Quando si parla di Balcani si nomina sempre il “futuro”. Ma chi conosce davvero le nuove generazioni? Intervista a Dafina Peci, esponente dell’Ufficio regionale per la cooperazione giovanile che ha da poco aperto la sua sede a Tirana
Dafina Peci è una ragazza albanese di ventitré anni. Ha studiato scienze politiche all’Università pubblica di Tirana, dove ha conseguito un master in studi regionali; parla un inglese fluente ma ignora l’italiano, perché è nata in Germania e perché la RAI in Albania chi la guarda più? L’abbiamo incontrata a Trieste, nel corso dei Fora della società civile che hanno preceduto il quarto summit del Processo di Berlino. Peci era là – timida e competente rappresentante di una generazione che ancora non si conosce – in qualità di membra del governing board del Regional Youth Cooperation Office (RYCO ), un’istituzione nata sull'esempio dell’Ufficio franco-tedesco per la gioventù che nel lontano 1963 De Gaulle e Adenauer inaugurarono per crescere nella reciproca conoscenza i figli e i nipoti di due guerre mondiali. Ma la riconciliazione franco-tedesca posta a fondamento dell’integrazione europea è davvero un modello replicabile nei Balcani? E quali sono gli obiettivi e le speranze di questa nuova organizzazione giovanile? Abbiamo posto queste domande a Dafina Peci, che durante i Fora triestini del giugno e del luglio scorso prendeva appunti su un futuro che in fin dei conti è il suo.
Prima di cominciare facciamo il punto. Quando e perché nasce RYCO?
RYCO nasce all’interno del Processo di Berlino, per incentivare lo scambio tra i giovani dei paesi dei Balcani occidentali. È stato lanciato a margine del Summit di Parigi dell’anno scorso, ma la sua gestazione è stata indipendente dalla politica e i suoi programmi saranno basati sull’educazione, lo sport, la ricerca, la scienza, l‘interscambio culturale. RYCO nasce per essere un promotore transnazionale di educazione formale e informale. Nello statuto dell’organizzazione si parla infatti di “contraenti” e non di “Stati”, il che è molto importante perché sebbene RYCO nasca con il consenso di governi riuniti da un processo politico, la nostra dimensione sarà diversa da quella governativa.
Per evitare di creare aspettative spropositate, mi piace sempre ricordare che RYCO è un progetto circoscritto; non siamo in RYCO per scambiare idee personali a tutto campo, ma per cominciare ad affrontare insieme i problemi che oggettivamente abbiamo in comune: l’educazione, la disoccupazione, le migrazioni, la debolezza della società civile e della democrazia sono argomenti che mettono le società insieme. E che riguardano tutta questa nuova generazione balcanica. Dobbiamo capire che siamo nelle stesse condizioni e che stiamo tutti provando a migliorare la nostra performance politica. Stiamo tutti lavorando per diventare stati membri dell’UE, questo è l’obiettivo.
Ci può aiutare a capire meglio la struttura dell’istituzione?
Basta stare allo statuto. Ogni paese è rappresentato nel governing board, il più alto organo decisionale che vota a maggioranza. Questo è composto da 13 rappresentanti, perché ogni membro esprime un rappresentante di governo (generalmente il ministro della Gioventù) e un rappresentante della società civile (la Bosnia Erzegovina ha tre rappresentanti perché ha due governi). La presidenza del board è a rotazione in ordine alfabetico: quest’anno tocca all’Albania, dunque all’attuale ministra della Gioventù Xhulieta Kertusha e alla sottoscritta; l’anno prossimo toccherà alla Bosnia. Sedi distaccate sono aperte in ogni paese, ma la sede centrale rimarrà a Tirana, al primo piano del Palazzo dei Congressi. Al momento il Segretario generale Đuro Blanuša (serbo) e il vice segretario Fatos Mustafa (kosovaro) stanno selezionando il personale degli uffici, ma in termini operativi nulla è cominciato. Il primo bando si prevede esca in autunno. Il bilancio che verrà utilizzato per finanziare i progetti provenienti dalle società balcaniche sarà coperto per metà dai paesi partecipanti e per metà dall’Unione europea.
