Nel 2016 dovrebbe partire all'Aja la Corte speciale sui presunti crimini dell'UÇK. Prevedibili forti ripercussioni sulla vita politica a Pristina, col neo-presidente Hashim Thaçi nella lista dei possibili imputati
Questo articolo è stato originariamente pubblicato sul sito dell'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI).
7 aprile 2016. Pristina, capitale del Kosovo, è addobbata a festa per la cerimonia di entrata in carica del nuovo capo di stato. E' Hashim Thaçi, leader del Partito democratico del Kosovo (PDK), ex leader militare dell'Esercito di Liberazione del Kosovo (UÇK) e uomo politico che il 17 febbraio 2008, in qualità di premier, ha dichiarato la sospirata quanto contestata indipendenza dalla Serbia.
La sua elezione - a prima vista scontata - è però accompagnata da proteste furiose da parte dell'opposizione, che contesta la legittimità del voto. E come se non bastasse, un dubbio ingombrante aleggia sulla cerimonia: Thaçi sarà il primo presidente del Kosovo imputato per crimini contro l'umanità?
La domanda è tutt'altro che accademica. Entro il 2016 all'Aja (Paesi Bassi) dovrebbe inaugurare la sua attività la Corte speciale sull'UÇK (ufficialmente - Kosovo Relocated Specialist Judicial Institution) voluta dall'Unione europea per giudicare i presunti crimini commessi dalla guerriglia albanese nel triennio che va da inizio 1998 a fine 2000.
Alla base della nuova istituzione giudiziaria c'è il famoso e discusso rapporto presentato nel 2010 dal senatore svizzero Dick marty in qualità di rapporteur al Consiglio d'Europa. Nel “rapporto Marty” leader di spicco dell'UÇK - e oggi leader politici - vengono accusati di crimini commessi durante e dopo il conflitto armato che coinvolse la Nato e che portò al bombardamento della Jugoslavia di Milošević.
Vittime delle violenze sono soprattutto serbi e rom, ma anche albanesi kosovari ritenuti “collaborazionisti” o oppositori politici della leadership dell'UÇK. Marty parla di omicidi, deportazioni, privazione di libertà, torture, stupri, ma anche di un'accusa particolarmente infamante che colpisce più di ogni altra l'immaginario collettivo: l'uccisione e l'espianto di organi a prigionieri a fini di lucro. Nel suo rapporto, Hashim Thaçi viene presentato sotto una luce sinistra, come “il più pericoloso dei boss criminali dell’UÇK”.
Vista la gravità delle accuse, l'UE ha reagito creando una Special Investigative Task Force (SITF), che dopo tre anni di indagini, nel 2014 ha sostanzialmente confermato la fondatezza del “rapporto Marty”. Il passo successivo è stata la creazione della Corte speciale, messa in piedi con una formula che rappresenta un complicato gioco d'equilibrismo. La corte fa infatti legalmente parte del sistema giuridico kosovaro (non si tratta quindi di una corte internazionale), ma avrà sede all'Aja e sarà composta esclusivamente di giudici internazionali.
La sede extraterritoriale è ritenuta necessaria per proteggere i testimoni da pressioni e minacce, problema che ha minato molti dei processi ad ex leader UÇK già tenuti dal Tribunale internazionale per l'ex Jugoslavia (ICTY), e spesso terminati in contestate assoluzioni. Il processo a Ramush Haradinaj, ad esempio, ha visto la mai chiarita morte violenta di alcuni testimoni, e il rifiuto di altri di apparire davanti alla corte, tanto da rendere necessaria – caso unico nella storia dell'ICTY – la parziale ripetizione del dibattimento. Anche i processi tenuti in Kosovo da giudici internazionali hanno spesso visto testimoni ritrattare o rifiutare di presentarsi in aula.
L'istituzione della SITF prima e della Corte speciale poi non rappresentano una bocciatura solo per il sistema giudiziario kosovaro, ma in modo implicito anche per la stessa missione europea EULEX, lanciata ambiziosamente nel 2008 dall'UE con l'obiettivo di rafforzare stato di diritto e istituzioni in Kosovo. Secondo la stessa UE, evidentemente, EULEX non ha né la forza né la capacità per gestire casi così spinosi e delicati.
Le sfide di fronte alla Corte speciale sono molte e complesse. Da una parte c'è la menzionata necessità di proteggere i testimoni, compito reso difficile dalle dimensioni ridotte del Kosovo, che non permettono di rilocare facilmente chi si espone in tribunale. Altrettanto difficile sarà provare crimini commessi ormai 15 o 16 anni fa, con molti dei protagonisti e delle prove ormai scomparsi. Non è poi scontato che le istituzioni kosovare - oggi in gran parte controllate dall'élite politica che la corte vuole mettere alla sbarra - siano pronte a collaborare pienamente con la corte. Restano infine poco chiari gli strumenti di finanziamento dell'attività del tribunale, che avranno peso determinante nello stabilire il numero e la qualità dei procedimenti iniziati e portati a giudizio.
La sfida più grande, però, ha a che fare con la futura gestione politica delle eventuali condanne. Larga parte dell'opinione pubblica kosovara vede infatti nella creazione della corte un tentativo di infangare quella che viene considerata una “guerra giusta”, condotta dall'UÇK per liberare il Kosovo dall'oppressore serbo. La stessa istituzione del nuovo tribunale, passata attraverso il voto nel parlamento di Pristina, ha subito pesante ritardi a causa della forte resistenza incontrata, sia in aula che nelle strade del paese.
Ancora non è chiaro quando la Corte speciale aprirà ufficialmente i battenti. Difficile misurare oggi l'impatto che il tribunale avrà sulla vita politica kosovara. Molto dipenderà dai nomi presenti nella lista degli imputati, soprattutto quello del neo-presidente Hashim Thaçi.
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