La difesa dei fiumi e dell'acqua: una lotta carica di forza simbolica che in questi anni ha mobilitato con successo strati anche molto diversi delle società dell'Europa sud-orientale, portando alla luce sia potenzialità che contraddizioni. Un'intervista
Quello per la difesa dei fiumi, presi sotto assalto dallo "tsunami" di oltre tremila centrali idroelettriche, è uno i più complessi e riusciti movimenti sociali nei paesi balcanici. Queste lotte hanno alimentato in tutta l'Europa sud-orientale la speranza in un futuro sostenibile per ambiente e società: dall'eroica resistenza delle donne di Kruščica, in Bosnia Erzegovina, che hanno occupato un ponte per 500 giorni, alle proteste nei monti Balcani in Serbia che, dopo duri scontri con la polizia, sono diventate il motore della rinascita di aree spopolate, fino alla vicenda della Vjosa in Albania, dove sta nascendo il primo parco nazionale fluviale d'Europa. Capaci di mobilitare gruppi diversissimi, questi movimenti sono però tutt'altro che privi di contraddizioni. Ivan Rajković, antropologo dell'Università di Vienna che li ha studiati a lungo in Serbia, li ha definiti "ecopopulisti".
Ivan Rajković, l'obiettivo di questi movimenti è apparentemente molto concreto: impedire che, in cambio di una scarsa resa energetica, vengano compromessi ecosistemi fluviali integri, con cui la popolazione locale conserva ancora un rapporto stretto. Eppure, lei sostiene che queste lotte sono siano realtà molto più universali. Qual è il simbolismo dell'acqua e che ruolo gioca in queste mobilitazioni?
L'acqua non è mai soltanto acqua. Nelle proteste si afferma esplicitamente che dall'acqua dipende tutta la vita, ma in realtà il significato che le si attribuisce è tanto diverso quanto lo sono le persone che partecipano alle lotte. Io sostengo che l'acqua è diventata l'equivalente di quello che Ernesto Laclau e Chantal Mouffe chiamavano "significante flottante", un termine ombrello per collegare molti gruppi sociali diversi, per creare una nuova forma di comunità.
Può spiegarci alcuni di questi significati?
Dal momento che scorre e non può essere fermata, l'acqua è vista come il limite ultimo per la privatizzazione che caratterizza il nostro tempo. Ma il suo valore si estende ad altre ingiustizie, al diritto a restare a vivere in un luogo, può segnare un ritorno simbolico al villaggio originario delle famiglie di chi protesta, soprattutto se sono diventati disoccupati o precari in città. C'è poi ovviamente chi dipende direttamente dai corsi d'acqua sotto attacco per sopravvivere, come i contadini e i pastori che li utilizzano per irrigare e abbeverare il bestiame. Ma c'è anche una classe media altamente scolarizzata e urbana, fatta soprattutto di giovani, che vede l'acqua come simbolo della possibilità di ritornare alle proprie terre ancestrali e rurali dopo aver fatto esperienza della disoccupazione in un contesto urbano. Oppure, più un generale, come simbolo di lotta contro il partito al potere in Serbia.
Riferendosi a questi movimenti, lei li ha definiti ecopopulisti. Perché?
Quando dico populista, non intendo necessariamente qualcosa di negativo. La parola migliore sarebbe forse "popolare", ma populismo resta un termine molto utile: significa che un certo movimento sociale parla in nome del popolo, e sostiene che gli sfavoriti, gli oppressi, siano più rappresentativi dell'intera popolazione dei loro rappresentanti ufficiali. In questo caso, l'ecologia è un veicolo per raggiungere una più ampia universalità popolare.
Siamo abituati a pensare ai movimenti ambientalisti come radicati in ambienti urbanizzati, con sostenitori di classe media e liberali...
