Si è spento lo scorso 13 marzo a Zagabria il critico letterario Igor Mandić. Un ritratto di una delle voci più pungenti dello spazio (post) jugoslavo
L’ultimo articolo di Igor Mandić è stato pubblicato lo scorso 12 marzo nella rubrica “Zub kritike” [Il pungiglione della critica] del quotidiano zagabrese Jutarnji list per il quale Mandić scriveva da qualche tempo. Il giorno dopo il grande critico letterario ha lasciato per sempre quel circo croato, post-jugoslavo, europeo e mondiale che ogni giorno che passa sta diventando sempre meno divertente.
I pungiglioni della critica? Sono come i denti: tendono a consumarsi e a corrompersi o semplicemente vengono rimossi. Tra le poche voci pungenti che se ne sono andate, senza consumarsi né lasciarsi corrompere durante l’epoca post-socialista (anche se, a dire il vero, molti baluardi della “libera” espressione del pensiero vorrebbero eliminare quelle voci per sempre) vi è anche Igor Mandić, critico letterario, saggista, giornalista e polemista. C’è bisogno di aggiungere che Mandić era rimasto irremovibile nei suoi principi anche durante il periodo della Jugoslavia socialista? Un periodo che il regista e scrittore Žika Pavlović, pur essendo caduto in disgrazia agli occhi del regime socialista, aveva definito l’età di Pericle in confronto a quanto accaduto dopo il 1991.
Nessun’altra notizia degli ultimi anni, ad eccezione di quella della morte di Đorđe Balašević, ha suscitato così tante reazioni in tutta la ex Jugoslavia come ha fatto quella della scomparsa di Igor Mandić. Qualcuno ha notato che l’ultimo articolo di Mandić pubblicato nell’inserto Magazin Jutarnjeg, in edicola ogni sabato con Jutarnji list, si concludeva con la parola pivo [termine serbo-croato che significa birra]. Un’osservazione interessante! Mandić non si è mai vergognato della sua propensione all’edonismo (“Facevo grandi sacrifici per poter mangiare e bere bene“, diceva.), così come non ha mai esitato ad usare toni duri nelle sue recensioni e nei suoi saggi, non solo quando parlava di libri e scrittori, ma anche di vari fenomeni sociali e dei loro fautori.
Durante il periodo socialista (sop)portava l’etichetta di anticomunista (e lo fu effettivamente), ma anche l’etichetta di uomo di destra e conservatore, un’etichetta del tutto ridicola se pensiamo a tutti quei critici “rossi“ di Mandić che dopo il 1989 (e non solo in Croazia) iniziarono a sputare nel piatto socialista, quindi nel piatto in cui avevano mangiato abbondantemente, sostituendo gli abiti “totalitari“ con quelli attuali, “democratici“, e trasformando il discorso incentrato sugli ideali di fratellanza e unità, ritenuto ormai anacronistico, in una retorica nazional-sciovinista che ancora oggi risulta attuale e politicamente vantaggiosa. Mandić è uno dei pochi intellettuali croati e jugoslavi rimasti fedeli ai propri principi e al linguaggio della critica e della ragione, e non solo quando si trattava di discutere di libri.
Considerando che parlare della figura e delle opere di Igor Mandić in Italia e nel resto dell’Europa è come parlare – per parafrasare Zuko Džumhur – dei più sperduti villaggi spagnoli, vi propongo una breve nota biografica su uno dei più grandi polemisti e critici letterari della regione post-jugoslava (che il fantasma di Mandić mi perdoni, il grande critico riteneva che quello di regione fosse un concetto assurdo, ma ahimè, non trovo un’espressione migliore). Allora scopriamo qualcosa di più sull’uomo e lo scrittore Igor Mandić.