Stiamo dunque parlando di un’organizzazione che distribuirà risorse sui progetti provenienti dalle nuove generazioni di tutte società balcaniche. Si tratta di un’idea inedita?
Ci sono altri programmi che promuovono lo scambio tra le gioventù, non è la prima volta che si affronta questo tema. La novità di RYCO risiede nell’accordo di alto livello che lo istituisce e nel framework istituzionale che lo garantisce. È un atto di impegno pronunciato dai governi e dalle organizzazioni, ratificato da 6 parlamenti nazionali. Il carattere ibrido e la combinazione di queste due componenti garantisce la sostenibilità dell’esperimento e, speriamo, la sua efficacia. Il punto centrale è che da RYCO non verrà escluso nessuno: né individui né gruppi informali, chiunque potrà trovare partner, preparare progetti e partecipare ai bandi. Dal canto suo, RYCO vaglierà le proposte e deciderà quali finanziare. Supportare scambi e progetti transnazionali: questo è il nostro lavoro. Le aree tematiche su cui verranno pubblicati i bandi saranno decise dal Segretariato una volta sentiti i pareri del governing board e degli advisory boards, composti da singoli esperti della regione.
Uno degli obiettivi, nei prossimi quattro anni, sarà quello di dare speranza a generazioni che altrimenti cercheranno individualmente l’integrazione in Europa. A dircelo sono i dati sull’emigrazione…
La migrazione è parte della nostra agenda. Avvertiamo senza dubbio la responsabilità di costruire speranza; dopodiché dobbiamo esser coscienti del fatto che ci troviamo tutti quanti all’interno di un tentativo. Stiamo provando a trovare un modo, non è che sappiamo già come fare: direi che stiamo cucinando insieme una ricetta mai tentata. Sono in ballo tanta fatica e tante aspettative, per questo io preferisco sempre la cautela, lavorare a piccoli passi, senza proclami. Dalle euforie e dalle delusioni non nasce mai nulla. Abbiamo bisogno di costanza e serietà, siamo solo all’inizio.
Va bene partire cauti, ma cos’è che la convince di RYCO? E perché ha deciso di impegnarsi in questo cammino?
La mia visuale è d’eccezione, perché sono stata nel gruppo di lavoro sin dal 2015. Ho avuto la fortuna di vedere nascere la creatura. Nella fase creativa mi sono sentita completamente libera: di pensare, elaborare e portare il mio contributo. Voglio davvero proteggere questo tipo di approccio, voglio che tutti sperimentino la buona esperienza che ho avuto io nelle fasi iniziali. Non si trova scritto da nessuna parte, ma il progetto di costruzione che ha portato all’accordo di Parigi è stato guidato da due preziose guide franco-tedesche. Hanno fatto un ottimo lavoro, ci hanno aiutato senza influenzarci. Mi riferisco a Frank Moravietz e Nicolas Moll, che desidero ringraziare, insieme al mio connazionale Bujar Luma. Se oggi RYCO esiste è anche grazie al loro contributo.
Che momento vivono le società dei Balcani? Hanno davvero dei tratti in comune? Cosa ne pensa chi ha poco più di vent’anni?
Le nostre società sono paradossali. Prendiamo l’Albania, che conosco meglio di altri casi. In genere i ragazzi albanesi sono economicamente dipendenti dalla famiglia, e questa relazione economica ne influenza il comportamento. Dopodiché, anche noi giovani condividiamo alcuni valori che in altri paesi europei sento definire “tradizionali”: come creare famiglie sin da giovani, risolvere i problemi nell’informalità, senza fare affidamento sulle istituzioni. Dall’altra parte questa generazione – “tradizionale” e come dicevo economicamente dipendente – è molto attratta dai social media e dalle nuove tecnologie che padroneggia, e di cui i genitori non sanno nulla. Quando penso al futuro davvero non riesco a immaginarmi le nuove famiglie albanesi, che avranno le gambe nel vecchio e la testa nel nuovo modo di vivere. Questa è la nostra sfida. Penso che la mia sia l’ultima generazione, quella del “distacco”. E penso che soffriremo molto per questo. Su questo punto io e i miei coetanei balcanici ci troviamo d’accordo. Ma in generale non sono a mio agio quando mi si chiede di parlare come “rappresentante generazionale” di una regione intera.
