La grande manifestazione antigovernativa di inizio gennaio a Pristina inaugura un 2016 difficile per il Kosovo. Alla base delle tensioni scontro politico, stallo economico e inaugurazione della Corte speciale sull'Uçk
Questo articolo è stato originariamente pubblicato sul sito dell'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI).
Decine di migliaia di persone in piazza, pietre e bottiglie molotov contro la sede del governo, scontri tra polizia e manifestanti con quattordici feriti e ventiquattro arresti. Si è aperto così - con la larga e agitata manifestazione del 9 gennaio nel centro della capitale Pristina - il 2016 del Kosovo, che si preannuncia difficile e irrequieto.
A muovere la protesta è il “no” dell'opposizione allo storico accordo del 2013 tra Kosovo e Serbia (da cui Pristina si è dichiarata indipendente nel 2008) sulla normalizzazione delle relazioni reciproche, intesa voluta e facilitata dall'Unione europea.
Un “no” che si concentra soprattutto sul punto principale dell'accordo: la creazione di un'Associazione delle municipalità serbe che, anche grazie al finanziamento diretto di Belgrado, dovrebbe garantire larghi margini di autonomia ai comuni a maggioranza serba del Kosovo.
Una mossa che secondo l'opposizione – guidata dal movimento nazionalista radicale “Vetëvendosje” (Autodeterminazione) – significherebbe una spartizione de facto del paese lungo linee etniche, sul modello di quanto accaduto in Bosnia-Erzegovina.
Per bloccare l'iter dell'accordo, che deve ancora essere ratificato da Pristina e Belgrado, l'opposizione kosovara boicotta con ogni mezzo i lavori parlamentari dallo scorso ottobre, anche ricorrendo al lancio di fumogeni nell'aula dell'Assemblea nazionale, azione che a fine novembre è costata l'arresto al leader di “Vetëvendosje” Albin Kurti.
Dietro il contrasto con la Serbia, che in Kosovo infiamma ancora gli animi, si nascondono però tensioni e fratture più profonde. La prima si lega allo scontro irrisolto che divide la politica kosovara dalle ultime elezioni politiche, tenute nel giugno 2014.
I risultati disegnarono un parlamento spaccato, col partito più votato – il PDK del premier uscente Hashim Thaçi - da una parte e una coalizione di partiti d'opposizione decisi a detronizzarlo dall'altra. Il muro contro muro lasciò il paese senza governo per quasi sei mesi.
La crisi fu risolta quando il principale partito d'opposizione, la LDK di Isa Mustafa (ora premier) decise di voltare le spalle al patto anti-PDK, alleandosi agli ex-avversari per dar vita ad un governo di larghe intese avallato dagli internazionali, alla costante ricerca di stabilità nel paese. L'esito ha però esacerbato lo scontro tra esecutivo ed opposizione, sempre più disillusa sulla possibilità di arrivare al potere tramite le urne.
Al conflitto politico si aggiungono poi tensioni economiche e sociali. A otto anni dalla propria indipendenza formale (riconosciuta oggi da 111 paesi) il Kosovo ha fatto pochi passi avanti nella lotta alla corruzione endemica e a disoccupazione e povertà diffusa. Una situazione esplosiva che a cavallo tra il 2014 e il 2015 ha portato decine di migliaia di kosovari a chiedere asilo politico – con poche speranze di successo – in paesi come Austria e Germania.
Secondo molti analisti, proprio la mancanza di occupazione e di speranze per il futuro è alla base della tentazione jihadista: in questi anni decine i giovani kosovari che si sono arruolati nelle fila dello Stato Islamico per combattere nella guerra civile siriana.
Come se non bastasse, sulle teste della classe politica del Kosovo pende la prossima apertura della Corte speciale sui presunti crimini dell'Uçk (Esercito di Liberazione del Kosovo) che inaugurerà la propria attività proprio nel 2016.
La corte, malvista in Kosovo ma sostenuta dall'Unione europea, è nata dalle conclusioni presentate nel luglio 2014 dalla Special Investigative Task Force dell'UE, dopo indagini sulle accuse presentate nel 2011 dal rapporteur per il Consiglio d'Europa Dick Marty.
Secondo Marty alcuni leader di spicco dell'Uçk, tra cui Hashim Thaçi, durante e dopo il conflitto armato del 1999 si sono macchiati di crimini gravissimi, tra cui omicidi, rapimenti, detenzioni illegali, abusi sessuali e distruzione di edifici religiosi, commessi nei confronti di serbi e rom, ma anche di avversari politici albanese-kosovari. L'accusa più nota, ed anche la più infamante, è quella di aver espiantato organi a prigionieri di guerra, detenuti in campi situati in Albania, per venderli sul mercato nero.
La Corte, pur rimanendo parte del sistema giudiziario kosovaro, avrà sede in Olanda per superare il problema dell'intimidazione dei testimoni, che ha minato molti dei processi a leader Uçk già tenuti al Tribunale dell'Aja per l'ex Jugoslavia, quasi sempre terminati con contestate assoluzioni.
Se tra gli imputati ci sarà anche Hashim Thaçi, il patto su cui si basa l'attuale governo, e che prevede la presidenza della Repubblica per il leader del PDK, potrebbe vacillare: un lungo processo a Thaçi, che da leader dell'Uçk si è trasformato negli anni nel vero ago della bilancia del potere in Kosovo, potrebbe avere effetti pesanti su un panorama politico e sociale già estremamente delicato.
Anche il difficile percorso di consolidamento internazionale del Kosovo potrebbe risentirne. Nonostante la prossima entrata in vigore dell'Accordo di Associazione e Stabilità con l'UE, le prospettive di integrazione europea restano vaghe. E il recente no dell'UNESCO all'ingresso del Kosovo nell'organizzazione ha dimostrato che l'ostruzione della Serbia può ancora giocare un ruolo importante nella partita.
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