Elvira Mujčić - foto di Salvatore Madau

Elvira Mujčić - foto di Salvatore Madau

Scrittrice, traduttrice di libri dal bosniaco all'italiano, arrivata in Italia a 14 anni scappata dalla Bosnia in guerra, nata jugoslava, oggi Elvira Mujčić è cittadina italiana e bosniaca. Un lungo percorso di triplice cittadinanza, quasi kafkiano. Nostra intervista

30/04/2024 -  Nicole Corritore

Oggi sei cittadina italiana e bosniaca. Quale cittadinanza avevi alla nascita?

Sono nata nel 1980, quindi ero cittadina della Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia. Quando la Jugoslavia si è dissolta, sono poi diventata cittadina della Bosnia Erzegovina e, solo dopo molto tempo, ho ottenuto anche la cittadinanza italiana.

Quando hai ottenuto la cittadinanza della Bosnia Erzegovina?

Con l’inizio della guerra, prima in Slovenia e Croazia dal 1991, e poi in Bosnia Erzegovina dal 1992, mi sono trovata in una situazione “border”… Alcuni mesi dallo scoppio della guerra, alla fine del 1992 dalla Bosnia centrale, dove ci eravamo già spostati – fuggiti da Srebrenica – con mia madre, mia nonna e i miei due fratelli ci siamo rifugiati da amici in Croazia con i documenti che avevamo, cioè quelli jugoslavi.

Nella Croazia indipendente i nostri documenti, che prima valevano per i cittadini di tutte le sei repubbliche della Jugoslavia, non valevano più. Ci siamo quindi trovati in una situazione surreale: essere clandestini in un paese di cui solo un anno prima eravamo cittadini. In Croazia sono iniziate le trafile per ottenere lo status di profughi… mentre i documenti nuovi, di cittadini della Bosnia Erzegovina, li abbiamo ricevuti solo una volta arrivati in Italia. [La prima rappresentanza della BiH a Zagabria viene istituita nel 1993, con l’ambasciatrice Bisera Turković, e nel periodo della guerra sarà la più grande ambasciata della Bosnia, anche con un servizio medico di assistenza a rifugiati e feriti, ndr]

Arrivati in Italia, cosa è accaduto?

Siamo arrivati nel 1994, grazie a un progetto che ospitava profughi bosniaci in vari paesi. Nel nostro caso in un paese della provincia di Brescia, con una sorta di garanzia da parte del sindaco che ci ha reso possibile ottenere subito un permesso di soggiorno per motivi umanitari [viene istituito con decreto legge 24 luglio 1992, n. 350, convertito nella legge 24 settembre 1992, n. 390 “Interventi straordinari di carattere umanitario a favore degli sfollati delle Repubbliche sorte nei territori della ex Jugoslavia ” valido un anno e rinnovabile, ndr].

Ottenuto questo permesso, assieme al codice fiscale e la tessera sanitaria, siamo andati al consolato bosniaco a Milano che ci ha rilasciato il primo passaporto della BiH. Che poi, per un certo periodo abbiamo dovuto cambiare ogni tot mesi: perché non si mettevano d’accordo sul colore del passaporto, che non doveva essere né un colore come il verde che era da “musulmani”, ma nemmeno rosso perché colore da “comunisti”… o perché partiva la diatriba se dovesse essere scritto in entrambi gli alfabeti - latino e cirillico – e in quale ordine, se prima in cirillico e poi in latino o viceversa…

Ottenuto lo status di rifugiati in Italia, quali diritti avete ottenuto e quali difficoltà avete incontrato?

All’inizio pensavamo di restare in Italia per un breve periodo, fino alla fine della guerra. Per cui i documenti che avevamo, della validità di alcuni mesi, non ci preoccupavano più di tanto. Quando non pensi di vivere in maniera definitiva in un luogo, questo aspetto non ti pesa. Inoltre, quando siamo arrivati noi, nei primi anni ‘90, nella provincia bresciana che ci ha accolto c’erano ancora pochi stranieri, per cui le attese per i rinnovi e le code agli uffici non erano infinite.

Per il primo anno e mezzo è andata così. Un grosso cambiamento invece c'è stato quando siamo entrati nell’ottica di rimanere definitivamente in Italia, cioè quando c’è stato il genocidio a Srebrenica nel luglio del 1995. Abbiamo capito che non saremo tornati...

Finita la guerra, però, non potevamo continuare ad avere il permesso di soggiorno per motivi umanitari, e da lì le difficoltà sono aumentate.

Ci puoi raccontare qualche esempio concreto e dirci quanto hanno pesato nella vita di tutti i giorni?

