La doppia visita di Aleksandar Vučić a Sarajevo e Srebrenica è stata accolta con favore dai media e dal pubblico della Bosnia Erzegovina. Ma per valutare i risultati concreti del nuovo corso del premier serbo occorrerà ancora tempo
Vučić si reinventa. Il capo del governo serbo fa della Bosnia Erzegovina il grande palcoscenico dal quale recitare il ruolo del grande riconciliatore, recandosi per due volte nell'arco di una settimana - il 4 e l'11 novembre - in visita nel Paese vicino, con un primo viaggio a Sarajevo e un secondo a Srebrenica.
L'occasione è stata offerta, nel primo caso, da una "storica" sessione congiunta del Consiglio dei Ministri serbo e di quello bosniaco, la prima di sempre tra i due Paesi. Nel secondo caso, Vučić si è recato a Srebrenica (dove, come noto, nel luglio del 1995 le truppe guidate dal generale serbo Ratko Mladić massacrarono più di 8.000 uomini e ragazzi bosgnacchi) per aprire i lavori di una conferenza economica promossa per sostenere lo sviluppo della municipalità.
Il grande spettacolo
In entrambi i casi, Vučić ha saputo trasformare, con la benevolenza determinante dei media bosniaci e di quelli serbi, unanimi nel farne l'elogio, i due appuntamenti in un grande evento mediatico, per rilanciare il processo di riconciliazione e la collaborazione tra le due repubbliche ex jugoslave.
Lo stesso Vučić, che lo scorso luglio aveva assistito in diretta da Belgrado assieme al Presidente della Repubblica, Tomislav Nikolić, e a quello della Republika Srpska, Milorad Dodik, alla votazione del Consiglio di sicurezza dell'ONU su Srebrenica che ha respinto la risoluzione che qualificava gli eventi del luglio 1995 come genocidio; lo stesso Vučić che era stato cacciato a sassate dal memoriale di Potočari e il cui governo aveva spiccato un mandato di cattura internazionale contro l'ex comandante della difesa di Srebrenica, Naser Orić; lo stesso Vučić che - infine - aveva ricoperto l'incarico di ministro dell'informazione sotto Slobodan Milošević e che aveva promesso, durante la guerra, di vendicare la morte di ogni serbo con "cento musulmani" (dichiarazione della quale, a Sarajevo, ci si ricorda ancora molto bene); quello stesso Vučić è ora salutato con simpatia dalla stampa e dall'opinione pubblica bosniaca, che sembrano avergli perdonato i passi falsi compiuti finora.
"Vogliamo rinforzare i legami tra i nostri due Paesi", ha dichiarato il premier serbo a Sarajevo. "Se questo non è un messaggio d'amore, per lo meno possiamo lavorare per contrastare l'odio". Un'apertura che è stata accolta molto positivamente anche dai politici bosniaci, i quali hanno anzi risposto (lo ha fatto il membro bosgnacco della Presidenza del Paese, Bakir Izetbegović) invitando il Presidente della Serbia Tomislav Nikolić a visitare ufficialmente la capitale bosniaca in marzo.
Al di là dei protocolli firmati tra i due Paesi (che riguarderanno la cooperazione in ambito energetico ed economico, oltre che un maggiore coordinamento nella ricerca delle persone scomparse durante la guerra degli anni novanta), e ai cinque milioni di euro promessi dal premier serbo alla municipalità di Srebrenica (due dei quali, secondo il sindaco Čamil Duraković, sarebbero già stati versati nelle casse dell'amministrazione locale), il risultato più importante delle due visite di Vučić in Bosnia Erzegovina sembra essere prima di tutto simbolico: il governo di Belgrado, per la prima volta, pare seriamente determinato a migliorare le proprie relazioni con Sarajevo e a garantire la stabilità del Paese, abbandonando l'idea di una relazione esclusiva con la Republika Srpska, l'entità serba di Bosnia Erzegovina.
Un cambiamento notevole, anche se secondo Srdjan Puhalo, analista ed esperto di politica di Banja Luka, "occorre interrogarsi se questo desiderio sia sincero, oppure se Vučić - come è probabile - agisca soprattutto su pressione della comunità internazionale, che gli impone di migliorare la cooperazione regionale".