Finora queste proteste sono state completamente diverse: hanno riguardato soprattutto persone che vivono in aree rurali periferiche o in città minori. Spesso si tratta di persone anziane, il che smentisce il pregiudizio che vuole che a voler cambiare le cose siano solo i giovani. Il fatto è che ci troviamo in un terreno di frontiera, la transizione energetica, alcuni aspetti dei quali vengono esternalizzati in diverse periferie del mondo. Compresi i Balcani, che per alcuni non sono nient'altro che un angolo dimenticato d'Europa.
I nuovi scavi minerari, le nuove centrali idroelettriche e così via spesso si sono tradotti in nuove ingiustizie ambientali che hanno colpito aree rurali in preda da decenni al calo demografico, e in questo vuoto (o almeno percepito come tale) molti investitori hanno pensato di poter meglio realizzare i propri progetti. Tutto questo ha portato a quello che alcuni studiosi hanno descritto come "ambientalismo dei poveri". Non significa che chi vi partecipa sia necessariamente povero, ma che difende l'ambiente perché ne dipende concretamente, non perché lo percepisce come qualcosa di bello, di cui godere.
In un secondo momento è arrivato un altro tipo di ambientalismo, quello "del malcontento": le lotte sono diventate il simbolo dell'insoddisfazione verso il regime politico vigente, le crescenti disuguaglianze, le diseguali possibilità di riproduzione sociale che determinano l'impossibilità di vivere appieno la vita.
Gruppi diversi portano a posizioni diverse: come lei sostiene, non siamo tutti sulla stessa barca...
Come ogni altra cosa, l'ambientalismo non è esente da relazioni di potere più ampie. I conflitti esistono, ci sono voci diverse. Le persone con un alto livello di istruzione, che potremmo definire ecologisti liberali delle classi medie urbane, hanno certamente un capitale simbolico maggiore da incanalare rispetto ad altri gruppi. Nelle campagne, banalmente, c'è chi ha i soldi per avviare un'attività di ecoturismo nato dallo spirito delle stesse proteste e chi non ce li ha. Datori di lavoro e disoccupati. E anche tra chi vive dell'ambiente, c'è un'enorme differenza tra chi è andato in pensione dopo una vita in fabbrica e cerca di tirare avanti con qualche pecora, e i grandi agricoltori benestanti.
Questi movimenti sono nati dal basso, ma un ruolo importante è stato svolto anche dalle Ong internazionali, dalla comunità accademica, e persino da brand, per quanto dalla politica attenta all'ambiente, come Patagonia...
Consideriamo, ad esempio, da un lato le donne di Kruščica in Bosnia, che hanno difeso il loro fiume strenuamente per mesi. E dall'altro altre donne, membri delle organizzazioni ambientaliste, magari residenti in altre città o persino in altri paesi, che le hanno aiutate con il supporto legale e a ottenere l'attenzione dei media, e hanno cercato di articolare le loro lotte locali in qualcosa di più ampio. Il primo gruppo dipende direttamente dal fiume, il secondo no. Includo anche me stesso e altri accademici, voi giornalisti, i gruppi ecologisti di sinistra e tutti quelli che, in qualche modo, stanno estraendo valore da ciò che queste persone stanno facendo. Non voglio dire che abbiamo programmi diversi, ma che il modo in cui ci si guadagna da vivere influenza il modo profondo in cui si diventa attori ambientali. Bisogna considerare sempre il rischio che i gruppi più potenti, che hanno un qualche tipo di capitale finanziario o simbolico, a un certo punto si prendano la scena.
Veniamo ai casi concreti. Le proteste in difesa della Stara Planina, i Monti Balcani, giocano un ruolo decisivo nella storia di questi movimenti. Cosa le caratterizza di più?
Ho seguito le proteste dal 2018, a Pirot, e da subito mi ha colpito positivamente quanto il movimento lasciasse emergere le differenze. Ogni oratore parlava come se a parlare fossero - mettiamo - in quindici: sottolineava ciò che era specifico per lui o lei come persona e ciò che caratterizzava il luogo da cui proveniva, senza tralasciare la generazione, classe o località di provenienza, e tutti cercavano di connettersi tra loro attraverso l'immaginario dell'acqua.
