Quando la lettura di testi del passato garantisce visioni sul presente. Alla scoperta di Lettere dall'Asia di Zuko Džumhur
Primo, non cercate invano le traduzioni dei libri di viaggio di Zuko Džumhur (1920-1989) perché non ci sono. Solo alcune pagine della sua vasta opera sono state tradotte in italiano, grazie alla disponibilità della traduttrice Alice Parmeggiani Dri e dello scrittore e professore brasiliano Julio Monteiro Martins (1955-2014), che per anni ha diretto la rivista Sagarana. Entrambi avevano accolto con sincera gioia la mia proposta di tradurre e pubblicare uno dei racconti di viaggio di Džumhur, un vero gioiello letterario intitolato U dućanu vremeplov [Nella bottega del tempo di navigazione]. Lo potete facilmente trovare sul n. 57 della rivista Sagarana. “Ma dove lo hai tenuto nascosto finora?!”, mi rimproverò bonariamente il mio caro Julio quell’autunno del 2014 che ricordo ancora vividamente. Quello fu l’ultimo autunno di Julio.
Secondo, a quelli che cercano sempre qualche indizio di un mio lamento (inesistente) per il destino delle grandi opere degli scrittori slavi del sud mai tradotte nelle principali lingue europee, dico: non sforzatevi inutilmente. Se affermo che Lettere dall’Asia di Zuko non sono mai state tradotte è perché si tratta di un dato di fatto. Un altro dato di fatto è che scrivo per OBC Transeuropa quando sento il bisogno di richiamare l’attenzione dei curiosi qui su certi valori culturali, letterari o scientifici di quel mio lì. Fu per questo che sei anni fa decisi di scrivere un articolo dedicato a Džumhur.
Terzo, lo scorso mese di agosto, ascoltando le notizie relative alla caduta di Kabul nelle mani dei talebani, al ritiro frettoloso delle truppe coinvolte nell’operazione Libertà duratura, al problema dei rifugiati e, soprattutto, alla morte di Gino Strada, pompiere della follia umana, mi tornava continuamente in mente Zuko Džumhur.
Prometto che non scriverò delle questioni che oggi sono sulla bocca di tutti quei sapientoni di analisti geopolitici le cui affermazioni la gente in pigiama e pantofole, con pizza, popcorn e birra in mano, accetta silenziosamente o preferisce passarci sopra con un click del telecomando. E mi asterrò dal ripetere quell’antica verità sui libri che tacciono saggiamente di fronte al chiasso degli “intelligentoni” del Momento.
Dagli anni liceali, quando le lessi per la prima volta, torno, seppur solo occasionalmente, a rileggere Lettere dall’Asia (1973) di Džumhur, ma anche altre sue raccolte di racconti (lo faccio soprattutto quando sento il bisogno di liberare velocemente la mia mente dalle scorie accumulatesi nel tempo.)
Nessuno scrittore jugoslavo è mai riuscito ad avvicinare l’Oriente ai lettori meglio di Džumhur. Fu un autentico scrittore di viaggio, pittore, caricaturista, scenografo, un vero erudito, un uomo di molti libri e di idee insolite e inaspettate. Lo scrittore Mirko Kovač una volta disse che valeva la pena incontrare Džumhur per strada. Aggiungo modestamente che oggi Zuko sicuramente cercherebbe di farci capire che una delle tragedie della nostra epoca è quella delle strade piene di passanti che sono “intelligenti” solo perché hanno un telefono intelligente. Se qualcuno mi dovesse chiedere in quale parte delle sue Lettere dall’Asia – in quella sull’Afghanistan o quella dedicata alla Persia – Džumhur ci offre sguardi più profondi su quei territori che continuiamo a considerare lontani e sconosciuti, mi verrebbe il mal di testa. Namah, come si dice in Bosnia [il termine serbo-croato che significa subito]. Lo stesso vale per le domande sui disegni con cui Džumhur accompagnava sempre i suoi racconti su paesi, persone e costumi lontani. Credo che anche quei pochi europei che conoscono una delle lingue della regione post-jugoslava (e conoscendone una, le conoscono, loro malgrado, tutte) nelle Lettere dall’Asia possano trovare molte cose che i geostrateghi odierni non sono in grado di spiegarci, soprattutto quelli che sono stati in Afghanistan, e continuano ad esserci, solo virtualmente. Lo so, ho scritto una sciocchezza. Oggi “il vero viaggio” consiste nello stare seduti davanti ad uno schermo, protetti dalla polvere che si solleva dalle strade “percorse”. Quando fa freddo, c’è il termosifone. Quando invece fa caldo, basta un click sul telecomando del condizionatore. Si viaggia pensando di sapere tutto degli altri, e invece non si sa… “Astieniti dal pronunciare quella parolaccia che gli italiani amano usare quando si arrabbiano!”, dico a me stesso.
