Interviste, articoli di analisi, video. Osservatorio ha dedicato nel corso del 2008 un ampio progetto all'industria cinematografica dei Balcani, dagli anni '70 ad oggi. Quest'articolo esce in contemporanea sulla rivista AltreStorie
Il fotoreportage sul Kinostudio di Tirana è di Andrea Pandini
Nello sforzo di plasmare l'immaginario collettivo delle rispettive società, tutti i regimi comunisti investirono grandi risorse nell'industria cinematografica. Affonda le radici in questo passato autoritario la capacità attuale del cinema balcanico di restare un settore di eccellenza, in grado di ottenere riconoscimenti all'estero e contrastare la marginalizzazione culturale e politica che la regione ha vissuto negli ultimi decenni.
Dopo la Seconda guerra mondiale, l'industria cinematografica in Albania, Bulgaria e Jugoslavia ricevette un forte impulso da parte di regimi che intendevano educare le masse ai valori a cui si ispiravano: rivoluzione, comunismo, nazione e progresso. Presero forma nuovi modelli di produzione e vennero costruite grandi infrastrutture (studi Avala e Jadran a Belgrado e Zagabria, Boyana a Sofia, Kinostudio a Tirana) che diedero vita ad una fase di grande sviluppo del cinema nella regione.
Un'analisi del complesso e sfaccettato rapporto fra industria culturale e sistema politico deve innanzitutto prendere in considerazione la questione dell'investimento strategico e del riconoscimento di un ruolo cruciale del prodotto cinematografico e dei suoi artefici da parte dei regimi comunisti:
In quel periodo il cinema aveva una rilevanza culturale e sociale ampia, e chi vi lavorava aveva la sensazione di fare qualcosa che aveva un significato, un senso, e non erano molte le cose che ce l'avevano (Srdan Koljević, regista e sceneggiatore, Serbia).
L'ampia disponibilità di mezzi garantiva a chi operava nel settore mezzi tecnici ed infrastrutture adeguati insieme a condizioni di sicurezza economica:
Lo Stato investiva in tutte le arti, e chi si occupava di cinema sapeva di poter vivere grazie a questo. Per i nostri standard, gli stipendi erano molto buoni. Lo Stato investiva nei film che avevano un valore storico e politico, senza chiedere quanto costassero (Bata Živojinović, attore, Serbia).
È in particolare il confronto con le ristrettezze degli anni successivi che spinge chi lavora nel settore a raffigurare il periodo del regime come una sorta di "età dell'oro". Con l'esperienza del presente, la memoria dei protagonisti dell'industria cinematografica rielabora il passato rivelando una certa nostalgia dei regimi comunisti, anche dove si rivelarono particolarmente duri come in Albania:
Era il 1971 quando mi ero appena laureata e si è realizzato un sogno impossibile: lavorare al Kinostudio. All'epoca era un miracolo per chiunque studiasse in questo settore (...) qui eravamo in contatto con la cultura, con il nuovo, con il mondo degli attori e del meglio che si viveva nel nostro paese (Vllasova Musta, regista film d'animazione, Albania).
Per i cineasti, il prezzo da pagare allo stato autoritario era, naturalmente, la limitazione della libertà di espressione, con la creazione di meccanismi di censura (e soprattutto di auto-censura) e controllo ideologico del prodotto cinematografico:
Il sistema faceva affidamento soprattutto sull'auto-censura, sulla percezione personale del limite da non sorpassare, perché avrebbe potuto portare a conseguenze negative. E in generale, vinceva chi aveva il coraggio di vincere la sua stessa auto-censura (Nikolay Volev, regista, Bulgaria).
Il controllo politico faceva parte dell'esperienza quotidiana di chi lavorava nel cinema ma, nella memoria degli intervistati, resta sullo sfondo dell'attività creativa e lavorativa senza impedirne lo scorrere. Con frequenza, i protagonisti sottolineano la propria capacità di aggirare i meccanismi di controllo e crearsi degli spazi di libertà dove scrivere "tra le righe" per veicolare i propri messaggi:
Il cinema era senza dubbio uno strumento di propaganda ma (...) esisteva la possibilità, per così dire, di fare un leggero slalom, attraverso il quale poter esprimere elementi di verità. (Ivan Andonov, attore e regista, Bulgaria)
Gli anni Settanta furono un periodo di grande tensione creativa per il cinema balcanico. Nel caso della Jugoslavia, il più liberale dei paesi socialisti, per un breve periodo si arrivò a mettere in discussione i temi e i modi tradizionali del fare cinema con punte di vera e propria iconoclastia nel caso della cosiddetta "Onda nera" che dissacrava i simboli stessi del regime.
