Sei anni fa la Bosnia Erzegovina ha vissuto una catastrofica alluvione. Oggi il paese continua a essere tra i più esposti di tutta Europa a questi rischi. Sforzi per ridurli ve ne sono stati, ma spesso limitati a progetti internazionali, senza che le istituzioni locali se ne facessero realmente carico
Maggio 2014. L'area di bassa pressione "Tamara" imperversa sulla penisola balcanica. In pochi giorni cade una quantità di pioggia che non si vedeva da centoventi anni. Le montagne della Bosnia Erzegovina, il paese più colpito insieme alla Serbia, vengono intaccate da circa mille frane mentre flash flood, alluvioni lampo, discendono dai versanti più scoscesi. In poco tempo le acque gonfiano la Bosna, la Drina, il Vrbas, i principali fiumi del nord, e da lì si dirigono verso la Sava che le dovrebbe convogliare verso il Danubio e al Mar Nero. Ma anche la Sava è in preda ad una piena secolare. Impossibilitata a scorrere oltre, l'acqua travolge le valli, fittamente abitate, dei due paesi. Fattorie, centri abitati, fabbriche, strade finiscono sott'acqua. Anche campi minati: un numero imprecisato di ordigni viene trascinato altrove, in luoghi ignoti e quindi più pericolosi. L'alluvione costerà alla Bosnia Erzegovina venticinque vittime dirette e il 15% del PIL. Un milione di persone saranno colpite, migliaia di queste abbandoneranno le proprie case.
La lunga convivenza con le alluvioni
Le devastazioni del 2014 hanno reso chiaro che affrontare i disastri naturali dovrebbe essere una priorità assoluta. Eppure, per il paese, le alluvioni distruttive non sono certo una novità.
Come ricorderà chiunque abbia letto Il ponte sulla Drina, uno dei romanzi simbolo del paese, non è la prima volta che le vicende storiche di questa terra girano intorno ai cangianti umori dei suoi fiumi. L'alluvione più grave prima del 2014 risale al 1896, ai tempi dell'occupazione austro-ungarica. Da allora, tuttavia, le piene non hanno mai smesso di provocare danni: almeno cinque volte nel '900. Il Ventunesimo secolo è iniziato da poco, ma il conto è già salato: nel 2004, e soprattutto nel dicembre 2010, si sono registrati gravi danni. Neanche nel 2019 è filato tutto liscio.
La frequenza delle alluvioni in questi anni pare in linea con molti studi sui cambiamenti climatici, che per la regione indicano una diminuzione delle precipitazioni, ma anche un aumento di fenomeni estremi concentrati in breve tempo.
Anche se i Balcani occidentali sono teatro di eventi ancora più distruttivi come i terremoti, le alluvioni rappresentano il rischio più concreto. Accadono infatti più spesso e colpiscono le aree più popolate e dall'economia più vitale. Secondo uno studio della Banca mondiale, una grande alluvione (con tempo di ritorno di 100 anni) coinvolgerebbe il 14% della popolazione del paese, causando danni pari al 14% del PIL. La media nei Balcani occidentali, pure alta, si ferma attualmente a circa il 10%.
Il rischio non è uguale per tutti
I disastri naturali non sono affatto "democratici": colpiscono alcune categorie più di altre. Sia durante che dopo l'emergenza, le donne sono più esposte degli uomini: più spesso in casa, più spesso economicamente dipendenti dai mariti, e gravate dal compito di badare ai membri della famiglia ancora più vulnerabili. A disabili, minori, anziani e minoranze come i rom va ancora peggio. Per non parlare dei migranti, numerosi nel paese nella speranza di varcare i confini dell'Unione europea.
La Bosnia ha un'ulteriore categoria esposta, quelle delle persone forzatamente ricollocate dopo la guerra, in insediamenti poco o nulla pianificati e senza grandi reti sociali che le proteggano. Secondo un rapporto dell'UNDP, in alcuni comuni addirittura il 100% delle famiglie che anno perso la casa appartenevano a questa categoria. Nel 2014 la condizione di molte persone che già vivevano al limite della soglia di povertà è peggiorata ulteriormente, accelerando la costante emigrazione dal paese. Qualcuno li considera i primi rifugiati climatici d'Europa.