Mandić nacque a Sebenico (Šibenik) il 20 novembre 1939. Conclusi gli studi liceali a Spalato, si iscrisse alla Facoltà di Filosofia di Zagabria dove si laureò in Letteratura comparata, rimanendo sempre legato alla figura e all’opera di uno dei suoi professori, Ivo Hergešić, grande conoscitore della letteratura mondiale. Nel 1966 iniziò a lavorare come giornalista per il quotidiano zagabrese Vjesnik, al contempo scrivendo anche per le riviste belgradesi NIN e Duga. Negli anni Novanta scriveva commenti per Slobodna Dalmacija e Feral Tribune. Nel 2000 divenne caporedattore del quotidiano Vjesnik, lasciando però ben presto quell’incarico. Nessun intellettuale croato considerato “importante” ha ottenuto così pochi riconoscimenti come Mandić: un premio alla carriera conferitogli nel 2005 dall’Associazione dei giornalisti della Croazia e il titolo di dottore di ricerca honoris causa ottenuto dall’Università di Fiume per il suo grande contributo allo sviluppo degli studi culturali nella Repubblica di Croazia. Mandić non ha mai praticato la corsa ai premi, una disciplina molto diffusa tra le menti mediocri che cercano sempre un riconoscimento esterno del valore delle loro opere (buone o cattive che siano).
Mandić spesso diceva che non gli sarebbe dispiaciuto se avesse vinto più premi: qualche riconoscimento di certo non può nuocere ai liberi pensatori. Ma essere critici, antidogmatici, pronti ad utilizzare un linguaggio pungente e a considerare il dibattito come un esercizio mentale nella lotta contro il (sotto)mondo pseudointellettuale e contro il clericalismo, tutto questo comporta un prezzo da pagare. Cosa dobbiamo pensare ora che Mandić se n’è andato, lasciando dietro di sé una moltitudine di pensieri acuti, critiche pungenti e riflessioni sulla “libertà di abbaiare“ (alzare la voce), intesa come pane quotidiano? Visto che in Croazia, così come nell’intero spazio post-jugoslavo, non vi è una sola mente miserabile che non abbia ricevuto vari premi e riconoscimenti, mi sembra opportuno rendere omaggio all’autore di una trentina di raccolte di saggi, studi e analisi, constatando che il fatto che Mandić non si sia mai abbassato al livello delle industrie letterarie è una cosa molto positiva (per di più, Mandić viveva in alto, in un modesto appartamento situato al dodicesimo piano di uno di quei mostri architettonici, come alcuni viaggiatori occidentali chiamano i grattacieli che caratterizzano molte città dell’ex Jugo, come se i grattacieli non esistessero anche nei paesi occidentali. C’era una certa giustizia nel fatto che Mandić abitasse ad un piano così alto, come se i piani più bassi gli sembrassero più adatti ai nazionalisti, che si contraddistinguono per la bassezza dei loro comportamenti e del loro pensiero?).
Quindi, Mandić preferiva nutrirsi di valori autentici.
I conoscitori della produzione letteraria e giornalistica di Igor Mandić ritengono che alcune sue opere abbiano già varcato la soglia dell’eternità, tra cui Mysterium televisionis (1972), Gola masa [La massa nuda, 1973], Nježno srce [Cuore tenero, 1975], Policajci duha [Polizia dell’anima, 1979], Književnost i medijska kultura [Letteratura e cultura dei media, 1984], Književno (st)ratište [Letteratura come campo di battaglia e di annientamento, 1998], Prijapov problem [Il disagio di Priapo, 1999], Slobodno lajanje/ Zauzeto, Hrvat! [Consentito abbaiare/Occupato, croato!, 2011]. Ad attirare particolare attenzione dei lettori sono quattro libri di Mandić di carattere autobiografico pubblicati negli ultimi due decenni: Sebi pod kožu [Sotto la propria pelle, 2006], U zadnji čas [All’ultimo momento, 2009], Oklop od papira [Armatura di carta, 2014] e Predsmrtni dnevnik [Diario dei giorni precedenti alla morte, 2017]. La raccolta di testi polemici Zbogom, dragi Krleža [Addio, caro Krleža] pubblicata nel 1998, considerata da molti l’opera più importante di Mandić, è una lettura davvero imprescindibile.
