Dopo Richard Gere con “Hunting party” anche Angelina Jolie girerà un film in Bosnia, lo ha annunciato durante una recente visita a Sarajevo. Non sempre però le star hollywoodiane sanno superare gli stereotipi
Angelina Jolie girerà un film a Sarajevo in autunno. Come protagonista e anche come regista. Lo ha annunciato alcuni giorni fa quando è stata in visita nella capitale bosniaca. In una pausa nel tour di promozione europeo del thriller “Salt” di Phillip Noyce (in Italia a fine ottobre), l'attrice ha visitato alcuni dei luoghi dove intende girare la pellicola.
Per la premio Oscar per “Ragazze interrotte” (e nominata per “Changeling” di Clint Eastwood) non si tratterebbe della prima volta dietro la macchina da presa: nel 2007 aveva firmato “A Place in Time” passato quasi inosservato. Il progetto riguarda una storia ambientata nella Bosnia del conflitto dal 1992 al '95, ma non sarà un film di guerra. "Voglio raccontare una storia d'amore, non prendere posizione dal punto di vista politico", ha affermato, aggiungendo che prenderà attori locali.
La Jolie, che è ambasciatrice di buona volontà dell'Alto commissariato dell'Onu per i rifugiati (Unhcr), ha incontrato nella sua visita i membri musulmano e croato della presidenza collegiale bosniaca, Haris Silajdžić (presidente in carica dell'organo di presidenza) e Željko Komšić. A loro ha ricordato l'urgenza di creare le condizioni per il rientro nelle loro case di decine di migliaia di persone fuggite durante i combattimenti e che dovrebbero rientrare per il 2014.
"L'Ambasciatrice Jolie si è mostrata molto interessata all'andamento del processo di ritorno alle loro case dei profughi e degli sfollati", ha detto un portavoce del presidente Silajdžić. Questi da parte sua ha presentato alla Jolie i progetti prioritari messi a punto dal governo bosniaco in fatto di rifugiati. La star di Hollywood, nota per il suo impegno umanitario che l’ha portata più volte in Africa e nel sudest asiatico, era già stata in Bosnia lo scorso aprile quando, accompagnata dal marito Brad Pitt, aveva visitato un campo profughi a Gorazde.
Si tratta della seconda celebrità a girare in Bosnia, dopo il Richard Gere di “The Hunting Party” di Richard Shepard con Terrence Howard e Diane Kruger. Là era un reporter in crisi che anni dopo cercava il colpo del rilancio andando in cerca di Radovan Karadžić. Nel film incontravano l’ex leader dei serbi di Bosnia e lo lasciavano andare, nella realtà era stato ben augurante in quanto Karadžić è stato catturato poco tempo dopo.
Il tema della guerra è molto presente nella cinematografia locale (della Bosnia e degli altri paesi dell’ex-Jugo, con significativo incremento delle coproduzioni negli ultimi anni), da “No Man’s Land” in giù. Registi e attori stranieri se ne sono occupati poco: “Welcome to Sarajevo” di Michael Winterbottom o “Il carniere” di Maurizio Zaccaro sono tra le rare eccezioni.
Che si giri in Bosnia, impiegando attori in loco (molto bravi da Jasna Zalica a Emir Hadžihafizbegović e tanti altri) e tecnici, è una buona notizia portando lavoro ed esperienza a un settore che in Bosnia sta crescendo di anno in anno ma resta ancora piccolo. Che si collochi la storia nel periodo bellico, che ha sicuramente più appeal e maggiori possibilità di sviluppi melodrammatici (e un po’ sentimentalmente ricattatori verso lo spettatore), è da una parte compresibile. Dall’altra sarebbe più interessante che i film che possono ambire a un mercato internazionale parlassero dell’oggi, con i tanti suoi problemi. Perché la percezione dell’opinione pubblica è grosso modo divisa tra chi crede ci sia ancora la guerra, chi pensa sia tutto risolto e chi la Bosnia non la saprebbe collocare sulla mappa d’Europa.
Il cinema, che ha ancora un ruolo nel formare l’immaginario e le coscienze, potrebbe cominciare a raccontare un dopoguerra complicato da mille fattori. Lo fanno con bravura alcuni registi quali Begić, Žbanić, Tanović, Žalica, Vuletić, ma i loro lavori non penetrano sul nostro mercato e, per quel poco che lo fanno, vengono visti sotto la lente dell’esotismo.
Star impegnate davvero nel campo cosiddetto umanitario dovrebbero forse cominciare a porsi anche queste domande prima di iniziare un film. Altrimenti, succede come nell’ultimo film che accenna alla guerra di Bosnia, nelle sale dal primo settembre. Si tratta de “I mercenari” (“The Expendables”) di e con Sylvester Stallone. Il protagonista è a capo di un gruppo di vecchi soldati mercenari, reduci da decine di campi di battaglie e azioni oltre la legge, che torna in auge per ribaltare il regime di un’isoletta tropicale. Il personaggio di Mickey Rourke ricorda il passato di quando andarono a combattere “i serbi cattivi” e ricostruisce il senso di colpa per non essere riuscito a evitare il suicidio di una donna sconvolta da tanti orrori. Se è innegabile che la parte serba si sia macchiata di colpe gravissime e crimini atroci durante il conflitto, l’aggettivo usato nel film non aggiunge niente al racconto ma fa passare un’idea che resta nello spettatore. Anche se speriamo che questi particolari infelici siano frutto di superficialità e non deliberati, è facile che una battuta in un blockbuster comprometta tante azioni di cooperazione, solidarietà, diplomazia o anche solo di artisti un po’ più consapevoli (e responsabili).
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