Le due entità in cui è suddiviso il paese sono esposte alle alluvioni in maniera molto diversa. La Republika Srpska, in cui le attività produttive sono concentrate nelle valli dei fiumi più irrequieti, e più povera di infrastrutture, vede ogni anno il 6% del PIL a rischio. Un dato che sale addirittura al 20% per alluvioni più ingenti ma la cui frequenza, per fortuna è prevista per una volta ogni 10 anni.
Un'eredità pesante
Come in gran parte dell'Europa, le pianure alluvionali dei fiumi balcanici, naturale valvola di sfogo delle piene, sono state progressivamente inghiottite dal cemento. Per la Bosnia, con l'urbanizzazione selvaggia e l'abusivismo che, nel dopoguerra, ha portato migliaia di persone a trasferirsi in zone esposte, la situazione è ancora più grave.
Durante e dopo il conflitto, inoltre, molte opere di difesa (argini e canali, ma anche sistemi di controllo delle acque urbane) e stazioni di monitoraggio costruite nei decenni precedenti sono cadute in rovina, quando non deliberatamente distrutte.
I fiumi balcanici non si curano né dei confini internazionali né di quelli interni che dividono la Bosnia in due Entità e numerosi Cantoni, realtà con normative proprie. La frammentazione ostacola un approccio basato sul bacino idrografico, l'unico efficace nella gestione dei fiumi. Ne risentono anche le banche dati, fondamentali per valutare correttamente il rischio. Spesso incomplete, sono disperse nella miriade di istituzioni locali o detenute da istituti meteorologici coi conti perennemente in rosso, e quindi restii a condividerli gratuitamente.
Cambio di passo, sulle orme dell'Unione europea
La Bosnia Erzegovina, come i suoi vicini balcanici, ha aderito ai numerosi programmi e convenzioni internazionali per la mitigazione dei rischi naturali: un approccio che, almeno in teoria, sposta l'attenzione dall'emergenza alla prevenzione e inquadra il problema in quello più ampio della sostenibilità. Il riferimento più concreto è l'Unione europea: la Bosnia Erzegovina ha aderito alla Direttiva Alluvioni del 2007, e anche l'architettura della Protezione Civile bosniaca, operativa dal 2008, ricalca quella comunitaria.
Tra le intenzioni e l'azione concreta però ci sono molti ostacoli. Ancora più che economico e tecnico, il primo problema sembra essere culturale.
"È la difficoltà della politica a stare al passo con la visione attuale dello sviluppo sostenibile, e quindi attuare le riforme opportune, sia economiche che del settore pubblico", commenta Almir Beridan, un consulente legale che si occupa di riduzione dei disastri nel sud-est europeo. "Finanziamenti e dati di buona qualità sono strumenti che devono essere usati per una gestione più efficiente dello stato".
Per mettere in pratica una strategia serve un'analisi del rischio e per averla servono carte dettagliate della pericolosità. Per tracciarle, tuttavia, servono una banca dati di buona qualità, un certo numero di collaboratori, un finanziamento adeguato: tutte cose che nel paese scarseggiano.
L'impegno dovrebbe tradursi in un'azione concreta e duratura: esercitazioni, possibilità formative per il personale, e la possibilità di uscire indenni da una delle burocrazie più complicate al mondo. Eppure, secondo molti addetti ai lavori, gli amministratori non riescono a inserire la prevenzione tra le priorità.
Nonostante queste difficoltà sono stati raggiunti risultati importanti. Nel 2012 e nel 2015 sono stati redatti due documenti fondamentali, una Valutazione per i Rischi naturali, e quella specifica per alluvioni e frane nel settore edilizio. È stato poi elaborato un piano d'azione per passare dall'analisi all'effettiva riduzione del rischio.