Poco dopo, sulla Stara Planina sono stati registrati alcuni degli scontri più duri, che hanno portato a vittorie storiche. Topli Do, di cui ci siamo occupati anche su questo giornale, è diventato un caso nazionale...
Quando sono state organizzate le proteste di Topli Do, esisteva già una storia di lotte contro l'energia idroelettrica. Nel villaggio di Temska, lungo lo stesso torrente, c'erano state molte lotte fin dagli anni Ottanta. E poi a Rakita, a Vlaška, che non si trovano sulla Stara Planina, ma comunque in un'area limitrofa, al confine con la Bulgaria. Il movimento ha saputo fare tesoro di quelle esperienze, sia nel confronto concreto con investitori e forze dell'ordine che nella comunicazione. Grazie al lavoro degli attivisti sui social network, Topli Do è diventato un simbolo di ingiustizie più grandi. Per la maggior parte delle persone, credo, le vicende della Stara Planina hanno avuto grande risonanza perché si trattava di una delle aree più neglette e spopolate, che a molti ricordava i villaggi dei loro genitori o dei loro nonni che venivano abbandonati, e anche per questo è risultata una lotta vittoriosa.
Alla fine, contraddizioni sono emerse anche lì?
Non sono un esperto specifico di Topli Do e non voglio parlare di microcasi, però - nonostante sia stata una delle prime vittorie - a mio avviso la vicenda di questo villaggio potrebbe far riflettere gli altri luoghi in lotta. In questo villaggio, a mio avviso, dopo la vittoria c'è stato un certo tipo di appropriazione della lotta. L'attenzione è presto passata dal simbolismo dell'acqua come bene comune alla sorte della stessa Topli Do.
Il villaggio da allora ha seguito un destino diverso da quelli circostanti: la rinascita ha portato a una sorta di turisticizzazione, e in tutta la zona si osserva già un notevole aumento dei prezzi, che ha iniziato ad avere un impatto sulle persone, perlopiù povere, che avevano resistito allo spopolamento. E si è osservato anche un revival ideologico di valori monarchici e capitalistici, idee in aperta contraddizione con i sentimenti originari anti-privatizzazione contro le centrali idroelettriche. L'insurrezione è diventata un marchio.
Un ripiego nazionalista che, per quello che ho visto, non è condiviso dalla maggioranza delle persone che partecipano o simpatizzano per queste proteste. Quale potrebbe essere un modo per questi movimenti di superare le loro contraddizioni?
Penso che dovremmo smettere di evitare queste contraddizioni o, peggio, nasconderle sotto il tappeto. Al contrario, dovremmo esporle. Altrimenti si va incontro a un rischio concreto: si difende un bene da un grande investitore, finché la lotta mette d'accordo tutti. Ma poi ne arriva uno più piccolo, che non è ostile o che viene dallo stesso movimento, e improvvisamente ti accorgi che sta parlando a nome degli altri. E investe anche lui in qualcosa a suo vantaggio.
Se vogliamo fare una nuova politica progressista dell'ambientalismo non dobbiamo necessariamente schierarci da una parte o dall'altra, ma ammettere che siamo diseguali e che veniamo da posizioni e prospettive molto diverse. Il populismo non è una cosa cattiva, ma pone una sfida inevitabile per ogni autentica lotta pluralista di liberazione.
Questa pubblicazione è stata prodotta nell'ambito della Collaborative and Investigative Journalism Initiative (CIJI ), un progetto cofinanziato dalla Commissione europea. La responsabilità sui contenuti di questa pubblicazione è di Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa e non riflette in alcun modo l'opinione dell'Unione Europea. Vai alla pagina progetto
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