
Safet Zec (Archvio privato)
Se passate dal Friuli, visitate l’Abbazia di Rosazzo per la mostra L’arte grafica di Safet Zec. Le sue opere, tra poesia e memoria, raccontano guerre, fughe e umanità, con una forza che ricorda Goya e Raffaello. L'esposizione è aperta fino al 25 ottobre
Rilancio quell’invito banale, che però trovo meravigliosamente autentico, contenuto nei vecchi libri di viaggio, ormai dimenticati: se doveste passare da quelle parti, non perdete l’occasione di visitare…
Quindi, se il vostro viaggio vi portasse in Friuli, e soprattutto se – per sbaglio o volutamente – doveste percorrere il solito tratto Udine-Gorizia e, nonostante la perenne mancanza di tempo, doveste avere due, tre ore libere, prendete la strada verso l’Abbazia di Rosazzo.
Non vi annoierò con i dettagli sull’Abbazia, li potete trovare su Google. Né tanto meno mi dilungherò sul paesaggio: sicuramente vi renderete conto che, per la bellezza delle sfumature del verde e la soavità dei contorni delle colline, è paragonabile al paesaggio toscano. Aggiungo però un’informazione utile: partendo da Manzano raggiungerete l’Abbazia in circa venti minuti, guidando lentamente, e per il parcheggio – potete stare tranquilli.
Il motivo della deviazione? La mostra L’arte grafica di Safet Zec, organizzata dalla Fondazione Abbazia di Rosazzo e curata da Giuliano Pavan. In occasione dell’inaugurazione della mostra, il 25 ottobre 2024, negli spazi dell’Abbazia è stata presentata la pubblicazione Guida anacronistica di Venezia per tutti coloro che accettano di perdersi [1] ed è stato annunciato un documentario sull’artista, Put majstorstva , diretto da Gorčin Zec.
Safet Zec è arrivato nello spazio espositivo dell’Abbazia di Rosazzo direttamente dalla Biennale, la mostra veneziana illuminata dai riflettori di tutto il mondo. Il pittore è stato ospite del padiglione dedicato alla città lagunare, dove ormai da anni vive e lavora. Accanto a Zec, il Padiglione Venezia (curatrice Giovanna Zabotti, commissario Maurizio Carlin) ha ospitato i pittori Pietro Ruffo e Vittorio Marella, nonché il poeta Franco Arminio.
In occasione della presentazione del padiglione, la curatrice ha spiegato che le opere di Zec riportano alla luce “il dramma della guerra, della carestia e della fuga”, i ricordi che, pur appartenendo al pittore, attraverso l’atto del dipingere diventano anche nostri.
Parafraso me stesso (ho già scritto per OBCT di questo argomento) ribadendo che Zec con il suo ciclo Exodus contempla la Storia da una prospettiva artistica incentrata sulla realtà, anziché sui temi prediletti dal pubblico. In questo senso, credo che Zec sia formalmente vicino a Raffaello e, semanticamente, ancora più vicino a Goya nell’autunno della sua vita, quando il grande artista spagnolo aveva utilizzato il disegno per lanciare un monito all’umanità. (Un monito rivelatosi vano, come quello del nostro Zec, non roviniamo però la bellezza dell’arte lamentandoci della stupidità della specie umana a cui, che ci piaccia o no, apparteniamo.)
Non so perché Zec sia stato invitato alla Biennale per la prima volta solo nel 2024, però meglio tardi che mai. Parliamo di uno di quei grandi artisti europei le cui opere sono un’autentica forma di resistenza allo pseudo-modernismo di chi improvvisa performance, installazioni e “dipinti” digitali. Le grafiche di Zec, per fortuna, sono più vicine a Dürer, Ingres e Warhol, per citare solo alcuni maestri del disegno. Anche se, a dire il vero, si allontana dalla loro freddezza cerebrale con la sua trasformazione poetica del disegno tonale nell’apparente leggerezza dell’intrecciarsi di sogni e nostalgie.
Non lo so, ma anche se non fosse stato invitato alla Biennale, nulla sarebbe cambiato per chi apprezza le opere di uno degli ultimi grandi pittori del nostro tempo. Oltre cento mostre personali in tutto il mondo… un opus che fa sperare che la pittura non sia destinata a svanire né ad appassire e che l’arte, intesa come impegno e ricerca, sia la quintessenza dell’ingegno e della nostalgia. Un’arte che, con il suo linguaggio implicito, ci fa capire che siamo effimeri, parlando a nome di tutti gli esseri umani consapevoli che la Bellezza, il Bene e la Memoria costituiscono la Trinità. Una triade profana, ma non lontana da quella divina.
Evito di concentrarmi su singole opere di pittori e scrittori. Ed è oggettivamente difficile farlo quando si tratta di artisti come Safet Zec. Quindi, non perdete questa meravigliosa mostra all’Abbazia di Rosazzo.
L’ingresso è gratuito. Avete tempo fino al 25 ottobre.
Un consiglio: portatevi una sedia da regista. Così, dopo aver osservato attentamente un’opera, potete passare lentamente alla prossima (in tutto sono ventidue), ovviamente senza fare rumore spostando la sedia.
Non dovete però dimenticare il vero obiettivo del vostro viaggio. Evitate quindi di finire come quel frate bosniaco di uno dei Sermoni di fra Matija Divković (1563-1631) che, ammaliato dal canto di un uccello del paradiso, tornò al monastero dopo trecento anni.