Recentemente, uno degli amici di Mandić ha raccontato che lo scrittore nel suo appartamento teneva incorniciata la copertina di un numero del settimanale NIN del 1996 sulla quale campeggiava una foto di Igor accompagnata dalla scritta: “Un croato a Belgrado“. Dopo una visita a Belgrado nel 1996 Mandić divenne vittima di una gogna senza precedenti, accompagnata da una vera e propria gara tra chi cercava di affibbiargli varie etichette, da “grande serbo“ a komunjara [termine spregiativo per indicare i comunisti] (che assurdità bollare Mandić come comunista! Soprattutto se pensiamo che nel cosiddetto Libro bianco di Stipe Šuvar del 1984 Mandić occupa un posto speciale tra gli intellettuali jugoslavi considerati anticomunisti, e quindi scomodi).
Mandić criticava duramente la variante jugoslava del socialismo e il sistema monopartitico (che, in ultima analisi, divorò se stesso), assumendo, al contempo, un atteggiamento altrettanto critico nei confronti del capitalismo, ma anche nei confronti dell’UE che, secondo Mandić, aveva relegato la Croazia ad una posizione semi-coloniale.
Mandić ha osato definire tutti gli stati sorti dalle ceneri dell’ex Jugoslavia “falliti” ed è riuscito a scuotere la (in)coscienza di svariati milioni di cittadini dell’intera area post-jugoslava sostenendo che sia il Regno di Jugoslavia che la Jugoslavia di Tito fossero una necessità storica. Parlando della continuità dell’unità jugoslava, interrotta nel 1990, Mandić dava fastidio soprattutto a quelli che continuavano ad approfittare della nuova realtà politica. Tutto quello che ha scritto sui nazionalisti croati vale anche per quelli serbi e bosgnacchi (mi limito a citare solo quelli che conosco meglio, essendo il nazionalismo un fenomeno diffuso in tutti i paesi ex jugoslavi).
Ad attirare particolare attenzione dell’opinione pubblica sono state le osservazioni critiche di Mandić riguardanti la cosiddetta produzione letteraria contemporanea. Molti aspettavano con impazienza la pubblicazione delle sue recensioni che uscivano ogni sabato nell’inserto del settimanale di Jutarnji list (il pungiglione di Mandić non ha risparmiato nemmeno il romanzo di Miljenko Jergović Vjetrogonja Babukić i njegovo doba [Il furfante Babukić e il suo tempo].) Erudito, grande conoscitore dell’arte e della filosofia, poliglotta, Mandić non era un uomo malizioso. Non ha mai superato i limiti del sarcasmo, eppure le sue recensioni spesso suscitavano forte malcontento, soprattutto tra le scrittrici croate, che hanno persino lanciato una petizione chiedendo alla redazione di Jutarnji list di togliere lo scomodo “pungiglione della critica”!.
Forse ora Mandić ha finalmente trovato la pace, e un po’ di quiete, essendo stato costantemente tormentato dal ricordo della sua figlia unica, Ada, scomparsa una ventina di anni fa.
A quelli che non fuggono dagli interrogativi sull’epoca in cui viviamo e (se, per caso, leggono) sulla letteratura, Mandić ha lasciato in eredità l’inquietudine, o meglio, il bisogno di sentirsi inquieti. In ogni senso e in ogni contesto. Anche riguardo alle questioni su cui siamo in totale disaccordo con il grande polemista.
