Anni ’60 in Jugoslavia, un viaggio a Kreševo ed un mondo rurale che è ormai scomparso. Un racconto
- Kh, kh … Khhhhhhhhh! - tossiva il motore della corriera. E, andando da Visoko a Kreševo, eravamo già sulla la strada che da Kiseljak conduce a quella piccola cittadina fra le montagne.
- Kh, kh … Pscscscscsc! - si sentì ancora una volta. La corriera si fermò. Mi alzai dal mio posto e vidi che l’autista arrabbiato batteva i pugni sul volante. Poi scese dalla corriera e con il bigliettaio cercò di riparare il guasto.
- Prova ancora una volta, che ti venisse … - fece all’autista un viaggiatore, ma quello, nell’impossibilità di fare qualsiasi cosa, allargava davanti a noi le mani sporche di olio di macchina e di polvere. Come per dire: - Ecco, non posso farci nulla! - La maggior parte dei viaggiatori si avviò a piedi indietro, verso Kiseljak. Ben presto mio padre e io, scolaro-non-scolaro, come mi chiamavano a casa allora, prima che cominciassi la prima elementare, rimanemmo sul bordo della strada, soli.
Mio padre, vedendomi tremare al freddo del mattino, propose che tornassimo indietro anche noi con gli altri.
- Non ho freddo e mi piacerebbe proprio vedere quella Kreševo! - gli risposi.
Eravamo diretti là perché l’artigiano che quell’estate stava riparando il tetto della nostra casa aveva consigliato a mio padre di collegare le grandi travi maestre con staffe di ferro che si producevano a Kreševo. Io avevo ascoltato tutta la conversazione. Nei miei occhi mio padre aveva letto: - Anche a me piacerebbe venire con te, a Kreševo! - E così ero diventato il suo compagno di viaggio.
- Ti - pa, tap. Tip - tap … - udimmo.
Da lontano, e sempre più vicino, si sentiva lo scalpiccio di zoccoli di cavallo. Da una svolta della strada, da Kiseljak, apparve un carro. Il cocchiere ci vide e fermò il carro.
- Dove andate, brava gente? - ci chiese.
- A Kreševo … Andiamo a prendere delle staffe… - rispose mio padre.
- Da Mijat il posto c’è, anche se fossimo in duecentotrè! Salite … Su! - fece baldanzosamente il vecchio dai baffi grigi, e mi porse la mano perché mi arrampicassi più facilmente, mi strizzò l’occhio, e scosse le redini.
Partimmo.
- Cari miei, non ci sono al mondo staffe migliori di quelle di Kreševo. Tengono il tetto e anche una torre! - aggiunse il vecchio, dando ragione al nostro artigiano.
Anche il sole, giallorosso, fino a quel momento avaro, si mise a splendere più forte. Della nebbia rimanevano solo dei brandelli vicino alla strada. Cominciarono a brillare le piccole onde del torrente che scorreva accanto alla strada.
Come se sapesse che cosa volevo chiedergli, il vecchio disse:
- La Kreševčica … In questo fiumicello si versano decine di torrenti dalle montagne intorno a Kreševo … I torrenti dall’Inač, dal Mehoršje e dalla Visočica [1] di Kreševo d’estate sono limpidi come lacrime.
Senza l’incitamento della frusta, a trotto moderato, i cavallini di Mijat correvano sulla strada tortuosa verso Kreševo. La musica dell’orchestra degli uccellini nascosti nei pini e negli abeti mi rallegrava il cuore.
Dopo essere passati per un paese accanto alla strada, ad un tratto ci trovammo nella via che collegava Kreševo alla strada da cui venivamo.
- Andremo subito dal mio vecchio amico Franina, il fabbro. Eh, che staffe forgia Franina! Non ci sono staffe come quelle che escono dalla sua incudine! - gridò a gran voce Mijat, e indirizzò i cavalli a sinistra, oltre un ponticello di legno.
Franina era seduto davanti alla sua fucina, una piccola casa a un piano. Si alzò subito dallo sgabello e si asciugò le mani sul lungo grembiule. La mia piccola mano scomparve nella manona del fabbro. Da sotto le grigie e folte sopracciglia, su cui erano caduti granelli di fuliggine, mi sorridevano due occhi allegri e vivaci.
- Staffe per travi maestre? Ne ho solo una … Aspettate, ve ne faccio delle altre - disse il fabbro a mio padre.
Mijat si accomiatò da noi e ci avvertì di non sperare troppo nella corriera.
- E’ l’unica corriera, e quando si guasta, ce ne vuole del tempo! A Kiseljak andrò anch’io, verso sera! Se volete, potete di nuovo salire sul mio carro. Poi, da Kiseljak a Visoko, troverete il modo … - disse, e se ne andò.