Puhalo, intervistato da Osservatorio, non nasconde che "la sessione congiunta dei due governi a Sarajevo è stata seguita con un po' di imbarazzo, e con una certa freddezza dall'opinione pubblica della Republika Srpska e dai giornali dell'entità. L'evento è stato riportato, certo, ma in tono un po' minore - come se fosse qualcosa che andasse seguito 'per forza', come se si volesse riaffermare che se il governo serbo va a Sarajevo, è pur vero che il suo primo interlocutore, quello più naturale, resta e rimane la Republika Srpska".
Il fastidio di Dodik, la posizione di Mosca
L'opinione di Puhalo pare essere confermata anche dalla reazione stizzita di Milorad Dodik, che ai microfoni di Dnevnik, un giornale di Novi Sad, ha dichiarato che "Aleksandar Vučić ha scelto il partner sbagliato in Bosnia Erzegovina".
"La Serbia continua a sostenere la cooperazione regionale, il che è sicuramente un fattore positivo. Eppure", ha continuato Dodik, "il governo serbo ha sbagliato a organizzare una sessione comune con il Consiglio dei Ministri della Bosnia Erzegovina". Più appropriata, secondo il presidente della RS, sarebbe stata la decisione di organizzare "un incontro tripartito con i governi delle due entità, in una città a scelta tra Mostar, Sarajevo o Banja Luka", in ossequio all'idea secondo cui a detenere la sovranità reale nel paese sarebbero soprattutto la Republika Srpska e la Federacija, e non il governo centrale.
Del resto, è pur vero che i rapporti tra Milorad Dodik e Aleksandar Vučić non sono mai stati buoni quanto lo erano stati, invece, quelli tra Dodik e l'ex presidente della Serbia, Boris Tadić. Vučić si è finora dimostrato molto freddo anche sulla questione del referendum che la Republika Srpska minaccia di organizzare contro le istituzioni giudiziarie della Bosnia Erzegovina (la risoluzione sul referendum è stata approvata dall'Assemblea Nazionale della RS, ma non è ancora stata pubblicata sulla gazzetta ufficiale dell'entità ed è pertanto momentaneamente congelata).
Per ora, il principale sponsor di Dodik sembra essere Mosca, anche se a dire il vero la Republika Srpska non sembra essere una delle priorità della politica estera del Cremlino. Lo scorso anno, piuttosto scenograficamente, la Russia si era astenuta per la prima volta dall'appoggiare al Consiglio di Sicurezza dell'ONU la risoluzione che, di anno in anno, estende il mandato della missione militare dell'UE nel Paese, EUFOR. Lo scorso 10 novembre, però, la votazione è stata decisamente più tranquilla: tutti i membri hanno sostenuto la mozione, sottolineandone l'importanza per la stabilità del Paese.
"Questo perché questa volta, rispetto a un anno fa, sono scomparsi i riferimenti all'integrazione euroatlantica della Bosnia Erzegovina dal testo della risoluzione", ha sottolineato l'ambasciatore russo nel Paese, Petar Ivancov, al quotidiano di Banja Luka Nezavisne Novine .
"Noi non pensiamo che l'allargamento della NATO nella regione aumenterebbe la sicurezza dei Balcani. Anzi, esso ha finora creato nuove divisioni e scontri, come è successo in Montenegro. Sulla questione non esiste un consenso unanime, anzi la Republika Srpska si è dichiarata contraria a questa prospettiva", ha aggiunto Ivancov. Anche sull'integrazione della Bosnia Erzegovina nella NATO bisognerebbe quindi convocare un referendum, secondo Mosca, che del resto è anche la sola ad appoggiare con decisione quello contro il sistema giudiziario nazionale.
"Che la giustizia a Sarajevo sia amministrata in modo inefficiente e parziale è evidente a tutti", ha dichiarato Ivancov, sottolineando che "un referendum in Republika Srpska sarebbe assolutamente conforme agli standard democratici attuali".
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