Vi sono stati poi alcuni progetti, rivolti a bacini idrografici specifici. La Commissione internazionale per la Sava si occupa dal 2005 del fiume più importante dei Balcani occidentali e ha messo a punto dei moderni sistemi di monitoraggio delle acque e un piano di gestione delle alluvioni articolato su quattro nazioni.
Sul fiume Vrbas, che attraversa Jajce e il capoluogo della Republika Srpska Banja Luka, un progetto sotto l'egida dell'Onu ha portato a moderne reti di monitoraggio, esercitazioni e ad un piano di gestione. Altre iniziative simili, attuali o recenti, interessano altri corsi d'acqua anche condivisi con i paesi confinanti .
Poi vi è DRAS , un sistema informativo online per istituzioni e cittadini: in via di ampliamento, permette di visualizzare carte del rischio e dati meteorologici in maniera molto intuitiva.
Dietro molti dei risultati raggiunti c'è lo sforzo di istituzioni come l'UNDP (il programma dell'ONU per lo sviluppo) e di iniziative internazionali come il DPPI, un progetto che cerca di armonizzare la risposta ai disastri nel Sud-est europeo. Anche i finanziamenti vengono quasi sempre dall'estero, come i 43,5 milioni stanziati dall'Unione europea dopo il 2014.
Finché non saranno fatti propri dal paese, questi promettenti progetti rischiano però di cadere vittima della loro stessa forza: quella di essere delle felici eccezioni. Gli aiuti della cooperazione internazionale tendono a riversarsi su singoli progetti, e non possono durare più di qualche anno. Se le autorità locali non proseguono lungo la strada, la loro forza propulsiva si esaurisce.
La situazione del paese, caratterizzata da elevata corruzione e clientelismo, privatizzazioni selvagge e una costante riduzione dei servizi, non favorisce certo un clima di fiducia. La distanza tra l'origine dei progetti e i territori non aiuta.
Dal canto loro, le ONG ambientaliste stanno portando avanti un'importante movimento in difesa dei fiumi e si fidano poco delle istituzioni che continuano a permettere senza quasi battere ciglio uno "tsunami" di nuovi impianti idroelettrici.
È lo stesso Piano d'Azione a evidenziare che gli sforzi effettuati non sono ancora sufficienti. La pianificazione territoriale, dicono gli studiosi, dovrebbe assumere più importanza e dare più spazio al rischio. Soprattutto, bisognerebbe accertarsi che sia effettivamente seguita. Bisognerebbe investire nella tecnologia e servirebbe cambiare qualche legge urbanistica, soprattutto nella Republika Srpska.
Aumentare la consapevolezza
Con la pandemia di coronavirus, l'importanza della gestione del rischio è evidente come non mai. Molto probabilmente le ricadute dell'emergenza sui meccanismi di protezione civile saranno enormi, anche in Bosnia Erzegovina. Ma ci sono ancora troppe variabili per prefigurarsi cosa cambierà in termini di budget, di personale coinvolto e sulle procedure.
Emergenza sanitaria o meno, si tratta di fare scelte, che dipendono dalla politica ma sono figlie del clima culturale del paese.
"La sfida più importante per il futuro è educare le future generazioni ai rischi", aggiunge Almir Beridan. "Serve che il settore pubblico funzioni, ma che anche i privati prendano finalmente consapevolezza dell'importanza della mitigazione dei disastri e del coinvolgimento dei cittadini".
I fiumi cristallini sono uno dei migliori biglietti da visita della Bosnia Erzegovina: siano la Neretva che scorre a Mostar sotto il Ponte Vecchio, le limpide fonti della Bosna o i torrenti che ne fanno uno dei paradisi mondiali del rafting. Non c'è una ricetta miracolosa per azzerare il rischio, ma si può gestirlo in maniera intelligente, secondo criteri discussi e condivisi il più possibile all'interno del paese. Solo così i fiumi della Bosnia potranno essere ricordati per la loro straordinaria bellezza e non per il dolore causato dalle loro piene.
Hai pensato a un abbonamento a OBC Transeuropa? Sosterrai il nostro lavoro e riceverai articoli in anteprima e più contenuti. Abbonati a OBCT!