Negli ultimi anni la violenza di genere online all’interno dell’area balcanica è aumentata ed è rimasta quasi sempre impunita. In questa situazione, le attiviste hanno cominciato ad organizzarsi per creare degli spazi di resistenza e combattere la violenza digitale
Scrivi "Marina da Belgrado" su Pornhub, le disse il suo ex un anno dopo la rottura della loro relazione. Marina ricorda ancora la paura e la confusione dopo aver visto il prodotto della ricerca: il suo mondo era collassato all'improvviso. Da allora, anche se il video è stato tolto dalla piattaforma, vive con il terrore che ricompaia. “Mi ricorda quanto ero, o sono, impotente” ha raccontato a Balkan Insight.
La violenza che ha subito Marina da parte del suo ex fidanzato si definisce revenge porn o “abuso sessuale basato sull’immagine” e consiste nella diffusione di contenuti intimi senza consenso su piattaforme online, siti porno o gruppi di Telegram. Come l’accezione “revenge” suggerisce, spesso questa violenza viene compiuta con fini vendicativi e con l’intento di umiliare e mortificare la vittima. Nei Balcani il caso di Marina non è un caso isolato. Solo in Serbia, il Balkan Investigative Reporting Network (BIRN) stima che esistano almeno 16 gruppi di telegram in cui vengono condivisi, anche quotidianamente, immagini e video senza consenso. Secondo i dati, il più grande di essi conterrebbe almeno 50 mila membri.
Mondo virtuale, conseguenze reali
Il revenge porn è una forma di violenza che rientra nella definizione più ampia di "violenza digitale", l'insieme delle aggressioni che avvengono nel mondo virtuale. Le violenze digitali sono insidiose, riflettono le relazioni di potere presenti nella società e colpiscono soprattutto le ragazze e le donne. Dai commenti misogini sotto le foto, alle intimidazioni e al cyberstalking, secondo alcune ricerche , più della metà delle donne che utilizza internet quotidianamente avrebbe subito almeno una forma di violenza digitale.
L’obiettivo delle violenze online è zittire, costringere al silenzio le proprie vittime tramite mortificazioni e umiliazioni. Gli aggressori online si nascondono subdolamente dietro lo schermo del computer. Sotto profili anonimi abusano della libertà d’espressione per imporre la propria volontà nel mondo sregolato della rete. Nel caso delle violenze di genere online, lo scopo è quello di ribadire la propria autorità patriarcale. Tramite la condivisione non consensuale di foto o video intimi, per mezzo di intimidazioni o semplicemente inviando continui commenti misogini e sessisti, gli aggressori vogliono mandare lo stesso messaggio: sei una donna, sei un oggetto per me, posso disporre di te e del tuo corpo come voglio.
Colpire online è facile, lo si può fare comodamente da casa con il proprio telefono. Il mondo della rete sembra quasi sollevare l’aggressore dalla propria responsabilità. In fondo basta cliccare il tasto "invia". Lo stesso non si può dire per le vittime. Online come offline, le ragazze e le donne vittime di violenza possono subire traumi psicologici, problemi all’autostima e alla propria sicurezza personale, danni alla propria reputazione e dignità. Per timore di essere esposte ad ulteriore violenza, anche nel mondo virtuale le donne cominciano ad isolarsi. Spesso preferiscono porsi ai margini e limitare la propria libertà d’espressione, autocensurandosi, pur di non essere nuovamente soggette ad aggressioni violente. Intersecandosi alla violenza nel mondo reale, le due risultano infatti collegate, anche la violenza online limita l’esercizio dei diritti e la partecipazione della componente femminile, continuando a legittimare un sistema basato sul privilegio patriarcale.
Un sistema basato sull’impunità
In Serbia non esiste una legge che punisca direttamente il revenge porn. Per far intervenire le autorità è necessario che siano presenti anche degli elementi di ricatto, molestia o stalking. Questo è valido pure in altri contesti. Spesso le legislazioni nazionali non contengono delle norme volte a regolamentare esplicitamente il fenomeno della violenza digitale. Per fare un esempio, non esiste nessuna disposizione riguardante il contrasto al linguaggio d’odio sulle piattaforme virtuali per Albania, Bosnia Erzegovina, Kosovo, Montenegro, Macedonia del Nord e Serbia.
D’altra parte, anche quando esistono delle tutele, si rivelano essere valide solo sulla carta. La risposta istituzionale è frammentaria e gli organi pubblici reagiscono in maniera troppo lenta e inefficace. Per citare un caso : nel 2020, in Macedonia del Nord fu scoperta l’esistenza di un gruppo Telegram chiamato “Public Room” in cui venivano condivise fotografie e video di nudi non consensuali, pedopornografia, dati, profili social e altre informazioni private tra centinaia di utenti. Dopo la scoperta, ci fu uno scandalo e su richiesta del ministro degli Interni macedeone, “Public Room” venne chiuso da Telegram. Da allora, non è stato preso nessun altro provvedimento: nessun membro è stato mai processato e nel frattempo l’anno successivo si era già ricreato un altro gruppo Telegram con le stesse funzioni.
