"Vagamondi siamo noi che pedaliamo per scoprire, luoghi esteriori e interiori, vicini o lontani". Quel vagamondo di Fabio Fiori prosegue il suo viaggio in in bicicletta attraversando l’Istria sudorientale interna
Celesti arrotini, ci chiamava Gianni Brera. Noi, che andiamo in bicicletta, per sport o turismo, per lavoro o diletto, per scelta o necessità, comunque accomunati, consciamente o inconsciamente, da un esercizio salutare per il corpo e per l’anima. Vagamondi, sempre riprendendo un neologismo di Brera. Vagamondi, aggiungo io, siamo noi che pedaliamo per scoprire, luoghi esteriori e interiori, vicini o lontani.
Anch’io sono un celeste arrotino, che attraversa ora un nero bosco incendiato, quello che uscendo da Pola in direzione sud, attraversa la Premanturska Cesta. Paesaggio visivo e olfattivo infernale, ciò che rimane dopo il grande incendio dei mesi scorsi, partito dal vicino villaggio di Valdibecco. I pini più grandi, pericolanti, sono stati tagliati, solo la corteccia e lo strato più esterno è carbonizzato, mentre l’interno è d’un arancio acceso e l’odore di resina si mescola con quello di bruciato. Poi, dopo meno di un chilometro tutto cambia. La macchia ritorna verde, vitale, malgrado la siccità che le poche gocce di questi giorni non hanno risolto, e il suo profumo si mescola con quello del mare che sta vicinissimo tra le due rive della penisola di Promontore. Una lunga, sottile, frastagliata lingua di terra, di otto chilometri, circondata da un mare basso, azzurro e quieto a est e da uno profondo, blu, qualche volta tempestoso a ovest. L’unica strada corre sul versante orientale, fino all’omonimo villaggio.
La Chiesa di San Lorenzo a destra, il campanile a sinistra; da secoli anche punto cospicuo per i naviganti che entrano o escono dal Golfo del Quarnero. Qualche konoba, un forno, un paio di alimentari e altrettanti bazar. Poco oltre finisce la strada asfaltata e, per una bianca, si entra nel Parco Kamenjak. Istituito nel 1996, ha un potenziale enorme, in termini paesaggistici e naturalistici. Scrivo un potenziale perché molto va sprecato con il barbaro ingresso a pagamento di auto e moto che, anche nei giorni feriali di settembre, trasformano la strada principale in un polverosissimo, rumoroso, trafficato percorso rally. Tanto che pedalando mi chiedo se volend
o per forza (e in maniera scriteriata!) far entrare le auto, non sarebbe più funzionale e meno inquinante, anche per la vegetazione costretta a un’eterna tempesta di sabbia, asfaltare la strada principale e realizzare un paio di grandi parcheggi, vietando almeno l’accesso alle strade secondarie.
Solo lasciando la bici e inoltrandosi a piedi nei sentieri occidentali, ritrovo l’antico, meraviglioso silenzio del luogo. Gran teatro di luce, quella riflessa dal mare che lambisce le selvagge coste calcaree che in alcuni tratti scendono a precipizio nell’acqua. Arrivo a Rt Kršine, estrema propaggine sudoccidentale. Un tuffo e una nuotata mi tolgono di dosso la polvere, ma anche la rabbia per quell’inopportuno, inquinante rodeo automobilistico. Sulle scogliere c’è poca gente che come me si gode il mare, l’aria e la luce.
Riapro Rilke, leggo e trovo, ancora e ancora, le parole giuste: “Siamo come ogni cosa che si schiude, / e nient’altro che questa beatitudine/ … L’infinito con noi passa e si perde. Sii tu la bocca che ce lo fa udire, / tu sii: tu che di noi dici l’essenza.”. La beatitudine che regala questo luogo e quest’attimo, l’onda che instancabile scolpisce e musica la pietra, il lampeggio del Faro di Porer, sull’omonimo scoglio davanti a me, che incomincia ora, subito dopo il tramonto, a guidare il navigante in queste magnifiche e perigliose acque.
Dopo una notte passata in tenda, scossa dal vento di un temporale che ha portato solo poche gocce, risalgo in sella per lasciare la costa, pedalando sulla D66 che va da Pola a Fiume e che sulla mia carta è già indicata come Jadranska Magistrala, la mitica strada costiera jugoslava costruita a partire dagli anni Cinquanta del Novecento, che arriva a Budua in Montenegro. Sulla D66, che attraversa l’Istria sudorientale interna, c’è poco traffico e posso godermi un paesaggio collinare in cui campi agricoli si alternano a boschivi. Un territorio che cambia scendendo nella valle del Fiume Arsa, un torrente lungo meno di 30 chilometri che dal monte Maggiore sfocia nel profondo e ampio golfo omonimo. Uno zig-zag di 12 chilometri, un’insenatura un tempo funzionale al commercio del carbone che si estraeva nelle miniere locali e oggi a quello della pietra delle cave costiere. In Val d’Arsa, facevano scalo i trabaccoli chioggiotti su cui ha navigato anche il giovane scrittore Giovanni Comisso cent’anni fa. Viaggi marinareschi raccontati nella raccolta “Il porto dell’amore”, del 1924.
Arrivo ad Arsia nel tardo pomeriggio, con cielo coperto da una compatta coltre di altostrati e una luce metallica che rende ancor più metafisica la piazza, completamente deserta. Città di fondazione, inaugurata dal regime fascista nel 1937, ospitava quasi 10.000 persone, con una economia completamente legata alle miniere di carbone. Una storia relativamente breve che dopo alterne vicende politiche e gravissimi incidenti mortali, si concluse negli anni Novanta del Novecento. Ma, malgrado tutto, le geometrie della piazza e le architetture della Chiesa di Santa Barbara, progettate dall’architetto triestino Gustavo Pulitzer-Finali, hanno un indiscusso fascino razionalista che il tempo e una certa incuria per contrasto accentuano. Acquisto una birra gelata al bar e la bevo seduto sui gradini della chiesa. Alle mie spalle l’imponente, severa immagine in bassorilievo di Santa Barbara, mi suggerisce che: “Sarebbe tempo, ora, che gli dèi uscissero / dalle cose abitate …” un tempo dall’uomo, là nel buio dove i minatori coltivavano: pozzi, gallerie, cunicoli, camere e tutti quei luoghi sotterranei, di fatica e speranza, di dolore e audacia.
PS
Agli scrittori in bicicletta, come recita il sottotitolo, è dedicato I vagamondi, di Claudio Gregori (66THAND2ND, 2023). Un libro che racconta passioni e peripezie ciclistiche di scrittori e scrittrici, trenta microstorie da Maurice Leblanc a Gabriel Garcia Marquez, passando per Mark Twain e Marie Curie, Pier Paolo Pasolini e Oriana Fallaci. Microstorie che compongono una lunga vicenda che si dipana dal 1894 con l’articolo “Elle trionphe”, dove chi trionfa è la bicicletta, fino al 1964 quando l’astronauta Theodore Freeman dice: “Oh sì! Mi piace molto andare in bicicletta, in bicicletta è tutto aperto e senti il vento sopra la faccia … senti profumi non il puzzo di benzina”.
Alla “Bianca città del carbone”, inaugurata nel 1937, e alle miniere di Arsia sono dedicati alcuni brevi cinegiornali visibili online sul sito dell’archivio dell’Istituto Luce .
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