Perché? Visto il ruolo che ricopre…
Perché io so di essere un’eccezione. Mio padre è kosovaro, mia madre albanese. Sono nata in Germania, sono cresciuta lì, e poi sono tornata in Albania. Mi rendo conto che la mia percezione è plasmata dal fatto che ho potuto viaggiare molto, ascoltare cose diverse, studiare. I coetanei di altri paesi che sono con me dentro RYCO hanno anche loro una biografia d’eccezione; è normale che sia così, altrimenti non lavoreremmo qui, dove è richiesta un certa esperienza internazionale. Ma è importante ricordarsi chi si è e da quale punto di vista si parla, anche quando si ricopre un incarico istituzionale.
Lei è nata in Germania ma immagina il suo futuro nel suo paese, in Albania.
Sono tornata in Albania che ero molto piccola, e ci voglio restare. Ovviamente mi rendo conto che qui mancano tante opportunità e tante motivazioni. In Albania noi ragazzi veniamo trattati come bambini, perché è questo che abbiamo imparato nelle nostre scuole. A pensarci bene, la scuola è il primo contatto con lo Stato e con le istituzioni. Non ho imparato là ad apprezzare la bellezza del mio paese. Non ho imparato a scuola a essere critica. Non ho imparato a scuola come lavorare nella mia comunità. C’è un grande bisogno di lavorare nel sistema educativo: di inserire nei curricula materie non “classiche” come l’educazione civica e il “community building”. Noi albanesi a volte sembriamo spaventati dalla possibilità di apprezzare la nostra bellezza e di metterla a frutto in maniera collettiva. Un secondo problema che vedo, è che in Albania siamo abituati ad escluderci tra generazioni: ci sarebbe invece bisogno di un nuovo patto intergenerazionale. Infine, c’è un enorme bisogno di conoscere per davvero gli altri paesi e l’Unione europea. C’è una mancanza di informazioni non solo riguardo all’Ue, ma anche rispetto a ciò che offre. Come posso stare in contatto con un’istituzione e desiderare di accedervi se la conosco così poco? Il vero problema dei Balcani è quello di inseguire regole che non abbiamo contribuito a creare. Anche questo avrà a che fare con il lavoro di RYKO.
A Trieste si è parlato per ore di “riconciliazione”. Mi ha colpito il fatto che non sia mai stata pronunciata la parola “perdono”: una parola che in effetti non si ascolta mai, forse perché legata alla sfera etico-religiosa più che a quella politica o accademica. O forse perché nessuno, nel contesto balcanico, la sente veramente sua. Cosa pensa a riguardo, lei, che lavora per “riconciliare”?
Penso che il passato non si cambia, si capisce e si accetta. La riconciliazione implica la cattiva esperienza, che non è nemmeno detto che non si ripeta in futuro. Quando hai una cattiva esperienza qualcosa rimarrà per forza. La riconciliazione per me non riguarda la capacità di chiedere scusa, ma di guardare avanti. Ha più a che fare con l’intelligenza e con il coraggio che con il perdono. Non a caso anche in albanese esistono due parole: “perdono” è falje e “riconciliazione” è pajtim.
Non posso dire di essere d’accordo, ma trovo estremamente indicativa questa sua definizione. Gliene chiedo allora una ancora più difficile. Che cos’è per lei la “società civile”?
Più che definirla la società civile la si riconosce. Diciamo che tutto quello che non è connesso agli interessi di un partito o alla ragione di Stato per me è società civile. Tutto ciò che non è direttamente interessato al governo o alla sicurezza; l’accademia in un certo senso è cosa a parte, ma mantenendo la definizione ampia a mio giudizio rientra anch’essa nella società civile. Penso che il carattere transnazionale della società civile dei Balcani debba essere ben compreso e che si debba lavorare molto su questo concetto.
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