In questo contesto però il problema del contrasto alla violenza di genere online non è solo una questione di carenze legislative. Le vittime si scontrano anche con un sistema patriarcale che legittima e normalizza la violenza subita. Lo si vede bene nell’approccio di alcuni media. Nei Balcani le donne sono spesso sottorappresentate all’interno dei media mainstream, i quali, nel raccontare casi di femminicidio o di violenza sessuale, utilizzano anche un approccio poco etico, caratterizzato da un linguaggio sessista e sensazionalistico, rivelando spesso l’identità della vittima, rendendola quindi maggiormente esposta ad eventuali attacchi online.
La situazione diventa ancora più grave quando la stessa logica è condivisa anche dalle autorità che dovrebbero proteggere le vittime stesse. Katarina (nome di fantasia) è una ragazza serba che è stata vittima di revenge porn. A quindici anni fu filmata dal proprio ragazzo mentre subiva una violenza sessuale in stato di incoscienza. In seguito alla rottura della relazione, lui diffuse il video su vari siti porno e gruppi telegram, assieme ai dati personali della ragazza e al suo profilo instagram. Quando Katarina si recò dalla polizia per denunciare l’avvenuto le autorità non reagirono. “Mi risposero che stavo esagerando perché [a quel tempo] eravamo ancora in una relazione” Le dissero: “È un uomo e ha i suoi bisogni.”
Legislazione carente, risposte lente e normalizzazione della violenza creano così un clima di impunità tale da far sì che, in caso di violenza, le donne non si sentano abbastanza tutelate da poter denunciare. Una situazione di impunità coadiuvata sia dal fenomeno del victim blaming, ovvero la colpevolizzazione della vittima, che avviene di frequente sui social media, sia, secondo l’attivista Valmira Rashiti del Kosovo Women’s Network, dalle istituzioni stesse. “Il victim blaming è dilagante online” spiega a Balkan Insight. “Puoi filtrare i commenti e trovare uomini che sono agenti di polizia, assistenti sociali o funzionari pubblici che istigano alla violenza e incolpano le vittime.”
Non denunciare per paura del giudizio della società. Non parlare perché si sa che non si viene ascoltate. Nei Balcani le donne vittime di violenza sono costrette ad affrontare questa realtà.
Spazi di resistenza
Per fronteggiare una situazione così cupa, negli anni molte attiviste femministe hanno cercato delle strategie per modificare lo status quo. Diverse associazioni per i diritti delle donne stanno sviluppando dei metodi per contrastare la violenza insita nel sistema patriarcale. E lentamente ci stanno riuscendo. Nelle loro mani lo spazio digitale diventa uno spazio di resistenza, un luogo in cui sfidare la violenta cultura del silenzio.
Per esempio , nel 2018 sull’ondata del movimento “Me too”, in Macedonia del Nord, molte sopravvissute ad abusi e violenze cominciarono a condividere le proprie storie utilizzando l’hashtag #ISpeakUpNow (#СегаКажуваm in macedone e #TaniTregoj in albanese) dando forza alle altre di alzare la voce. Nel 2021, l’attrice serba Milena Radulović raccontò la propria esperienza di abusi subita all’interno della scuola di recitazione. Il suo coraggio ispirò la creazione della pagina Facebook ‘Nisam tražila’ (Non l’ho chiesto) che in poco tempo raccolse più di 4000 messaggi anonimi riguardanti esperienze di violenza sessuale subite dalle donne in tutta la regione. La condivisione delle proprie storie di vita o delle esperienze subite ha creato così una comune rete di solidarietà digitale che sostiene le donne dicendo loro: io ti ascolto, non sei sola.
In questo scenario i social diventano un rifugio, uno spazio sicuro. Difatti numerosi gruppi femministi lavorano continuamente su più fronti. Da una parte si cerca di accompagnare le vittime di violenza nel loro percorso, fornendo informazioni sull’accesso ai centri d’accoglienza, sui possibili rimedi legali e organizzando iniziative e manifestazioni a loro sostegno. Dall’altra si cerca di fare prevenzione all’interno della società, alimentando il dibattito sulle questioni di genere e usando tutti i mezzi, compresi i meme, per contrastare le norme patriarcali. Così, in mano femminile, i mezzi usati come ‘strumenti di violenza’ diventano anche ‘luoghi di resistenza collettiva’, dove ad un attacco sessista si risponde con la satira.
Hai pensato a un abbonamento a OBC Transeuropa? Sosterrai il nostro lavoro e riceverai articoli in anteprima e più contenuti. Abbonati a OBCT!