Non ho alcuna intenzione di raccontarvi il contenuto dei dodici testi di Džumhur dedicati all’Afghanistan, che costituiscono la prima parte delle sue Lettere dall’Asia. Semplicemente perché è impossibile raccontare quei testi. Un insieme di testi che non supera una settantina di pagine, da cui però emana una potenza evocativa straordinaria. Quante osservazioni acute sul passato e il presente di quel paese talmente ricco di storia da sembrare un pozzo infinito! Džumhur non si era recato in Afghanistan e in Persia cinquant’anni fa per puro caso. In ogni riga dei suoi libri di viaggio sembra risuonare la voce dei tempi passati e di quelli attuali, la voce delle vie della storia lastricate di “buone” intenzioni dei tiranni, ma anche la voce dei volti che Džumhur osservava viaggiando come un pensatore alla ricerca di un legame nascosto e profondo che unisce i destini di tutti gli esseri umani che hanno attraversato questo mondo, dai tempi antichi ad oggi.
Recentemente, rispondendo alla mia proposta di pubblicare Lettere dall’Asia di Džumhur, un editore italiano ha affermato laconicamente: “Ma è uno scrittore morto!”, facendomi scoppiare in una risata fragorosa e – suppongo – maleducata che ha lasciato perplesso quell’uomo.
È meglio che ora io lasci la Parola a Džumhur, proponendovi alcuni frammenti tratti dalle sue Lettere dall’Asia.
“Sto girovagando per Kabul e dintorni ormai da un mese.
Non cerco nemmeno di imparare qualcosa, stupito dal fatto che i popoli di questo regno montuoso parlino trentadue lingue.
La gente è perlopiù analfabeta, eppure a Kabul escono in edicola quattordici quotidiani e settimanali.
Non frequento le sale cinematografiche dove vengono proiettati i calembour indiani, e non vado nemmeno a teatro dove vanno in scena le opere di Molière e Gogol’.
Percorrendo le viuzze, tra conversazioni e svaghi, presto si viene a sapere tutto ciò che sta accadendo da un angolo all’altro del loro regno due volte più grande della Francia.
L’Afghanistan è un regno. Un regno governato da un re. Il re è sobrio, saggio e giusto. Il re si chiama Mohammed Zahir Shah. Il re è soldato e agronomo. Il re è un ottimo giocatore di tennis, il miglior sciatore, il miglior cacciatore e pescatore e il più rinomato agricoltore. Il popolo ama il suo re. Tuttavia, molti feudatari sognano la repubblica.
Il castello del re si trova nel cuore di Kabul. Il cortile è circondato da una recinzione, la recinzione è interrotta da un cancello, all’ingresso ci sono delle guardie, dietro alle guardie c’è il castello, nel castello vive il re. Da questo luogo egli governa circa diciassette milioni di persone. Di questi diciassette milioni, due o tre sono nomadi che non sono governati da nessuno. Ad Est tutti i censimenti, liste e statistiche sono poco affidabili e variabili, per cui nessuno, e nemmeno lo stesso re sa quante anime conti il suo popolo.
La capitale del suo regno si estende su un grande prato ed è circondata dalle cime perennemente innevate dell’Hindu Kush”. (L’altopiano magico)
“Su questo confine impercettibile tra terra e cielo, sul tetto del mondo, nel Pamir, vissero e procrearono i progenitori del genere umano, Adamo ed Eva, dopo essere stati cacciati per sempre dal paradiso. Sul tetto del mondo avvenne anche il primo adulterio; da qualche parte qui vicino Caino uccise Abele; qui ebbero inizio anche le prime guerre fratricide.
