Si è conclusa lo scorso 17 agosto il 77° Locarno Film Festival. Tra i paesi più premiati la Lituania e la Georgia, la prima si è portata a casa il Pardo d'oro e il Pardo per la miglior regia, la seconda il Pardo per la sezione Cineasti per "Holy Electricity" di Tato Kotetishvili
Sono stati i Paesi ex sovietici più lontani dall’orbita russa, la Lituania e la Georgia, i protagonisti del 77° Locarno Film Festival , facendo incetta di premi. La Lituania, molto attesa con ben due titoli tra i 17 in lizza nel concorso internazionale, ha ricevuto ben tre dei cinque riconoscimenti ufficiali, compreso il Pardo d’oro a “Toxic” della giovane Saulé Bliuvaité. L’esordiente, che succede nell’albo dei vincitori all’iraniano “Critical Zone” di Ali Ahmadzadeh, ha ricevuto pure il riconoscimento di migliore opera prima e il premio della giuria ecumenica. Il Pardo per la miglior regia è andato all’altro lituano Laurynas Bareisa per “Seses – Drowning” (coproduzione tra Lituania e Lettonia), un dramma familiare che si è meritato anche un premio di gruppo per l’interpretazione a Gelminė Glemžaitė, Agnė Kaktaitė, Giedrius Kiela e Paulius Markevičius.
Si tratta della prima vittoria ex sovietica dai tempi del russo-kazako “La mia vita sul bicorno” di Ermek Shinarbaev, premiato nel 1993. E si somma con il Pardo nella sezione parallela Cineasti del presente andato all’ottimo georgiano "Holy Electricity" di Tato Kotetishvili.
Il bel “Toxic”, che rivela la personalità marcata della regista, coniuga l’aspro realismo di tanti momenti con la stilizzazione di alcune scene seguendo le vicende di due giovanissime aspiranti modelle, Marija e Kristina, una timida, scontrosa, slanciata e zoppa, l’altra più espansiva ma con qualche problema di linea per rientrare nei canoni di bellezza. Le adolescenti si trovano combattute tra inseguire i sogni, vivere la loro età, dover diventare adulte troppo in fretta e subire le pressioni e le richieste del mondo intorno a loro.
Ritirando i premi, i cineasti lituani hanno espresso solidarietà all’Ucraina aggredita dalla Russia.
La giuria presieduta dalla la regista austriaca Jessica Hausner (“Lourdes”) ha premiato film più narrativi e classici, ignorando lavori arrischiati e innovativi come il turco “New Dawn Fades” di Gürcan Keltek e il portoghese “Fogo do vento” di Marta Mateus.
Il Premio speciale della giuria, il secondo per importanza, è stato assegnato al “Mond – Moon” di Kurdwin Ayub, la regista austriaca d’origine curda che si era fatta conoscere con “Sonne”. È un’altra storia di ragazze che cercano la loro strada, questa volta in Giordania, un solido thriller politico-sportivo che si perde solo un poco nel finale: un’ex campionessa di arti marziali va ad allenare tre sorelle recluse in casa dalla famiglia.
Niente premi invece al turco “Yeni șafak solarken - New Dawn Fades” di Gürcan Keltek, tornato a Locarno per la terza volta, dopo il lungometraggio d’esordio “Meteore” nel 2017 premiato nella sezione Cineasti del presente e il corto “Gulyabani” presentato l’anno successivo. “New Dawn Fades” è stato sicuramente il film più originale incluso nel concorso, un affascinante e ambizioso trip mentale che esplora Istanbul con la macchina da presa quasi mai ferma. Una miscela di documentario e viaggio spirituale, potente e ipnotica cui bisogna lasciarsi andare sulla spinta di immagini bellissime (di Peter Zeitlinger, direttore della fotografia di molti lavori di Werner Herzog e non solo) e una musica elettronica che elabora sonorità varie a partire da quelle tradizionali. Un film estatico e non estetizzante, sul guardare (azione sulla quale ci si sofferma spesso), sulla lotta tra presente e passato e critico sulla Turchia attuale, tanto da ripetere più volte che i turchi di oggi sono nemici del passato. La componente metaforica (c’è pure una donna che si chiama Anatolia) è evidente, anche se non del tutto spiegata, ma non prende il sopravvento su un’opera magnetica che si affida soprattutto alle immagini. Appare una Istanbul fascinosa e misteriosa, lontana da una visione turistica, che affonda le sue origini nella colonia di Calcedonia, non lontana da dove sarebbe sorta Bisanzio. In più c’è l’elemento, anche questo suggerito e non risolto, del padre di Akin criminale serbo e della famiglia (la madre è interpretata da una cantante bosniaca) fuggita dall’ex Jugoslavia al tempo della guerra.
Nella sezione Cineasti del presente, meritatissimo Pardo al georgiano "Holy Electricity" di Tato Kotetishvili, racconto di iniziazione del sedicenne Gonga che ha appena perso il padre. Si tratta di un esordio alla regia nel lungometraggio dopo una lunga carriera da direttore della fotografia e si vede nella precisione e cura delle inquadrature, fin da quella iniziale della veglia funebre.