Avere il permesso di soggiorno scaduto è un grosso problema. Anche solo uscire dal paese diventa complesso. Ricordo che quando scadeva il permesso avevamo delle ricevute che attestavano la richiesta di rinnovo, e ogni volta alla dogana iniziavo a giustificarmi tirando fuori tutte le carte possibili e immaginabili che mi portavo dietro. La nostra vita era condizionata dal dover giustificare, una volta perso lo status di rifugiato, la nostra presenza in Italia.

Mia madre doveva sempre avere un lavoro, pena la perdita del permesso di soggiorno, noi figli dovevamo o studiare o lavorare appena finita la scuola o l’università. Io, ad esempio, mi sono laureata in lingue e letterature straniere, ed è una di quelle lauree in cui di solito ti orienti verso l'insegnamento. Ma in quanto straniera, non potevo accedere ai concorsi pubblici per insegnare nelle scuole.

Oltre ad essere tutto diventato molto più complicato e lungo dal punto di vista burocratico, di fatto non potevamo non avere un lavoro. Quando mi sono laureata, dopo pochi mesi mi scadeva il permesso di soggiorno e ho dovuto farmi assumere da amici che avevano un locale, per poterlo rinnovare. Da neolaureata, non ho avuto scelta...

Psicologicamente molto pesante…

Anche molto umiliante e stressante l’idea che dovevi continuamente giustificare il tuo essere qui. Senza parlare poi di tutti i diritti negati, come quello di non poter votare, dopo anni che vivevamo in Italia ed eravamo parte integrante della vita del paese.

Poi è arrivato il periodo in cui è stato introdotto l’obbligo del rilascio delle impronte digitali. Per cui, ad esempio mia nonna, molto anziana e con un glaucoma che la rendeva cieca, era obbligata dalla questura a fare delle file infinite per prenderle le impronte.

Pur essendo totalmente tracciabili, entrati legalmente in Italia con un progetto di accoglienza riconosciuto, per anni la nostra presenza nel paese è sempre stata sotto una lente di ingrandimento. La parola giusta credo sia proprio questa… essere continuamente umiliati di fronte a un diritto che non puoi mai ottenere.

Questa condizione vi ha mai fatto pensare di lasciare l’Italia?

No, per diversi motivi. Innanzitutto eravamo una famiglia che ha subìto una grande perdita. Siamo rimasti letteralmente appesi a mia madre, unico adulto se escludiamo mia nonna. Perché mio padre è stato ucciso a Srebrenica nel genocidio, così come tutti i parenti maschi in età adulta. Per mia madre, pensare di emigrare un’altra volta con tre figli minorenni e un’anziana al seguito, dover imparare una nuova lingua, cercare un nuovo lavoro… sarebbe stato molto difficile.

Ma anche per un aspetto positivo, diversamente da quello negativo della burocrazia. Abbiamo avuto un’esperienza di comunità molto importante durante la nostra accoglienza in Italia. Tante persone si sono adoperate per aiutarci nell’insegnarci l’italiano, ma anche a sostenerci dal punto di vista emotivo. Un intero paese ha fatto rete attorno a mia madre e l’hanno fatta sentire molto meno sola. Per cui non abbiamo mai preso in considerazione di abbandonare questa parte umana molto importante.

Quindi l’essere riconosciuti come parte di una comunità, vi ha spinto a restare, nonostante lo stato italiano vi rendesse tutto molto complesso?

Sì, e ne abbiamo sempre parlato, anche pubblicamente, di queste due esperienze legate all’Italia. Da un lato una vita pratica e quotidiana con persone accanto che ci hanno reso tutto molto semplice e che, almeno emotivamente, ha fatto passare in secondo piano l’aspetto burocratico. Dall’altro però una burocrazia con cui ci scontravamo e contro i cui intoppi non c’era rete sociale che tenesse.

Quando è arrivata la cittadinanza italiana e come è stato il percorso?

Dopo dieci anni di residenza continuativa abbiamo potuto presentare la domanda. Quindi parliamo del 2004, eccetto per mia nonna che non ne ha avuto diritto per limite di età. Seguivano poi dai tre ai sei anni di attesa per la risposta. Per me e mia madre la risposta positiva è arrivata nel 2009, mentre è stata rifiutata ai miei due fratelli perché non avevamo presentato parte della documentazione… le fedine penali. Non ci avevamo proprio pensato: dato che erano entrati in Italia uno a due e l’altro a quattro anni di età e avevano vissuto tutto il tempo in Italia, semplicemente ci erano sembrate non necessarie.

Invece lo erano. Per cui le abbiamo richieste in Bosnia e integrato la richiesta. La loro cittadinanza italiana è poi arrivata un paio di anni dopo. Siamo diventati cittadini italiani rispettivamente 15 e 17 anni dopo l’arrivo nel paese.

Ottenere la cittadinanza, psicologicamente che cosa ha significato per te?