Concludo citando alcune riflessioni sull’arte di Safet Zec.
Incideva, acidava e stampava a due metri dal mio torchio.
…
Si prepara con calma le sue lastre, possibilmente in rame, scegliendo il formato più adatto poi le vernicia, le affumica, le incide, due, tre alla volta, le acida, le toglie dall’acido e torna a inciderle, sovrapponendo i segni uno sull’altro fino ad ottenere passaggi espressivi e valori chiaroscurali altissimi.
…
In stamperia si sentiva solo il fruscio della tarlatana che toglie il nero della notte dalla lastra solcata dai segni o il rumore del torchio che imprime la sua forza sulla carta e sulla lastra.
…
Difficilmente Zeco è soddisfatto delle prime prove di stampa. Sa a priori, fin da quando incide all’acquaforte, che ci saranno dei ripensamenti, degli interventi successivi. Li esegue principalmente a punta secca, a volte però possono anche essere acquatinta o oltre tecniche. Comunque sia, prima dell’ultima prova di stampa ha “martoriato” la lastra fino a “domarla”, fino ad estrarle tutto ciò che è in grado di dare.
…
Con ogni mia risorsa continuerò a fare tutto ciò che posso per continuare ad essere lo stampatore di Safet Zec, il “suo” stampatore.
Corrado Albicocco (Stamperia d’arte Albicocco, Udine)
……….
In Zec non ci sono segreti né espedienti, non misteri né arcani saperi che non siano sotto i nostri occhi, sotto lo sguardo di tutti; l’evidenza di un bisogno straripante e radicato, di un demone, di una mania possente e invadente che ha la totalità necessaria e insopprimibile di una vocazione sacerdotale e la inestinguibilità zampillante di un fuoco divino.
Giandomenico Romanelli (Safet Zec, il demone della pittura, mostra tenutasi al Museo Correr di Venezia, magglio-giugno 2010)
………
Un uomo si affaccia alla finestra, dall’interno, e prima con gli occhi, poi con le dita sfiora, timidamente, la cornice e lo stipite verdi, la maniglia di bronzo e le viti che fissano la tenda a vetro. Adesso scorge solo il cielo e qualche nube bianca dall’altra parte, o forse c’è un crepuscolo viola, lui non lo sa, per il momento sta soltanto sfiorando con lo sguardo, forse anche con la mano, le forme solide degli stipiti e delle cornici, indeciso se spostare la tenda in pizzo di grandi dimensioni o afferrare la maniglia di bronzo per vedere cosa c’è dall’altra parte. Avverte una strana irrequietezza, la sua mano vola verso la maniglia e spalanca la finestra, con un sinistro cigolio delle cerniere non lubrificate. L’uomo poi guarda dalla finestra e vede l’alba, un cielo color acquamarina con qualche nube bianca, i vasi di gerani e piante rampicanti, e i giardini verdi fin dove arriva lo sguardo. In quell’istante il paesaggio si illumina di una luce diversa, improvvisamente e fugacemente, e allora tra una fitta vegetazione scorge una finestra simile a quella a cui è affacciato, si guarda intorno cercando uno specchio in cui si riflettono quella immagine e quella finestra, ma dietro di lui c’è solo una finestra aperta, nessuno specchio. Con un sorriso sforzato di chi conosce sogni e incubi, arriva alla seconda finestra, lasciando la prima alle spalle, però quando si sporge, vede che solo la luce del giorno è cambiata, le nubi si sono leggermente spostate, tutto il resto è come prima, come in uno specchio, gira nuovamente su se stesso, ma lo specchio non si vede da nessuna parte, mentre le finestre si moltiplicano all’infinito, da entrambe le parti. Allora l’uomo, in preda alla follia, si sporge dallo stipite e vede davanti a sé, laggiù in fondo, un giardino verde illuminato dal sole del mattino, le acacie e le piante rampicanti in fiore e, in mezzo a quel giardino deserto, da dove continua ad arrivare il fruscio delle piante coriacee, c’è una statua di Pomona in gesso che getta la sua ombra verde sul prato. In quel momento, da qualche parte lontano, giunge il suono del corno da caccia, l’uomo salta fuori della finestra bassa e si mette a correre verso quel suono, ma il suono gli sfugge. Inseguendo quel suono, l’eco di quel suono, l’uomo, curioso, ansimante, tutto bagnato di rugiada, arriva ad un muro con una finestra. La finestra è spalancata e lui si sporge per osservare la stanza, laggiù in fondo, un giardino verde avvolto dalla fitta ombra del pomeriggio, il sole non penetra tra le piante, al centro del giardino, nella penombra, si scorge solo la Pomona in gesso che getta la sua ombra sul prato umido. Allora lo spettatore salta fuori dalla finestra e si sdraia sull’erba bagnata.
Osserva le nubi bianche passare sopra la sua testa.
Danilo Kiš (1973)
----
[1] Testi di Pascal Bonafoux, 112 pagine – Editore: Qupé éeditions (Parigi, 2017, 2024); lo stesso editore ha pubblicato una monografia su Safet Zec, a firma di Pascal Bonafoux (228 pagine). A breve anche in Bosnia Erzegovina dovrebbe essere pubblicata una monografia dedicata al grande artista.
Hai pensato a un abbonamento a OBC Transeuropa? Sosterrai il nostro lavoro e riceverai articoli in anteprima e più contenuti. Abbonati a OBCT!