Osservavo come Franina tagliava le grosse verghe di ferro, come le faceva arroventare nella fucina fino a farle diventare rosso brillanti come il bagliore del sole, e poi con il pesante maglio, sull’enorme incudine a due punte, le incurvava in cima.
Tutt’intorno zampillano scintille, il maglio pesta.
Così nella fucina appariva una staffa. E Franina, per farci passare il tempo, raccontava:
- Lavoro nella fucina da quando avevo otto anni. Mio padre era fabbro. Anche suo padre era fabbro, e anche il nonno, il bisnonno… Sempre così, ci siamo passai il maglio di mano in mano, da quando ci ricordiamo. Qui a Kreševo ricordiamo molto. E a lungo. Ci sono tanti, tanti racconti dei vecchi tempi.
Tutto a Kreševo e intorno a Kreševo è miniera, o giacimento, o fucina. Un tempo c’era anche argento, e piombo, e le leggende dicono anche oro. Ai tempi dell’antica Bosnia, più di sei secoli fa, arrivarono qui i Sassoni… Dalla Germania, per intenderci … Erano minatori famosi. Mostrarono ai nostri come dal cuore della terra si poteva estrarre il minerale di ferro e fonderlo nelle fornaci. I nostri vecchi un tempo tenevano accesi quelle fornaci per dieci giorni e dieci notti di seguito. Quello era il lavoro dei fonditori. Sono rimasti famosi anche perché erano in grado di mangiare moltissimo… Ancor oggi a Kreševo si può sentire: - Mangia come un fonditore! - Il carbone di legno veniva ottenuto dal faggio. Un tempo, fino a Visoko, si tagliava il bosco di faggio. Gli oggetti fatti con il ferro di Kreševo arrivavano lontano, oltre la Turchia, a est, e oltre la Sava, a ovest e a nord. I Ragusei li esportavano a sud, oltre il mare… -
Franina accennò con la mano tutt’intorno, per illustrarci quanto lontano fossero diventate famose le falci di Kreševo, e le serrature, i martelli, gli scalpelli, le catene, le lunghe carabine chiamate “šišane”, le morse, gli uncini, i ferri da stiro…
- Io credo in quel racconto che parla di Kreševo come della città più pulita del mondo in quei tempi lontani. Dalla gran quantità di cenere che rimaneva dal legno di faggio bruciato, e che veniva mescolata con del grasso, si faceva del buon sapone. Perfino i cortili selciati venivano lavati con quel sapone - raccontava Franina.
Una staffa si raffreddava già nell’acqua accanto alla fornace.
- La strada per cui siete arrivati un tempo era una famosa carovaniera. I Ragusei erano i viaggiatori più frequenti. Venivano non solo per gli oggetti in ferro, ma anche per il piombo e l’argento. Kreševo è, dicono le leggende, l’ultima città dell’ultima regina bosniaca, Katarina… Dicono che per il popolo sia stata una buona governante. Per questo il nome femminile più frequente qui è Katarina. Kreševo è piena di leggende. Una vera miniera di storie. Ne racconto una? Quando noi bambini non volevamo rientrare in casa la sera dai nostri giochi, i grandi ci spaventavano gridandoci: ”Ecco che arriva Perkman!” In quella storia Perkman è un minatore immortale, l’eterno abitatore delle miniere abbandonate… In tedesco, chi conosce quella lingua dirà Bergmann, che significa minatore. La nostra gente, come succede spesso, ha trasformato quella parola in perkman. Certi minatori, ai tempi della mia infanzia, raccontavano di aver visto Perkman. Dicevano: - I suoi occhi sono fiaccole, la sua bocca un buco nero da cui spuntano denti grossi come pali, e lui stesso è enorme, un gigante. Perkman porta sulla schiena un piccone come non ce l’ha nessun minatore al mondo, in mano una lampada non più piccola di un quarto di luna. E tosse, in modo tremendo, perché nelle gallerie è freddo, umido. Allora sulle montagne tuona. - Qualsiasi minatore sosteneva che nessun mortale poteva sollevare il piccone di Perkman! E allora? Quale bambino sarebbe rimasto fuori? Cadeva la notte, scura, dalle montagne… E il minatore eterno era nelle vicinanze…
Franina si accorse che ero tutt’orecchi. E che mi era venuta la pelle d’oca nella penombra della fucina in cui si muovevano strane ombre. Il fabbro sorrise.
E io? Mi strinsi a mio padre.
Nell’acqua sfrigolava, ancora rovente, la seconda staffa. Forgiata.
- Ascolta … - disse piano Franina facendosi serio.