È una nozione che non sono riuscita a elaborare per molto tempo. Ho continuato ad avere tutta quella serie di paure che si hanno quando i tuoi documenti e la tua cittadinanza sono una fonte di problemi. Ad esempio, non mi portavo mai dietro il permesso di soggiorno, avevo più paura di perderlo che di essere fermata ed essere portata in caserma… Per cui mi capitava spesso di ritrovarmi in giro e nel vedere magari i carabinieri sentir salire la paura di essere fermata.

Questa paura ha continuato ad esistere per un lungo tempo, anche dopo aver ottenuto la cittadinanza! Se mi trovavo in un’altra città pensavo “Oddio, ho lasciato a casa il permesso, cosa faccio se mi fermano!”. Oppure all’aeroporto mi mettevo nella fila lunghissima dei cittadini extraeuropei, arrivavo al controllo con il passaporto italiano e mi chiedevano “Perché ha fatto questa fila?”… Perché mi sembrava un privilegio, che a lungo era stato di altri, e che non mi apparteneva.

Ecco, forse il più grande cambiamento psicologico è avvenuto quando, finalmente, dopo tantissimo tempo, ho smesso di temere di non poter stare qui. Quando si è stranieri il rapporto con i controlli delle forze di polizia, con il passaggio delle dogane, è così traumatico che ci si mette davvero parecchio tempo a liberarsene.

Inoltre, noi eravamo cittadini bosniaci della diaspora, per cui cittadini di “nessun luogo”. Per lo meno per me è stato così. Mi sono sentita per molto tempo cittadina di una terra di mezzo: diaspora da un lato, extracomunitari dall’altro. Una sensazione di “non appartenenza”, che poi è anche diventata il mio modo di stare al mondo.

Essere cittadina italiana e bosniaca, bilingue, si è riflettuto nel tuo lavoro di scrittrice e traduttrice di libri?

Pian piano, possedere due cittadinanze ha iniziato ad avere diverse facce. La cittadinanza bosniaca è quella che definirei “affettiva”, mentre viaggio sempre con il passaporto italiano perché essendo dell’Ue è ovviamente più comodo... Ecco, magari uso quello bosniaco quando torno in Bosnia Erzegovina, per affetto.

Le due cittadinanze non sono per me solo due pezzi di carta, nel mio lavoro hanno avuto un ruolo diverso, sono due appartenenze che ho sempre sentito. L’Italia l’ho sentita come un paese mio dopo pochi anni, pur non essendolo ancora sulla carta. L’italiano è diventato la mia lingua madre, per assurdo una lingua nella quale scrivo libri e nella quale traduco autori dal bosniaco all'italiano, mentre i traduttori professionisti di solito traducono verso la lingua originale.

Se la lingua madre è quella in cui senti di potere esprimere al meglio ciò che sei, oggi per me lo è l’italiano più del bosniaco. Ma, dato che la lingua madre ha a che fare anche con l’affetto e le emozioni viscerali, lo è anche il bosniaco...

Dopodiché, la burocrazia è uno dei temi di cui scrivo di più in assoluto. Mentre era un tema che mi paralizzava, perché mi spaventava molto, da quando ho ottenuto la cittadinanza italiana riesco a scriverne con l'ironia che prima usavo per tutti gli altri temi della mia vita. È un tema che oggi posso sarcasticamente irridere, perché ne sono uscita salva e posso raccontarne gli aspetti grotteschi. Mentre quando si è dentro è molto difficile, sai che è tutto un po’ fuori di testa e surreale, ma ne sei protagonista e prigioniero... come nel "Processo" di Kafka.

Elvira Mujčić

Nata nel 1980 a Loznica (Serbia), vive a Srebrenica fino all’inizio della guerra, nel 1992. Dopo un periodo da rifugiata in Croazia si sposta poi in Italia. Laureata in Lingue e Letterature straniere, esordisce come scrittrice nel 2007 con Al di là del caos. Cosa rimane dopo Srebrenica (Infinito Edizioni) a cui seguono: E se Fuad avesse avuto la dinamite? (Infinito Edizioni, 2009); La lingua di Ana (Infinito Edizioni, 2012), Dieci prugne ai fascisti (Elliot Editore, 2016) e Consigli per essere un bravo immigrato (Elliot Editore, 2019); La buona condotta (2023, Crocetti Editore). Da alcuni anni è traduttrice in italiano di libri di autori dei Balcani.

Ascolta "Ritorno a Srebrenica ", l'audio-intervista a Elvira Mujčić realizzata nel 2014 dai giornalisti di OBCT Andrea Oskari Rossini e Nicole Corritore, a Srebrenica presso il cimitero Memoriale di Potočari.

Questo articolo è pubblicato in associazione con lo European Data Journalism Network  ed è rilasciato con una licenza CC BY-SA 4.0

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