Regista di cinema e teatro, Dino Mustafić riflette sulla sua città Sarajevo, sull'assedio, sulla cultura della memoria e sulla possibilità che l'arte possa essere linguaggio comune
(Originariamente pubblicato dal portale Ta l’8 aprile 2019)
Aprile è un mese fatale per Sarajevo. Nel corso della sua storia, Sarajevo è stata - agli inizi di aprile - più volte attaccata e liberata, incendiata e distrutta, elogiata e glorificata ed è ancora una città che suscita speranza, ma anche una grande inquietudine in quelli che la amano. Si risvegliano i ricordi, non tanto lontani, dell’assedio, quando i miei concittadini, durante quattro anni di resistenza a un terrore brutale e strategico, hanno dimostrato che con “l’arte di vivere“ si può sconfiggere ogni male, con coraggio, lavoro, creatività, intelligenza e umanità. Durante la guerra, come giovane studente di regia, ho girato decine di ore di immagini dei bombardamenti, delle code per l’acqua, degli ospedali sovraffollati, dei frequenti massacri sulle strade, degli obitori pieni, e di altre scene apocalittiche di violenza e terrore contro i civili di Sarajevo. Così la guerra è diventata l’esperienza più importante della mia vita, ma sarei felice se non l’avessi vissuta. Solo orrore e nient’altro. Quando penso a quel periodo, ricordo i bambini e gli adulti uccisi, ricordo tutti quelli che, nonostante la guerra, erano rimasti umani, e ricordo la mia determinazione a vivere da uomo libero.
Ho girato ogni immagine nella convinzione che si trattasse di un’importante testimonianza di un periodo che sarebbe stato condannato e non sarebbe mai stato dimenticato affinché non si ripetesse nella mia città in nessuna forma. Sono sempre attento quando mi assumo il compito di mettere in scena e realizzare spettacoli teatrali o quando cerco di aprire, attraverso il cinema, uno spazio per costruire una cultura della memoria. Sono consapevole del fatto che ognuno di noi ha esperienze diverse e che manca ancora una memoria condivisa di molti eventi storici, ma penso che attraverso il linguaggio dell’arte possiamo cercare di trovare un modo per aprire un dialogo sulle interpretazioni divergenti del passato. Ciò che scegliamo di ricordare, e il modo in cui lo facciamo, determina ciò che siamo. Ed è qui che bisogna intervenire, cercando di trovare i meccanismi di memorializzazione e commemorazione inclusivi - anziché basati sulla gerarchia delle vittime (militari e civili, “nostre” e “loro”) - meccanismi che rappresenterebbero innanzitutto un monito contro la distruzione dell’umanità.
Durante gli eventi pubblici dedicati al ricordo degli anni di orrore vissuti dai cittadini di Sarajevo non c’è mai stato alcun tentativo di incitare all’odio o alla vendetta, si è sempre cercato di promuovere lo spirito di resistenza e di evocare il sentimento antifascista incarnato da Valter [soprannome di Vladimir Perić, partigiano jugoslavo, leader della resistenza di Sarajevo durante la Seconda guerra mondiale, ndt]. Così è stato anche il 5 e 6 aprile scorsi: un ricordo doloroso, triste e dignitoso. Il problema emerge prima e dopo queste date fatidiche, quando possiamo vedere come nel periodo successivo all’assedio la mentalità della città sia cambiata, degenerando in arroganza, spudoratezza, mancanza di rispetto nei confronti dell’altro, manipolazione e assoluta assenza di una visione.
È un caso che una città il cui passato bellico rappresenta sia il presente che il futuro del mondo non abbia uno spazio dedicato alla sua memoria collettiva, un’esperienza che dobbiamo tramandare all’umanità, per renderci finalmente conto che non siamo stati vittime bensì vincitori dell’assedio? Guidata da questa idea, la brillante Suada Kapić, insieme ad altri membri del collettivo FAMA, ha creato una “Banca del sapere vivo”, nella speranza che un giorno diventasse un museo a Sarajevo, ma non ha potuto fare nulla di fronte al “cappio di seta” [espressione risalente all’epoca dell’impero ottomano, oggi viene usata per indicare la repressione contro le voci dissenzienti, ndt]. Nel corso di un’intervista Suada Kapić ha espresso preoccupazione per la possibilità che i tentativi di memorializzazione dell’assedio – portati avanti da alcuni individui e istituzioni – venissero fermati da quelli che non vogliono sbloccare lo stallo in cui si trova la città di Sarajevo.