Ma che cosa? Mi chiesi muto, perché non sentivo proprio nulla di strano. Ma la curiosità mi solleticava.
- Psst! Piano! Non senti? - disse con un sussurro.
Solo la fiamma crepitava nella forgia.
- Sono loro - sussurrò misteriosamente il fabbro.
Ma chi?
- Una volta, tanto, tanto tempo fa… - cominciò Franina una nuova storia - dei novizi di un monastero uscirono sotto un monte dal nome Oklop. Lo avete visto, appena siete entrati a Kreševo. Sotto il monte c’è il monastero. Ai novizi i diavoletti non davano pace. Entrarono in una caverna… In dodici… E il sole non li illuminò mai più. Si persero nei corridoi e nelle gallerie sotto la città che, dice la tradizione, portano in ogni direzione. Una volta, mi ricordo, ero un ragazzo… Tenevo ferma con le tenaglie la lama rovente di un aratro su cui mio nonno batteva con il suo pesante maglio. A un tratto la mano del nonno rimase in aria con il pesante strumento. Mi disse: - Ascolta! - E davvero qualcosa grattava e frusciava sotto il pavimento della fucina. Poi non si sentì più nulla. Il nonno mi disse:- Sono i novizi del monastero che vagano sotto la città … Nessuno può né deve aiutarli ! Chi ha il coraggio di entrare nella caverna da cui i vivi non tornano, e i morti… Chissà com’è quel mondo sotterraneo, se là sotto c’è la morte oppure se è solo un vagare eterno, senza pace. Chi lo sa? Chi?
Nella voce di Franina vibrava l’angoscia.
Con le tenaglie sollevò alta nell’aria la terza staffa.
- Ssssssssst! - si sentì dal grande bacile d’acqua in cui aveva gettato la staffa.
Mio padre e io uscimmo dalla fucina. Attraversammo la strada, entrammo nella trattoria. Per pranzare. Mangiammo agnello con patate arrostite sotto la campana di ferro del forno, forgiata naturalmente a Kreševo. Quando tornammo nella fucina le staffe ci attendevano, pronte. Mio padre pagò il fabbro. Ci stringemmo la mano, ci accomiatammo per bene.
La corriera non si fece vedere per davvero.
Ce ne andammo verso Kiseljak con il carro di Mijat. Rivivevo nella memoria i racconti di Franina. Mi girai. Dietro di noi non si sentiva il passo dei cavalli delle carovane né il grido dei kramar [2]. Il sole al tramonto si rifletteva nelle piccole onde della Kreševica, formando nell’acqua limpida delle scie azzurro-rosse.
Tutto era rossiccio. La strada, i fossi accanto alla carreggiata. Sullo sfondo rosso sembravano più scure le punte dei pini e degli abeti.
Tenero, trasparente scendeva il crepuscolo.
- Questo sarebbe il momento di Roša [3] e dei suoi briganti, - disse Mijat e soffiò un denso sbuffo di fumo dal grosso tabacco della sua pipa.
Per un istante mi scintillò negli occhi l’ultimo raggio di sole.
Ben presto nel cielo sopra i monti si levò la falce argentea e luccicante della luna.
La brezza notturna mi alitò sui capelli.
Tenera, tiepida.
Attraversò la strada di corsa un capriolo, spaventato da qualche rumore notturno. E scomparve, con mio dispiacere, nel bosco. Crepitarono dietro a lui i rametti secchi.
- Eh, come si alza alta la luna … - Mijat si scosse dal dormiveglia. - Piccolo, hai mai sentito una storia di Nasrudin-hodža? Come rimise la luna in cielo? Se non l’hai sentita, la sentirai adesso… Al chiaro di luna Nasrudin va al pozzo a prendere l’acqua. Guarda nel pozzo e vi vede dentro la luna. Nasrudin si spaventa quando la vede nel pozzo e decide di rimetterla al suo posto, in cielo. Lega un uncino a una corda e lo cala nel pozzo. Ma l’uncino si impiglia in una pietra. Convinto di aver agganciato la luna, comincia a tirare la corda con tutte le sue forze. L’uncino si stacca di colpo dalla pietra, e Nasrudin si ribalta sulla schiena. In quella vede, così disteso, la luna di nuovo nel cielo, e grida: - Che sia ringraziato Allah ! Ho fatto una gran faticaccia, ma almeno ho rimesso la luna al suo posto! -
Ridevamo. Tutti. Con gran gusto.
La lampada sotto il carro di Mijat dondolava sonnolenta, lentamente.
[1] Montagne intorno a Kreševo.
[3] Ivan Bušić Roša (1745-1783) era uno dei più famosi aiducchi croati;
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