Lontano da qui, andando verso ovest, si trova il monte Ararat dove si salvò Noè, il diciassettesimo discendente di Adamo. Da qualche parte a metà strada si trova la Palestina dove vissero Joseph e Ana, il diciassettesimo discendente di Abramo”. (Le acque morte dell’Amu Darya)
“Viaggiando verso la corte di Kublai Khan, tra questi burroni e gole, Marco Polo si imbatté nel Nido dell’Aquila. Egli ci lasciò pressoché l’unica testimonianza scritta del “veglio della montagna”. Negli anni giovanili grande amico del poeta Omar Khayyam, Hassan-i Sabbah successivamente si rifugiò a Qasr Alamut, un edificio a metà tra fortezza e khanqah, situato su un prato a oltre 3000 metri di altitudine. Marco Polo descrisse quel prato come un ambiente paradisiaco pieno di giovani donne che vissero liberamente insieme ai dervisci completamente sottomessi al volere e potere di Hassan, fino alla morte. Il “Veglio della montagna” continuamente drogava i suoi seguaci, tenendoli così in uno stato di estasi totale. Una volta caduti in uno stato di profondo torpore mentale ed emotivo, Hassan li uccideva promettendo loro il paradiso eterno in cielo, oppure, inebriandoli con l’hashish, li spingeva a uccidere i suoi numerosi avversari. Il Nido dell’Aquila fu una setta religiosa segreta e perseguitata, molto vicina agli ismailiti e, al contempo, una famigerata compagnia di assassini e depravati. I crociati li chiamarono col nome di hashish – hashishin, assassini”. (L’altopiano magico)
“Lettore, se un giorno qualche vento, carovana o “boeing” dovesse portarti fino all’Asia centrale, non perdere l’occasione di visitare Bamiyan, la valle dei grandi Buddha, nel nord dell’Afghanistan. I vecchi afghani la chiamano: Valle delle lacrime. I buddisti: Gola dei singhiozzi. Gli armeni: Maobdik, terra maledetta. […] Questo intero paesaggio è coperto dal velo azzurro del cielo tinto di sfumature del turchese più puro e inteso. Varrebbe la pena percorrere migliaia di miglia per arrivare qui anche se non ci fosse nient’altro che questo blu inebriante. Solo qui si riesce a capire il desiderio dei fedeli, giunti alla fine della strada, di elevarsi per sempre verso il cielo. […] Dicono che non davano loro fastidio né gli arabi né le orde selvagge di Gengis Khan, bensì di essere stati derubati e massacrati da piccoli banditi e farabutti al servizio dei piccoli e insignificanti principi i cui nomi la storia appena ricorda. Vi è una scala che, partendo dai piedi, conduce fino alla testa del Buddha. I turisti si arrampicano sulla testa della divinità e scattano fotografie.
Io mi sono rifiutato di salire sulla testa di Dio”. (Viaggio a Bamiyan)
“Kabul è attraversata dall’omonimo fiume che divide in due la città. Una parte è antica e splendida nella sua decadenza, l’altra è nuova, scialba e senza anima come tutte le nuove città del mondo. Quella parte nuova è abitata perlopiù da stranieri e intrusi, altrettanto scialbi e insulsi. Suscitano solo indignazione e amarezza se paragonati agli anziani dall’altra parte del fiume che assomigliano ai personaggi biblici. Ovunque nel mondo la vecchiaia porta con sé impotenza e malattia, tranne che su questi monti. Qui le persone raggiungono l’apice della loro bellezza a sessant’anni. Alti e snelli, con barbe lunghe e ricci, avvolti da veli, assomigliano ai messia e profeti, agli astrologi e magi rimasti a vagabondare per il mondo, e i monumenti più belli si trovano in Afghanistan”. (L’altopiano magico)
“Man mano che mi avvicinavo a Mazar-i Sharif, aumentava il numero di viaggiatori. Molti pregavano ad alta voce e piangevano. Mi stavo avvicinando alla città la cui unica grande piazza ospita la salma di Imam Ali, il più grande eroe e il personaggio più tragico dell’Islam, nipote di Maometto, il primo e più ardente musulmano, marito di Fatima, la figlia prediletta di Maometto, il quarto califfo dell’Islam, il primo imam degli sciiti e padre dei martiti Hasan e Husayn.