“Tutti insieme abbiamo dimostrato di essere in grado di combattere i nemici invisibili e i loro carri armati, cannoni, fucili, sijači smrti [seminatrici di morte, un modello di mitragliatrice largamente utilizzato durante la guerra in Bosnia, ndt], la fame, la sete, il freddo, perché tutto ciò aveva un senso. Lottavamo contro il fascismo del terrore. Tutti noi che abbiamo scelto di lottare contro questo meccanismo di crudeltà estrema 24 ore su 24, per quattro anni (marzo 1992 - marzo 1996), sapevamo di non poter lasciare che la città rimanesse sola e sconfitta. È abbiamo vinto. A lottare oggi, insieme a poche altre persone, contro ‘il cappio di seta’, contro l’ignoranza, la subdola aggressività, la superficialità e la stupidità, non ci penso nemmeno. È una lotta a cui non voglio partecipare. Non so se questo archivio dei saperi dedicato alla VITTORIA DELLA NATURA E DELLA MENTE UMANA sia di per sé sufficiente a sconfiggere quelli che, pur avendo partecipato a questo progetto, non vogliono che esso divenga realtà”.
Facevo parte di questo gruppo di persone unite dal desiderio che il periodo dell’assedio di Sarajevo venisse affrontato con la dovuta attenzione, nel contesto della memoria e di una corretta verifica dei fatti. Ho creduto che fosse importante creare questo museo, non solo per noi, ma anche per quelli che stanno cercando di alterare e manipolare la verità su quanto accaduto. Per rendersi conto di quanto questi negazionisti siano diventati forti basta guardare ai fatti e ricordare che queste persone considerano le sentenze internazionali per le atrocità commesse contro i civili di Sarajevo come frutto della faziosità dei giudici nei confronti di “una delle parti in conflitto”. Non abbiamo fatto nulla per contrastare questa inaccettabile relativizzazione, invece abbiamo dovuto impegnarci affinché la verità sui fatti accaduti durante l’assedio di Sarajevo e il metodo di identificazione delle loro cause e conseguenze diventassero un modello per l’intera regione, un esempio di come affrontare e interpretare il periodo tra il 1991 e il 1999.
Sono avvenuti cambiamenti tremendi. Durante la guerra a Sarajevo si recavano artisti e intellettuali straordinari, arrivavano da tutto il mondo; la lista di quelli che ci hanno sostenuto è lunga. Molti di loro consideravano Sarajevo come luogo di creazione di un nuovo ordine. Qui esisteva una scena multiculturale, un ambiente in cui le persone vivevano insieme senza alcun problema. Non a caso Susan Sontag ha paragonato l’assedio di Sarajevo alla Guerra civile spagnola, a quel desiderio degli intellettuali di una generazione perduta di mantenere vivo l’ideale della libertà e di un ordine diverso. Anche oggi a Sarajevo esiste il cittadino, un’identità civile che ricorda quegli anni di resistenza contro il nazionalismo e il male, ma è un'identità estremamente marginalizzata. La si distrugge apposta! Molti hanno smesso di credere nel cambiamento, nel progresso, si sono rifugiati nell’esilio interiore perché si sentono stanchi e sconfitti. Anch’io ammetto la sconfitta, mi sento di appartenere alla parte sconfitta, e ora bisogna fare i conti con questa situazione. Al momento non vedo altro modo sensato per farlo se non svolgendo al meglio il mio lavoro.
Ha prevalso l’interesse di un mondo che conosco poco, l’interesse delle persone come l’attuale presidente della municipalità di Centar [una delle quattro municipalità che compongono la città di Sarajevo, ndt], che è direttamente responsabile del fatto che il Museo dell’assedio non sia stato realizzato. Siamo governati da primitivi che “attaccano le telecamere”, una cricca di idioti applaudisce il leader del partito che non sa che dietro a ogni telecamera c’è un uomo. Non conosco e non capisco questo mondo. Mi è estraneo il linguaggio discriminatorio diffuso nella mia città natale che incoraggia gli hooligan e i fascisti a picchiare le ragazze in centro città solo perché si distinguono dalla maggioranza della popolazione.
È spaventoso vedere durante una partita di calcio tra due squadre sarajevesi spuntare uno striscione fascista che invita a impedire ai gruppi minoritari di esercitare il diritto di protesta.
L’arte e la cultura non hanno alcuna possibilità di sopravvivere in questo mondo! Durante l’assedio a Sarajevo ferveva un’intensa vita culturale, che andava di pari passo con l’impegno politico. Venivano scritti articoli critici nei confronti del potere, nessuno spaccava le macchine fotografiche e videocamere dei giornalisti. Quel che è certo è che i soggetti allora presenti sulla scena politica erano molto più sofisticati rispetto ai politici di oggi. Era un periodo in cui avevamo bisogno di imparare, di essere educati e buoni. Ovviamente, tra le persone normali che credevano che ad aprile nella mia città è d'obbligo ricordare quella Sarajevo che merita di essere ricordata! Con il passare degli anni mi rendo sempre più conto che quello della resistenza all’assedio era un periodo che dobbiamo ricordare con ammirazione.
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