Frammenti tratti da alcuni testi e dichiarazioni rilasciate da Igor Mandić
Il declino della polemica è il segnale che c’è qualcosa che non funziona all’interno di una società, è la conferma che le forze conservatrici, puritane, bigotte e burocratiche hanno preso il sopravvento sull’affiorare spontaneo e libero dello spirito di negazione. Una cultura senza polemica è una cultura morta. (Cuore tenero)
È una polemica contro un regime comunista ormai privo di vigore e dovrebbe essere osservata in quest’ottica – ho sfruttato la figura di un grande scrittore per mettere in luce gli effetti negativi di un sistema al quale anche quello scrittore ha in parte contribuito, ma in quanto scrittore, di certo non può esserne considerato responsabile [...] Come ho già detto, affrontando Krleža e i filokrležijanci [sostenitori di Krleža] di allora, peraltro tutti falsi, ho cercato di fare effettivamente i conti con il sistema. Ecco perché il mio piccolo libro è un libro filokrležiano [...] Nei libri di Krleža si cela il tritolo e chi decide di accenderlo rischia di far saltare in aria sia la società che se stesso. Perché tutto ciò che faceva parte di quel marcio sistema tuđmaniano, iniziato negli anni Novanta, entrava in rotta di collisione con il krležijanstvo [la visione del mondo krležiana]. In altre parole, tutte le osservazioni critiche su quel sistema giustificano il krležijanstvo. È un fenomeno contraddittorio, così come lo stesso Krleža è contraddittorio, ma lui è talmente grande che non può che essere contraddittorio. (tratto da un’intervista con Mandić in cui parla del suo libro Addio, caro Krleža)
Descrivendo i nostri vicini come paesi esteri, quell’antologia ha dimostrato che ci siamo accampati all’interno di un piccolo monolocale. In questa tendenza a isolarsi ho riconosciuto il peggiore timore egomaniacale, caratteristico della piccola borghesia, di dover misurarsi con i propri vicini. Improvvisamente si è cominciato a considerare la letteratura croata come una [grande] letteratura circondata da letterature insignificanti, e qui mi riferisco soprattutto alla letteratura serba, perché le altre letterature, come quella slovena o macedone, a noi non interessano affatto. Tale rappresentazione della letteratura serba è vergognosamente sprezzante perché esclude molti scrittori serbi di spessore internazionale, volendo così probabilmente dimostrare che la letteratura croata è più grande di quella serba. È una vergogna dell’intellettualismo croato. (frammento di un’intervista in cui Mandić esprime la sua opinione sul Antologia degli scrittori stranieri, pubblicata nel 2001 dalla casa editrice zagabrese Školska knjiga)
Sono stato battezzato e andavo regolarmente in chiesa, ma mi dava fastidio ascoltare le urla sfrenate di chi credeva che essere croati fosse un grande pregio. Le persone intelligenti rifiutano questa idea. Qual è l’essenza dell’essere croati? Odio nei confronti dei serbi? A me queste cose non interessano!
Il mio lavoro rimarrebbe così com’è ora anche se nessuno dovesse apprezzarlo. Non ho mai goduto di stima sociale durante il socialismo, né tanto meno ne godo oggi. Durante l’epoca socialista ho pubblicato i miei primi venti libri. Non ho mai ricevuto alcun riconoscimento sociale né istituzionale. Non rimpiango i premi mancati, se non per motivi economici. Non ho ricevuto alcun altro tipo di riconoscimento, a parte i gesti occasionali dei semplici cittadini che incontro per strada. Per me significa molto quando una donna che non conosco mi si avvicina dicendomi: “Signore, grazie per essere vivo“. Ti rendi conto? Una volta ho chiesto ad un tassista: “È libero?“, e lui mi ha risposto: “No, ma lei lo è“. Poi mi sono seduto e gli ho regalato il mio libro Diario dei giorni precedenti alla morte. Queste cose per me contano molto di più di quegli accademici che mi salutano dicendo: “Servus, amico“.
Ho dimostrato tolleranza nei confronti di molte persone, ho appoggiato decine di scrittori che successivamente sono diventati famosi, ma non hanno mai mostrato alcuna gratitudine nei miei confronti, perché, come qualcuno ha detto giustamente, nessuna buona azione resta impunita. Ogni buona azione che ho compiuto mi si è ritorta contro. Man mano che in Croazia cambiavano le circostanze politiche, si susseguivano le affermazioni del tipo: “Sì, ha scritto recensioni positive dei miei libri, ma lui è... Cosa? Serbofilo, jugoslavo, un fervente jugoslavo, e persino cetnico. Ha scritto cose positive su di me, ma...”. Per ogni azione positiva si è costretti a pagare conseguenze negative.
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