Il colore rosso della terra istriana, un colore unico, frutto della relazione tra la roccia e il clima. Un colore indimenticabile, come i sapori dei frutti di questa terra. Proseguono le tappe istriane del nostro ciclogirovago Fabio Fiori
Tante volte ho navigato lungo la costa istriana. Nella mia memoria ha i colori di un’acqua blu profonda che appariva d’incanto all’alba, dopo una notte trascorsa tenendo la prua sul lampeggio di Promontore o su quello più settentrionale di San Giovanni in Pelago. Un blu stupefacente, nel confronto con il diversissimo azzurro-verde delle basse acque occidentali, altrettanto bello. Poi avvicinandosi alla riva c’era il bianco della pietra e il verde della macchia. Questa mattina, pedalando sulla strada costiera che va da Salvore a Umago, anche se la prospettiva è opposta i colori sono gli stessi. Se ne aggiunge però un quarto, potentissimo, quello della terra rossa istriana. Un colore unico, frutto della relazione tra la roccia madre calcarea e il clima padre istriano. Padre, geologicamente parlando, perché è lui che feconda la roccia, da cui origina questa terra unica, per composizione chimica e, di conseguenza per colore. Una terra che, mi ha insegnato Stefano, amico geologo e compagno marinaio, è il frutto di un lento processo di idrolisi e ossidazione del calcare. Semplificando quindi, l’acqua scioglie la pietra e si porta via la parte carbonatica, favorendo il deposito degli idrossidi di ferro e alluminio, insieme a parte della silice, che danno questo colore. Indimenticabile, come i sapori dei frutti di questa terra. Oggi quelli dei fichi che mi fermo a raccogliere e mangiare, immancabile complemento dei pasti randagi del ciclogirovago. “Feigenbaum… Albero di fico, da quanto intendo gravido di senso / che tu la fioritura quasi al tutto scansi / e nel frutto, ratto a suo tempo deciso, premi, / di fama schivo, il tuo puro segreto”; leggo e trascrivo dalla mia guida poetica, dall’Elegie duinesi di Rilke.
Umago, prima breve tappa. Giusto il tempo di leggere le poche righe sulla sua storia in una vecchia guida del Touring, stampata nel 1920. Volume secondo de “Le Tre Venezie”, con un paragrafo dedicato alla costa istriana occidentale, da Trieste a Pola per mare. Sì, per mare con un buon servizio di piroscafi che in 8 ore portavano dal Molo della Pescheria triestino al Molo di San Teodoro polesano, con ben 11 scali, di cui 10 nei porti di terraferma e uno alle isole Brioni. Solo dopo sono indicati tragitti alternativi, “per ferrovia” e “per carrozzabile”, tutti interni. Queste guide, oltre alla qualità insuperata, in termini di descrizione del patrimonio architettonico e artistico, permettono viaggi in tempi e modi differenti da quelli attuali, perciò seducenti.
Senza rimpianti, anzi con allegrezza futurista risalgo in sella al mio ferreo corsier, alla volta di Cittanova. Trenta chilometri lungo una strada che è ancora trafficata, malgrado sia settembre, e dove è arrivata una modernità fatta di centri commerciali, residence turistici, villette dozzinali. Non illudetevi quindi di pedalare lungo silenziose ciclabili o bucoliche stradine, ma su una provinciale a due corsie, dove il ciclista non è benvenuto. Ma stufo del traffico, qualche chilometro prima di Cittanova svolto a destra in direzione del mare e lascio la D75. Come spesso accade a chi sceglie un lento viaggiare che da più spazio a curiosità e imprevisti, in un minuto ritrovo un magico silenzio dentro alla corte del Monastero di Dajla. A sinistra un palazzo in stile neoclassico, a destra il mare. Sui due lati più corti, a occidente la facciata barocca della chiesa, a oriente la sua copia in stato di abbandono da decenni, come il palazzo. Non conosco il luogo e la sua storia. Mi siedo perciò sugli assolati gradini della chiesa, con l’idea di leggere qualcosa in rete. Non faccio in tempo a digitare qualche parola su Google, che dal portale esce un’anziana signora che mi saluta. Malgrado l’età, l’aspetto rivela bellezza e forza contadina. Ha in mano un mazzo di fiori appassiti e mi saluta in croato, accorgendosi subito che sono italiano, nonostante il mio “dobro jutro”.
“Buongiorno. In bicicletta? Da dove viene?”
“La notte scorsa ho dormito a Salvore”.
“Conosceva questo posto?”
“No. Che meraviglia…”
“Malgrado tutto!”, risponde lei interrompendomi e scuotendo la testa. “Qui se non si mettono d’accordo in fretta crolla tutto”, mi dice indicando con la mano destra libera il palazzo.
Sarà lei, Maria “con o senza la j… un nome buono per tutti, sloveni, croati e italiani”, figlia dell’ultimo contadino al servizio dei monaci benedettini, a raccontarmi la storia di quest’oasi di pace. Nelle terre limitrofe il padre, con cui parlava in italiano, lavorò fino alla Seconda Guerra Mondiale, perché poi nel 1948 il monastero venne soppresso e divenne una casa di riposo. Quarant’anni dopo venne chiuso e da allora è abbandonato, al centro di una diatriba sulla proprietà che vede coinvolta la diocesi locale e i benedettini di Praglia, vicino a Padova, che sono stati qui dall’Ottocento.
“Tutto fermo, per ora… forse per fortuna. Perché io sono vecchia e voglio continuare a viverlo liberamente questo posto”
“Guarda quel melograno”, mi dice indicandone uno nel piccolo giardino che s’affaccia sul mare. “Raccogline una e valla a mangiare in cima al molo, così che gli dèi ti proteggano in viaggio”.
Senza aprire bocca, ringrazio con un sorriso e lei ricambia stringendomi la mano. Raccolgo una melograna verde-rossa, attraverso l’elegante portale bianco che da accesso al molo e vado a sedermi in testa. La melograna è aspra, non ancora matura e sanguigna; il mare è giovane, fresco e perturbante, immemore di entusiasmi e delusioni, di gioie e dolori dei tanti che qui sono arrivati, che da qui se ne sono andati.
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