L’adolescente si ritrova con il cugino più grande Bart, che aveva promesso di occuparsene, ma è indebitato e vive alla giornata. Nel loro girovagare per Tbilisi, i due trovano delle croci di ferro e, per caso, provano a illuminarle con un neon e a venderle. È l’inizio di una stramba odissea metropolitana, un racconto di iniziazione per guadagnare qualche soldo e alla ricerca di compagnia, di affetto e di amore. Li aspettano una serie di incontri, tra strade e case private, con musica, canti, pranzi, la vita delle donne separata da quella degli uomini, i travestiti, un anziano batterista e una giovanissima venditrice rom. Tante situazioni che sembrano slegate tra loro e narrativamente poco coese, ma il senso e il valore dell’opera stanno nell’episodicità e nell’assurdità dei fatti, giocando anche con gli stereotipi caucasici.
In Cineasti menzione speciale al serbo “Kada je zazvonio telefon – When the Phone Rang” di Iva Radivojević. Un giovedì mattina del 1992 alle 10.36 l’undicenne Lana, sola in casa, riceve la telefonata che annuncia la morte del nonno, un colonnello dell’esercito jugoslavo, mentre sta guardando in televisione l’unico programma possibile, una versione della Carmen. È un momento decisivo, che costringerà la famiglia ad andarsene. La regista, già nota per “Aleph” del 2021, unisce parti di finzione e materiali d’archivio, con la voce narrante che accompagna e collega, per raccontare la fine dell’infanzia mentre scoppia la guerra. Una ragazzina si ritrova dentro l’età più matura alla quale si stava affacciando, tra il dover partire, il lasciare tutto indietro, senza sapere cosa portare con sé o sapere se tornerà. Soprattutto c’è la perdita dei legami e degli amici, mentre il ripetersi ossessivo dell’inquadratura sull’orologio fermo all’ora della telefonata la riporta alla telefonata cruciale.
Fuori concorso sono state proiettate due opere molto teoriche del romeno Radu Jude. “Sleep #2”, film di montaggio utilizzando le immagini delle camere di sorveglianza sulla tomba di Andy Warhol a Pittsburgh (Online dal 2013) tra gennaio 2022 e gennaio 2023. “Sleep” è anche il titolo di un film di Warhol del 1964. Anche “Eight Postcards from Utopia”, in coregia con il filosofo Christian Ferencz Flatz, è un film di montaggio, che racconta il Paese nell’epoca della transizione dal socialismo al capitalismo utilizzando esclusivamente le immagini degli spot pubblicitari realizzati dall’inizio degli anni ‘90 fino al 2007 del compimento della transizione.
Jude e Flatz partono dal paradosso storico identitario dei romeni che si credono eredi sia dei Daci sia dei Romani. E poi si entra nel mondo di pubblicità spesso naif che partono da un modello di televisione comunista per arrivare a quelle all’americana. I due autori hanno montato centinaia di filmati, dapprima artigianali e poi sempre più occidentalizzati che vanno dal kitsch all’ironico (anche sul passato recente), alcuni utilizzati per intero, altri solo per alcune inquadrature. Una svolta fu la corsa alla privatizzazione dell’1 agosto 1995, che impresse un cambiamento anche nel linguaggio degli spot. Ci sono quelli che insistono sul carattere nazionale, quelli che propongono stereotipi sui rom o su Paesi stranieri, finché, nel capitolo 6, compaiono quelli erotici. La cartolina più originale è la settima, muta, quasi senza sonoro, sull’erotizzazione più o meno esplicita dei messaggi. I registi non spiegano nulla e lasciano tutto il compito di orientarsi allo spettatore, sia nei percorsi più semplici (e nei montaggi più divertenti) sia nei passaggi più complessi che avrebbero magari bisogno di una guida. L’intento è più filosofico e di riflessione sull’immagine che divulgativo.
Sempre dalla Romania molto interessante tra i cortometraggi dei Pardi di domani “On the Impossibility of an Homage” di Xandra Popescu. Un corto documentario che vorrebbe essere un ritratto dell’anziano ex ballerino e coreografo Ion Tugearu, ma si scontra con l’impossibilità del titolo e con la questione: “Chi è il responsabile di un ritratto, l’autore o il soggetto?”. La regista lo filma osserva le prove di un ballerino, consigliarlo e esprimere le sue idee di balletto. Tugearu afferma che il ballerino e il coreografo sono inventori, si sente un uomo d’arte, racconta di aver ballato al Bolshoj e in tournée in America. Ricorda di essere stato rifiutato sette volte al provino per l’Opera di Bucarest, anche se era già molto bravo e preparato, perché additato per omosessualità, pur non sapendo ancora di cosa si trattasse. Nel corto ci sono riprese di lezioni, interviste, vecchie foto, ma quando arriva il materiale d’archivio degli anni ‘70, si vede concretamente ciò di cui Tugearu aveva parlato a proposito del ballare e dell’arte.
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