricoperto nella società. Dalla nostra ricerca è emerso che ad essere sempre più spesso vittime di minacce e intimidazioni online sono soprattutto le donne politicamente impegnate, le giornaliste e le attiviste per la difesa dei diritti umani.
Un'altra inchiesta condotta da BIRN ha dimostrato che nei Balcani le giornaliste subiscono quotidianamente varie forme di violenza online. Tuttavia, solo poche giornaliste ritengono utile denunciare tali fatti al proprio datore di lavoro o alla polizia, considerando la perdurante incapacità delle istituzioni di punire i perpetratori.
Ai fini della presente ricerca abbiamo analizzato il fenomeno della violenza contro una delle categorie di donne maggiormente esposte alle minacce online, ossia le donne impegnate in politica. Molto spesso le donne impegnate politicamente sono vittime di minacce online basate sul genere e caratterizzate dall’utilizzo di un linguaggio misogino. Questo tipo di violenza contribuisce ad un’ulteriore istituzionalizzazione delle norme patriarcali, come dimostra il fatto che la maggior parte dei leader politici nei Balcani è di sesso maschile.
In Montenegro tre donne membri del Partito democratico dei socialisti (DPS) – Drita Llolla, Amina Brahić e Nina Perunović – sono state insultate ed esposte a molestie sessuali online da parte di un utente di Twitter. Un caso simile è quello di Draginja Vuksanović Stanković, membro di un partito di opposizione, bersagliata da minacce di aggressione fisica e discorsi d’odio da parte di un utente di Facebook. In entrambi i casi i social media hanno deciso di non condannare il linguaggio d’odio contro le donne.
In molti casi di violenza online contro le donne politicamente impegnate sono i loro colleghi uomini a perpetrare gli abusi, rinsaldando così le dinamiche di potere che dominano la scena politica dei Balcani, dove la maggior parte delle cariche politiche di rilievo è ricoperta da uomini. Ad esempio, in Bosnia Erzegovina, Vojin Mijatović, esponente di spicco del Partito socialdemocratico (SDP), ha rivolto insulti sessisti a Sabina Čudić, membro di Naša stranka (NS), per poi ripeterli sul suo profilo Facebook. Un altro caso simile riguarda il sindaco di Zenica Fuad Kasumović che, commentando un discorso di Emina Tufekčić, membro del consiglio comunale di Zenica, ha affermato che la donna “merita uno schiaffo per ogni parola pronunciata”. Kasumović non ha subito alcuna sanzione per il suo comportamento, anzi, la sua affermazione è diventata virale, suscitando altri commenti e minacce sessiste e misogine.
Questi casi di violenza online contro le donne in politica sono particolarmente allarmanti perché rischiano di screditare l’impegno politico delle donne, di mettere a tacere le voci femminili e di ostacolare la partecipazione delle donne ai processi democratici. Lo confermano anche alcune analisi condotte in Albania dall’ombudsman e dal commissario per la protezione dalla discriminazione, secondo cui le donne politicamente impegnate in Albania continuano ad essere vittime di discriminazioni, abusi e discorsi offensivi.
Una ricerca condotta da BIRN riguardante i media online ha dimostrato che l’ultima tornata elettorale in Albania è stata caratterizzata da un ampio ricorso ad un linguaggio sprezzante e sessista. Inoltre, le donne che hanno partecipato alle elezioni hanno ottenuto meno spazio sui media rispetto ai candidati maschi. Dalla ricerca, basata sull’analisi di circa 6900 articoli, è emerso che il 30% dei media online presi in considerazione ha compiuto qualche forma di discriminazione di genere. Solo il 15,3% delle dichiarazioni politiche pubblicate dai media albanesi durante l’ultima campagna elettorale è stato pronunciato da donne, contro l’84,7% delle dichiarazioni pronunciate da uomini.
Le forme di discriminazione intersecanti
Le donne e le ragazze esposte a forme intersecanti di discriminazione, basate su varie caratteristiche, oltre che sul genere, rappresentano un gruppo particolarmente vulnerabile. Le donne di colore e quelle appartenenti a minoranze religiose ed etniche sono spesso vittime di varie forme di violenza online in cui la violenza basata sul genere si intreccia con discorsi d’odio e commenti xenofobi, razzisti, misogini e sessisti.
Il prezzo da pagare è particolarmente alto per quelle categorie di donne che sono già esposte a pressioni e discriminazioni in quasi tutti i segmenti della vita sociale, in primis per le donne rom, le donne migranti e le persone LGBTQ. In Macedonia del Nord, alcune immagini esplicite di donne e ragazze rom sono state pubblicate su Facebook, suscitando un’ondata di insulti e commenti xenofobi e razzisti. In Bosnia Erzegovina, un portale ostile nei confronti dei migranti , Antimigrant.ba, ha riportato la testimonianza di una donna afghana molestata sessualmente da un agente della polizia di frontiera croata. La testimonianza è stata originariamente pubblicata dal Guardian, ma il portale bosniaco ha riportato una versione distorta della storia, riempiendola di commenti misogini, sessisti, xenofobi e razzisti. Il responsabile del portale, Fatmir Alispahić, è stato accusato di incitamento all’odio attraverso la diffusione di contenuti testuali, fotografie e video nel periodo tra il 2019 e il 2020. Tuttavia, nel 2021 il tribunale della BiH lo ha assolto da tutte le accuse. In Albania, una rinomata attivista LGBTQ, Xheni Karaj, e altri membri dell’associazione da lei guidata, Aleanca , sono diventati bersaglio di insulti e minacce sui social media, nonché di una campagna denigratoria portata avanti da alcune testate giornalistiche.
