Il vertice europeo di Riga si è concluso senza alcuna apertura nei confronti della Georgia, neppure l'agognata liberalizzazione dei visti. Nel documento finale, le “prospettive europee” dei paesi del partenariato orientale divengono mere “aspirazioni”

28/05/2015 -  Simone Zoppellaro Yerevan

Amaro in bocca per la Georgia, al ritorno dal summit di Riga. Una delusione più che annunciata, certo, e tuttavia dura da digerire, dato il momento per molti aspetti difficile attraversato dalla piccola nazione caucasica. Dal quarto vertice fra l’Unione europea e i sei paesi facenti parte del programma del partenariato orientale lanciato nel 2009 (Ucraina, Moldavia, Bielorussia, Azerbaijan e Armenia, oltre alla già citata Georgia), tenutosi a Riga il 21-22 maggio, non sono emerse particolari sorprese, niente miracoli dell’ultimo minuto: l’UE, che al momento non chiude le porte ai suoi partner dell’est, si fa però ancora più lontana. Soprattutto per quel che riguarda il Caucaso.

Così, rispetto al summit precedente, quello di Vilnius del novembre 2013, l’aria per la Georgia è più pesante e appaiono raffreddati gli entusiasmi, come si è visto nella piccola protesta inscenata a Riga – dove un gruppo di dimostranti ucraini e georgiani ha chiesto a gran voce la liberalizzazione immediata dei visti – ma anche nel finale del vertice, piuttosto burrascoso. Nel summit precedente invece, a Vilnius, Tbilisi aveva posto le basi per la firma, in seguito concretizzata, dell’Accordo di associazione con l’UE, nonché per la creazione di una cosiddetta zona di libero scambio globale e approfondita (DCFTA) con Bruxelles.

L'ombra della Russia

Oggi, però, è tutto diverso: “L’ombra della Russia si è allungata sul summit di Riga”, ha dichiarato il premier belga Charles Michel a commento degli eventi. Una presenza, quella di Mosca, che torna ad affacciarsi ancora una volta sulla Georgia, non solo per i conflitti tuttora irrisolti dell’Abkhazia e dell’Ossezia del Sud, ma anche per un fenomeno in parte inedito per Mosca: il ricorso al soft power. Se la maggioranza dei georgiani continua a coltivare il doppio sogno di abbracciare al più presto UE e Nato, inizia a farsi largo negli ultimi mesi – complice la Russia – una corrente in seno alla società georgiana sempre più propensa ad un riavvicinamento con l’ingombrante vicino.

Certo è che, da parte sua, dopo la crisi ucraina l’UE non pare più intenzionata ad allargare nell’immediato i propri confini a est o ad aprire ulteriori contenziosi con Putin. Già basta e avanza la Crimea, figuriamoci pensare di impegnarsi con altre due regioni fuori controllo e in mano de facto alla Russia come quelle ricordate sopra, in un territorio remoto come il Caucaso, estrema periferia d’Europa. Come ribadito in questi giorni dal presidente dell’UE, Donald Tusk: “Nessuno ha promesso che il partenariato orientale sarebbe stato un meccanismo di adesione automatica all’Unione europea”. Eppure non si può dire che Bruxelles – fino a poco tempo fa – abbia scoraggiato tali aspirazioni.

Da parte georgiana, pesa in primo luogo una crisi economica che, pur nella diversità dei contesti nazionali, sta investendo di recente tutto il Caucaso meridionale. Secondo i dati della Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo, riportati dalla stampa georgiana, la crescita del paese subirà per il 2015 un brusco rallentamento, passando dal 4,8% del 2014 al 2,3%. Se a questo si aggiunge il deprezzamento della moneta locale, il lari, che ha perso da novembre il 30% del suo valore rispetto al dollaro, registrando una delle peggiori performance valutarie al mondo, si avrà un quadro abbastanza completo della crisi.

Si tenga inoltre presente come l’Europa, al momento, sia un partner d’affari secondario per Tbilisi. Se si osservano le cifre riportate in questi giorni da Geostat, l’Ufficio Statistico Nazionale georgiano, si vede come fra i primi dieci partner commerciali del paese solo tre siano membri dell’UE: la Germania, che occupa il sesto posto della classifica, e poi Bulgaria e Italia, rispettivamente al nono e al decimo. In cima alla lista per import ed export, invece, ci sono Turchia, Azerbaijan, Cina, Russia e Ucraina. In quest’ottica, non stupisce lo scetticismo di molti rispetto ai benefici dell’accordo di associazione firmato nel 2014 con l’UE, e pare quasi inevitabile guardare ad est.

Aspirazioni, non prospettive

“Abbiamo fatto il massimo di quanto potevamo raggiungere oggi”, ha dichiarato – un po’ sulla difensiva – il presidente del Consiglio UE, Donald Tusk, nella conferenza stampa finale del summit. Una conclusione, come detto, tormentata e contraddistinta dal dibattito su un parola con la quale molti analisti hanno interpretato il senso di questo vertice. Nelle documento finale si parla infatti delle “aspirazioni europee”, anziché delle “prospettive” (termine ritenuto troppo vincolante e quindi espunto) dei paesi dell’est.

Un magro bottino per la Georgia, che ha investito sull’UE gran parte della sua credibilità internazionale, e costretta a incassare una risposta interlocutoria anche sull’altro tema caldo di questo summit: quello dell’eliminazione del visto d’ingresso nei paesi UE. Per questo punto, che la Moldavia ha già raggiunto nel 2014, Tbilisi ottiene una promessa vincolata alla condizione che, entro fine anno, Bruxelles riscontri il raggiungimento di determinati requisiti richiesti dal piano d’azione per la liberalizzazione dei visti.

Ciò è bastato perché il Primo ministro Irakli Garibashvili – che ha preso parte ai lavori del vertice – parlasse di un “successo per la Georgia”. Stando alle sue dichiarazioni, la mancata attuazione della liberalizzazione dei visti sarebbe dovuta piuttosto al ritardo con il quale il partito precedentemente al potere, il Movimento Nazionale Unito di Saakashvili, avrebbe iniziato il processo. “Il nostro governo ha fatto davvero un grande balzo in avanti, con questo summit”, ha aggiunto. In realtà, Garibashvili pare in una posizione sempre più precaria.

Delfino del miliardario Bidzina Ivanishvili, sorta di Berlusconi caucasico e fondatore del partito del Sogno georgiano, Garibashvili viene visto da molti come una figura debole, perennemente all’ombra del predecessore. Se a ciò aggiungiamo lo scontro istituzionale che lo vede impegnato con il presidente Giorgi Margvelashvili, e i numerosi rimpasti subiti dal suo governo negli ultimi mesi, comprenderemo bene la sua fragilità politica.

Ma a Riga non c’era solo il Primo ministro, a rappresentare la Georgia. Presente era anche l’ex presidente Mikheil Saakashvili, invitato a partecipare al meeting del Partito Popolare Europeo, partner del Movimento Nazionale Unito da lui rappresentato. Personaggio istrionico e controverso, dopo aver lasciato la Georgia – dove è attualmente ricercato per una serie di presunti reati, accuse interpretate dai suoi sostenitori come motivate politicamente – il nostro si è stabilito prima negli USA e quindi in Ucraina, dove è stato nominato a inizio anno consigliere del presidente Poroshenko. A nulla è valsa le richiesta di estradizione della Georgia, respinta da Kiev.


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