Nell'ambito della conferenza internazionale sui nazionalismi tenutasi lo scorso settembre a Belgrado, abbiamo incontrato Stefano Bianchini, professore ordinario all'Università di Bologna, uno dei massimi esperti italiani di Balcani
Cominciamo da un bilancio. Lei è il vice-direttore dell'ASN, quali sono stati a suo parere gli aspetti più significativi di questi tre giorni di discussione qui a Belgrado?
Direi che la conferenza è andata molto bene. Abbiamo avuto la partecipazione di 350-400 persone, 45 panel, ben organizzati, 9 film, una serie di presentazioni di libri. I numeri già dicono molto del risultato ma credo che sia molto importante l'impatto sulla regione, soprattutto su Belgrado. Una delle valutazioni emerse proprio oggi è che la conferenza, in un momento particolarmente delicato e difficile, ha in qualche modo contribuito a conciliare una parte degli esperti e dell'opinione pubblica serba con gli stranieri perché abbiamo discusso di problemi delicati, che forse per la prima volta si sono affrontati in maniera così esplicita nella capitale serba.
In questo senso, eventi come questo e associazioni come l'ASN contribuiscono a far crescere localmente una nuova classe dirigente ed un'elite intellettuale o si finisce più spesso a parlare di loro?
Forse creare una nuova classe dirigente è più il compito delle università e questo è comunque un compito che noi membri dell'associazione svolgiamo in un altro ambito, cioè negli atenei attraverso i vari livelli di corsi. Mentre un'occasione di questo genere è un'occasione di scambio fra esperti e il mondo della politica, del giornalismo, a diversi livelli; da questo punto di vista, associazioni come questa posso influire sugli orientamenti che si sviluppano in un determinato paese e questo può incoraggiare chi si sente isolato a difendere con maggior forza i propri argomenti, soprattutto in un contesto di pressione nazionalistica.
Rispetto alle finalità di cui ci ha accennato, che canali di comunicazione ha l'associazione con il policy-making?
Intanto alcuni di loro hanno partecipato alla conferenza. E' vero che questo è stato un momento un po' particolare, perché qui in Serbia, ndr in questi giorni si sta discutendo della Costituzione e questa occasione sarebbe potuta essere più intensa se non ci fosse stato questo passaggio. Allo stesso tempo è importante che un evento di questo genere si sia svolto proprio in questo momento perché comunque qui in Serbia siamo in una situazione delicata, di passaggio, in cui se si dà seguito a ciò che è scritto sui giornali, alle indiscrezioni, si metterà in moto qualcosa. Nel bene e nel male.
Qual è il grande rischio, quello più concreto e prossimo?
Il rischio è che in questo momento ci sia un inasprimento della situazione regionale, questo è il punto centrale.
Si riferisce alla Serbia rispetto ai propri vicini o alle questioni interne ancora aperte in Serbia?
Potrebbe esser l'una e l'altra cosa a seconda di come si guardano certe cose: ad esempio se si considera il Kosovo una questione interna o già una questione di 'vicini'. Ad ogni modo, quello è il problema e questo problema va collegato anche all'accordo con i Radicali, del dover arrivare a stabilire una Costituzione che abbia bisogno comunque del loro consenso. E allora il problema è doppio, non è solo la questione del Kosovo, c'è anche la questione dell'orientamento europeo che i Radicali avversano. C'è perciò il problema della strategia futura e su questo i partiti stanno negoziando ferocemente. Vedremo che cosa ne uscirà e soprattutto quale sarà l'impatto nel contesto regionale per l'uno e per l'altro aspetto.
Visto che abbiamo toccato la dimensione europea, vorrei parlare anche un po' dei contenuti di questi giorni di conferenza. Diversi panel hanno messo in luce alcune tendenze nazionalistiche che si sviluppano all'interno dell'Unione europea in relazione a simili tendenze nel sud-est Europa. Ci vuole riassumere gli aspetti più significativi di questo dibattito?
Quello che emerge è una stanchezza, forse anche una vera e propria crisi, così io la definirei, dell'idea europea provocata dal fallimento del trattato costituzionale e dall'incapacità dei leader politici dell'Unione di trovare una risposta alla crisi provocata dal no ai referendum di Francia e Olanda. Questo indebolimento di tutto il progetto naturalmente si riflette nelle aree deboli, già a partire dall'interno dell'Unione europea: a parte la questione del nazionalismo economico che qui è stata sollevata in più occasioni, si vedono i segnali di alcune tendenze nazionalistico-populistiche in Polonia, in Slovacchia, nella crisi di questi giorni in Ungheria, soprattutto per il tipo di proteste e slogan utilizzati.