Le cause della mancata tutela delle donne
La violenza online, compresa quella basata sul genere, è una forma di discriminazione e violazione dei diritti umani che impedisce alle donne di godere pienamente dei loro diritti, di partecipare attivamente alla vita sociale e, in ultima analisi, di raggiungere l’uguaglianza di genere.
Il nostro monitoraggio dimostra che l’aumento della violenza di genere online a cui si assiste nei Balcani è dovuto principalmente a quattro motivi: una normativa inadeguata e la scarsa efficacia delle istituzioni nel combattere le discriminazioni e i discorsi d’odio, la riluttanza delle grandi aziende tecnologiche ad applicare le proprie regole riguardanti la violenza digitale, la tendenza dei media ad alimentare stereotipi di genere, evitando, al contempo, di sanzionare il mancato rispetto delle norme etiche e deontologiche della professione giornalistica; le norme patriarcali, profondamente radicate nella società, che legittimano e normalizzano la violenza e le discriminazioni contro le donne.
Le autorità dei paesi dei Balcani sono obbligate a combattere ogni forma di discriminazione contro le donne, compresa la violenza online, e a tutelare i diritti delle donne, compreso il diritto ad una vita libera dalla violenza. Inoltre, gli stati hanno l’obbligo di prevenire, investigare e sanzionare ogni atto di violenza contro le donne e le ragazze.
Nonostante questi obblighi previsti dalla legge, molti paesi balcanici dispongono di una normativa inadeguata ad affrontare e combattere la violenza online e a sanzionare chi la perpetra. Le leggi nazionali non contengono disposizioni che regolamentino esplicitamente il fenomeno della violenza di genere online. Considerando la portata di questo fenomeno e il suo impatto negativo sui diritti umani, sull’uguaglianza di genere e sulla partecipazione delle donne alla vita sociale, è di cruciale importanza che gli stati adottino leggi specifiche o che modifichino quelle esistenti in modo da poter contrastare e prevenire la violenza di genere online in tutte le sue forme. Particolare attenzione dovrebbe essere rivolta al quadro normativo in materia di violenza contro le donne e uguaglianza di genere, comprese le leggi sulla famiglia e sulla violenza domestica, nonché i codici penali.
Anche quando decidono di affrontare la violenza di genere, le istituzioni si dimostrano poco efficaci . La criminalizzazione della violenza online contro le donne e le ragazze è di fondamentale importanza per porre un freno a questo fenomeno. Gli stati dovrebbero criminalizzare tutti gli aspetti e le forme di violenza online, compresa la ricondivisione di contenuti offensivi. Le leggi dei paesi presi in considerazione dalla nostra analisi non contengono alcuna disposizione che affronti il fenomeno del linguaggio d’odio online. Il mancato riferimento ai reati “online” o “facilitati da Internet” non dovrebbe dissuadere le autorità competenti dal combattere i discorsi d’odio online facendo ricorso alle leggi esistenti.
Pur disponendo di un quadro giuridico e istituzionale piuttosto solido per quanto riguarda il contrasto ai discorsi d’odio, i paesi balcanici si sono dimostrati poco efficaci nell’applicarlo in pratica. Il numero di incidenti sanzionati legati all’utilizzo del linguaggio d’odio è estremamente basso, anche quando si tratta di episodi avvenuti in “un ambiente offline”. Stando ad una ricerca condotta dall’Iniziativa dei giovani in Bosnia Erzegovina, in collaborazione con Global Analytics, nell’ambito del progetto Suppressing Hate Speech Through Empowerment of Youth , nel periodo compreso tra il 2015 e il 2020 in Bosnia Erzegovina sono state emesse solo tredici sentenze riguardanti i discorsi d’odio, e questo nonostante i dati dimostrino che il fenomeno dell’hate speech è in costante aumento nel paese. Un altro aspetto problematico riguarda il fatto che anche laddove esistono le leggi che affrontano questo fenomeno, vengono applicate solo ad alcune forme di linguaggio d’odio, evitando di affrontare quelle basate sul genere. Eppure, il monitoraggio di BIRN dimostra che sono proprio le donne e le ragazze ad essere sempre più esposte a discorsi d’odio e discriminazioni basate sul genere. Considerando il fatto che le autorità sono tenute a tutelare i diritti delle donne e a combattere ogni forma di discriminazione, dovrebbero interpretare e implementare le leggi alla luce delle tendenze contemporanee, tenendo conto dei problemi con cui le donne e le ragazze nei Balcani devono fare i conti, compresa la violenza di genere e il linguaggio d’odio.