Ho visto molti mausolei ed edifici sacri delle varie religioni, sia ad Est che ad ovest, ma la tomba e la moschea costruita in onore di questo grande apostolo e guerriero di Maometto supera tutte le mie aspettative. Non immaginavo nemmeno che qui, in mezzo alle steppe del Turan, un architetto sconosciuto potesse mettere insieme tante risorse, moderatezza e immaginazione per creare tale magia. Aveva ragione un archeologo francese quando disse che valeva la pena venire in Afghanistan solo per godere della bellezza della vecchia ceramica faenza che ricopre questo türbe [mausoleo] e questa moschea. Mi dispiace che nel mio disegno non si possano vedere anche i colori di Mazar-i Sharif – la tomba santa”. (Le mille e una tristezza)
“A Kabul non ci sono moschee grandi e ricche. È come se il popolo credesse che anche Dio fosse povero e miserabile come loro, per cui non voleva dedicargli edifici sacri che potessero adombrarlo con la loro grandezza e ricchezza.
Le moschee di Kabul sono poco più grandi e si distinguono appena dalle altre case. C’è solo una moschea che merita di essere menzionata e che è degna di attenzione. Si trova in un quartiere di recente costruzione, ha un minareto snello, è interamente ricoperta da arabeschi ed è stata costruita qualche anno fa dai sovietici. Qui i sovietici hanno costruito anche una grande scuola politecnica, o un centro di ricerca scientifica degno di qualsiasi metropoli del mondo, e nel cuore di questa città hanno eretto una moschea di una bellezza e forma del tutto peculiare”. (L’altopiano magico)
“In quel fiume ormai da tempo non si riflette più né il cielo, né l’uccello, né l’uomo. Per secoli queste acque sono state attraversate da guerre, devastazioni, massacri, portandosi via i corpi senza vita. Forse vi è un altro luogo sulla Terra che ha visto uno spargimento di sangue ancora maggiore, ma non credo che esista un luogo più misero ad essere stato teatro di tutti questi eventi”. (Le acque morte dell’Amu Darya)
“In questo paese alcune strade sono state costruite come parte integrante di un’operazione sovietica per dispetto agli americani, poi ne sono state realizzate altre come parte di un’operazione americana per dispetto ai sovietici. In entrambi i casi, hanno suscitato gioia e portato benefici agli afghani.
Un tempo da queste parti i russi construivano minareti e gli americani pagavano gli stipendi dei muezzin. Nel futuro saranno gli americani a costruire minareti e i russi a finanziare gli hodja [maestri islamici]. Qui i sovietici si occupano della formazione degli ufficiali, mentre i tedeschi si occupano dell’addestramento delle forze di polizia. I cechi costruiscono ospedali, i medici indiani curano i malati. I cinesi irrigano i campi, gli jugoslavi coltivano la vite. I sovietici forniscono aerei, mentre gli italiani hanno il compito di addestrare i piloti. Ci si fa favori a vicenda, ma sono gli afghani a governare il loro paese”. (Polvere, cenere e stelle)
“Stanco dei sermoni, digiuni, dissenteria e vagabondaggi nella steppa, Zarathustra morì a Balkh. Se sapessi dove si trova la tomba del grande profeta del fuoco, ci andrei a rendere omaggio alle sue ombre. Se qui fosse possibile trovare fiori, gli porterei un mazzo di rose rosse. Ma per fortuna la sua tomba non c’è, e non ci sono nemmeno i fiori, per cui posso smettere di fare il ridicolo strisciando sulle tombe delle persone famose in giro per il mondo.
All’epoca in cui l’Europa era immersa nell’ignoranza e nei pregiudizi, in cui la civiltà greca era ancora agli albori e Roma non era stata ancora fondata, su questi monti dell’Afghanistan apparve un mistico chiamato il Cammello Giallo, o Zarathustra, per annunciare la piena libertà dell’uomo nello scegliere tra il bene e il male.
In questa terra il Cammello Giallo insegnò che l’uomo può sconfiggere il male solo con pensieri, parole e azioni pure.
Predicò per l’ultima volta a Balkh, da fervente sostenitore del bene e oppositore del male – con pensiero, parola e azione.
Così parlò Zarathustra”. (Così parlò il Cammello Giallo)
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