Quindi, che cosa ci si può aspettare qui in sud-est Europa, dove in realtà non abbiamo ancora risolto nulla? Perché la disgregazione della Jugoslavia non è terminata; perché ancora bisogna trovare una soluzione alla questione del Kosovo; poi si aprirà il problema della Bosnia Erzegovina; il problema della Vojvodina è ancora da definire; poi la Macedonia, dove ci sono problemi nella composizione del governo e conflittualità tra le varie forze albanesi presenti nel paese.
Quello che voglio dire è che, se il punto di riferimento, il modello, quella struttura che dovrebbe inglobare attraverso un rafforzamento delle istituzioni è in crisi perché debole, non si può pensare che nelle parti più deboli della catena questo non provochi ulteriori tensioni e soprattutto che non dia spazio ai nazionalismi più estremi.
Del resto se c'è il nazionalismo in Francia, in Italia, in Germania perché si ha paura della libera circolazione delle persone e delle merci, allora non ci si può aspettare da questa parte nei Balcani, ndr un afflato di integrazione e di entusiasmo, quando fino a poco tempo fa c'è stata una guerra lacerante.
E quale alternativa hanno i Balcani all'Europa?
Hanno l'alternativa di continuare nella loro frantumazione disastrosa ed anche bellico-militare. Lo stesso vale anche per i membri dell'Unione europea: qual è la loro alternativa se non vanno avanti nell'approfondimento dell'Unione? Se non si muovono su questa strada l'alternativa è che prima o poi, forse più prima che poi, si scoprirà che non servono a niente le istituzioni europee e quale può essere la conclusione a cui si arriva?
Come interpretare allora la dichiarazione di Barroso sulla proposta di stop all'allargamento?
Come spesso avviene in politica può essere interpretato in due modi. Da un lato, siccome la Commissione Barroso è una Commissione politicamente debole, nata per essere debole, volutamente perché è stata considerata fin troppo forte la Commissione precedente, può essere un suo semplice accodarsi alla volontà che deriva dalla Francia e da altri paesi che non ne vogliono più sapere di allargamenti perché non sono assolutamente pronti a fare dei passi ulteriori, questa può essere un'interpretazione.
L'altra interpretazione è che, pur essendo debole, Barroso si è reso conto che in realtà non sta in piedi più nulla. E questo si sapeva in realtà già da prima, si sapeva addirittura quando si stava negoziando il trattato di Nizza che quel trattato non sarebbe stato assolutamente sufficiente e che nel momento in cui fossero entrati i dieci più due, si sarebbe dovuto fare qualcos'altro.
Tant'è che alcuni paesi tra cui Italia e Francia dissero che bisognava collegare l'allargamento all'approfondimento. E questo è un fatto reale perché l'approfondimento significa il funzionamento delle istituzioni: o le istituzioni funzionano e sono efficaci rispetto alla capacità di governo di 27 ed in prospettiva 33-35 paesi, oppure tutto l'intero progetto crolla.
Perciò può anche essere interpretata positivamente come suonare la sveglia, non per dire blocchiamo ma per dire state attenti, non reggiamo più, c'è bisogno di fare il passo, ci vuole più coraggio, quel coraggio che questi nani della politica europea non sono in grado di prendere in mano e di dimostrare.
Quindi secondo lei la dichiarazione può essere più rivolta all'interno dell'Unione che non all'esterno?
Secondo me è soprattutto rivolta all'interno, in tutti e due i casi. Il suo problema in questo momento non sono né la Croazia, né la Turchia, né la Macedonia, anche se questi sono dei problemi naturalmente. Ma la questione è interna perché in ogni caso c'è un problema di governabilità dell'Unione che di giorno in giorno diventerà sempre più esplicito e più evidente.
Ciononostante potrebbe avere delle ripercussioni sulle opinioni pubbliche sud-est europee. Soprattutto la Croazia, arrivata fino ad intravedere l'ingresso...
Certo, potrebbe. Bisogna però anche tenere presente un'altra cosa per quanto riguarda la Croazia: la Croazia deve in ogni caso essere pronta ad accettare che non può discriminare i cittadini dell'Unione e questo vale per un Portoghese, per un Polacco per un Danese ma vale anche per un Italiano. Sul problema della proprietà non ci può essere alcun caso di riluttanza da questo punto di vista. Se si entra nell'Unione si deve sapere che non si può discriminare i cittadini di un paese rispetto a quelli di un altro perché siamo tutti cittadini dell'Unione europea. Questo è un salto che la Croazia assolutamente deve fare, ma questo è un problema interno croato.
Altra cosa è che l'opinione pubblica europea in generale è in difficoltà rispetto al progetto europeo, anche perché diciamo la verità qual è il politico europeo che si è preso la briga di andare a spiegare qual è l'interesse di tutta l'Unione, l'interesse dell'Unione europea all'allargamento? Io ne conosco solo uno, Joschka Fischer che l'ha fatto una sola volta all'Università von Humboldt nel 2000. Dopodiché a parte alcune piccole eccezioni c'è stato il silenzio generale.
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