Oltre alla mancanza di un quadro normativo adeguato e alla scarsa applicazione delle leggi esistenti, ci sono anche altri aspetti problematici. Uno dei principali ostacoli nella lotta alla violenza di genere online è una percezione diffusa secondo cui la violenza online rappresenterebbe una lieve infrazione, tale da non poter arrecare gravi danni alle vittime. Tale percezione non fa altro che consolidare la cultura dell’impunità, comportando terribili conseguenze. Così si invia un chiaro messaggio ai perpetratori di violenza online, che non devono temere alcuna conseguenza legale, contribuendo a perpetuare la violenza di genere.
Nessuna sorpresa quindi se le vittime – impaurite, sopraffatte da un senso di impotenza, avendo perso la fiducia nelle istituzioni – decidono di non parlare, di non utilizzare più Internet, ma anche di ritirarsi dallo spazio pubblico, temendo conseguenze se dovessero esporsi pubblicamente. Tale comportamento, in ultima analisi, contribuisce a esacerbare le disuguaglianze di genere e la stigmatizzazione delle donne nei Balcani, a maggior ragione nelle società patriarcali dove le donne sono tradizionalmente marginalizzate ed escluse dalla vita pubblica, mentre gli uomini continuano a imporre narrazioni dominanti. Le società patriarcali privilegiano gli uomini, come dimostrano le tornate elettorali che continuano ad essere dominate da candidati di sesso maschile, e quindi caratterizzate da un forte divario di genere. Lo stesso vale per le istituzioni.
Anche i media danno più spazio ai candidati maschi. Ma non finisce qui. I media spesso amplificano la violenza contro le donne pubblicando articoli che alimentano atteggiamenti sessisti e misogini, diffondendo i dati personali delle vittime di violenza basata sul genere, compresa la violenza domestica e quella sessuale, e prendendo di mira persone vulnerabili solo perché appartengono a determinati gruppi sociali. Pur essendo previsti dal codice deontologico della professione giornalistica, i meccanismi di autoregolazione dei media non sono stati implementati in modo da poter sanzionare efficacemente il giornalismo poco professionale.
L’acuirsi della violenza digitale è dovuto anche a fattori esterni ai paesi dei Balcani. I social media contribuiscono in larga misura a facilitare la violenza digitale contro le donne. Questo vale soprattutto per Facebook e Twitter che hanno fallito nell’adempiere ai propri obblighi in materia di protezione dei diritti delle donne, evitando di indagare in modo trasparente sulle segnalazioni di abusi e violenze online, spingendo così molte donne ad autocensurarsi e persino a non esprimere alcuna opinione sui social.
Facebook dispone di una politica ben ideata volta a regolamentare il fenomeno dei discorsi d’odio, comprese le sanzioni per la diffusione di contenuti inneggianti all’odio. In pratica però molti moderatori di Facebook chiudono un occhio di fronte alle violazioni delle regole relative ai discorsi d’odio compiute nei Balcani. Questo in parte è dovuto al fatto che l’azienda dispone di pochi content manager che conoscono le lingue parlate nei paesi balcanici, e quindi si affida agli algoritmi.
L’anno scorso, interpellati dai giornalisti di BIRN , alcuni rappresentanti di Facebook hanno affermato di affidarsi principalmente all’intelligenza artificiale per individuare contenuti che violano le norme sui discorsi d’odio su Facebook e Instagram, precisando che alcuni contenuti vengono bloccati in automatico. Secondo i rappresentanti di Facebook, l’azienda impiega anche “revisori che hanno il compito di vagliare e contrassegnare contenuti specifici, soprattutto quando la tecnologia si dimostra poco efficace nel comprendere il contesto [in cui va inserito un contenuto], le intenzioni o le motivazioni” del suo autore.
L’inchiesta di BIRN dimostra che gli strumenti utilizzati dai giganti dei social per far rispettare le proprie regole sono decisamente inefficaci: i post e gli account che violano le regole sui discorsi d’odio spesso rimangono disponibili anche dopo l’accertamento definitivo delle violazioni, mentre alcuni contenuti che rispettano le regole vengono cancellati senza fornire alcuna chiara spiegazione. Quasi la metà delle segnalazioni arrivate a Facebook e Twitter redatte in lingua bosniaca, serba, montenegrina o macedone riguardano i discorsi d’odio. Di tutti i post segnalati perché contenenti messaggi d’odio, minacce di violenza o linguaggio intimidatorio, circa metà non viene mai cancellata. Più precisamente, viene cancellato il 60% dei contenuti con minacce di violenza e il 50% dei contenuti intimidatori.
Qualsiasi tentativo di distinguere tra forte critica e diffamazione, ossia tra idee politiche radicali ed espressioni di odio, razzismo e incitamento alla violenza richiede un’analisi contestuale e sfaccettata. In assenza di tali analisi, le palesi violazioni delle regole di comportamento degli utenti dei social continueranno a verificarsi, permettendo così non solo di evitare la rimozione di contenuti offensivi e violenti, ma anche di moltiplicarli.
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