Inaspettatamente, con la fine degli anni '80, il collasso dei regimi e l'apertura al mercato delusero le speranze di apertura e rinnovamento del cinema balcanico. Le testimonianze raccolte sono univoche nel descrivere l'implosione dell'industria cinematografica e lo smantellamento del sistema produttivo pensato, finanziato e costruito dai regimi stessi e l'estrema difficoltà vissuta in quegli anni sia in termini di condizioni economiche che di prestigio:
Da una situazione di largo benessere..., all'improvviso ci ritrovammo sulla strada, senza una lira in tasca. Fu un crollo verticale, soprattutto dal punto di vista psicologico (Georgi Dyulgerov, regista e docente di cinema, Bulgaria).
La crisi del cinema ha interessato tanto i finanziamenti quanto le infrastrutture distributive, in seguito alla privatizzazione della sale (trasformate nei più disparati esercizi commerciali), con conseguenze particolarmente penalizzanti per il cinema domestico:
Alle giovani generazioni non sono rimasti neanche i cinema, lo Stato li ha venduti tutti. Da 1500 ne sono rimasti 50, mentre gli altri sono stati trasformati in negozi, palestre...(Bata Živojinović, attore, Serbia).
Alla marginalizzazione del cinema in ambito domestico si è contrapposto un crescente interesse internazionale stimolato dall'eco delle guerre e degli interventi militari. Il cinema locale si è rivolto con sempre maggiore frequenza al palcoscenico internazionale ottenendo numerosi premi, tra gli altri, ai festival di Cannes (Underground, 1995), Venezia (Gatto nero gatto bianco, 1998), Berlino (Il segreto di Esma, 2006) e vincendo il premio Oscar 2002 (No man's land).
La difficile situazione economica porta sempre più spesso all'emergere delle co-produzioni come strada alternativa per raccogliere risorse finanziarie e condividere infrastrutture. La Bulgaria si distingue per il consistente arrivo di produzioni internazionali attirate dalla manodopera a basso costo. Questa delocalizzazione produttiva anche in campo cinematografico permette la sopravvivenza di professionalità in ambito tecnico altrimenti destinate a scomparire:
Le produzioni straniere sono un'ottima opportunità per il personale tecnico, e al tempo stesso per le produzioni, visto che qui abbiamo professionisti di livello assoluto, addetti alle luci, assistenti operatori ecc. La differenza sta nel costo di questa manodopera (Emil Hristov, operatore, Bulgaria).
Tuttavia, il sostegno internazionale non basta a rimettere in piedi un'industria privata delle infrastrutture e del sostegno economico statale:
Dopo il 1990 il cinema albanese è entrato nell' economia di mercato, oggi siamo liberi dal punto di vista ideologico, ma c'è una censura ancora più aspra, quella economica (Esat Musliu, regista e membro del Consiglio di Amministrazione del Centro Nazionale di Cinematografia, Albania).
Tale mancanza di risorse ha ricadute negative anche sulla libertà creativa. Superati i cliché dell'eroismo partigiano e dell'edificazione del socialismo, oggi il cinema balcanico non è comunque libero nella scelta dei temi. Per rispondere alle aspettative del pubblico internazionale il cinema della regione è costretto a riprodurre visioni stereotipate di sé:
La maggior parte dei film si occupa dei temi bellici o post-bellici. (...) In un certo momento storico è stato un fenomeno vivo e necessario, ma poi si è cristallizzato diventando una sorta di gabbia da cui è difficile uscire (Sead Kresevljaković, Video Arhiv, Bosnia-Erzegovina).
Anche attraverso il cinema i Balcani si confrontano con lo sfaccettato rapporto con il contesto internazionale, con le opportunità ed i problemi che accompagnano la globalizzazione, in un incerto equilibrio tra apertura e rischi di nuove forme di marginalizzazione.
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