Esattamente trent'anni fa si celebrava l'ultima Giornata della Gioventù, uno degli ultimi eventi legati allo jugoslavismo e al titoismo in un paese ormai in via di disgregazione
Esattamente trent’anni fa, il 25 maggio, si celebrava l’ultima Giornata della gioventù (Dan mladosti) nel gigantesco stadio delle forze armate di Belgrado. Il canto finale era sempre quello: “Compagno Tito noi te lo giuriamo: dal tuo cammino mai devieremo”. Ma in realtà il paese stava già ormai “deviando” dal titoismo. E da se stesso.
La data della manifestazione rimandava ufficialmente al compleanno di Tito (che però era nato il 7 maggio, in realtà ricordava la fallita cattura nazista di Tito a Drvar) e l’evento – che comprendeva anche una staffetta attraverso il paese (Titova štafeta) – faceva parte di quella “religione civile” necessaria per la complessa costruzione della nazione jugoslava: che si riassumeva nell’ecumenico concetto della “fratellanza e dell’unità”.
Una “religione civile” (a partire dal pensiero di Rousseau) è sempre un insieme di miti, di simboli quasi religiosi, di culti, di rituali, di credenze e di pratiche. Secondo Vjekoslav Perica (Balkan Idols, 2002), tutto questo venne declinato in Jugoslavia in quattro modi. Il primo è dato dai miti dell’origine della nazione nella guerra antifascista di liberazione partigiana e nella rottura di Tito con Stalin nel 1948. Il secondo coinvolgendo nello spirito della “fratellanza e dell’unità” tutti i gruppi etnici e le minoranze e cercando di risolvere fratture e risentimenti (che la guerra aveva esasperato) in nome dello jugoslavismo e del socialismo. Terzo, il culto di Tito, narrato come padre fondatore, eroe nazionale e statista di caratura mondiale. Quarto, l’originalità del Movimento dei non allineati e – sul piano interno – del modello economico dell'autogestione.
La “staffetta di Tito” iniziò già nel 1945 per poi strutturarsi dal 1957 con il nome di “Giornata della gioventù”. L’idea era di celebrare al tempo stesso la gioventù (i Pionieri), che in tutti i regimi politici “radicali” simboleggia “l’umanità nuova” impegnata a costruire un modello alternativo di società; poi la corsa attraverso i territori delle sei repubbliche e delle due province autonome collegava dinamismo e sportività con l’attualizzazione anche fisica della “fratellanza e dell’unità”; infine il bastone (ovvero il testimone della staffetta) conteneva messaggi augurali a Tito, che lo riceveva con una grandiosa cerimonia di stile olimpico allo stadio Partizan nutrendo così il culto della sua persona. Fu un fatto indubbiamente di massa: si calcola che nei 43 anni di vita dell’evento un terzo degli jugoslavi vi ha preso parte.
Nel 1980 la staffetta si fermò al centro ospedaliero di Lubiana dove era ricoverato Tito, ma il Maresciallo non accolse il bastone, che da allora fu consegnato al presidente della Lega dei giovani comunisti. Nel 1957 a recare il bastone fu il croato Miko Tripalo, che troveremo nel 1970 come protagonista della autonomistica “Primavera croata” e quindi espulso dal partito. Nel 1979 Tito ricevette per l’ultima volta il bastone da una studentessa di Priština che gli si rivolse in albanese mentre l’anno prima la staffetta partì dalle miniere di Trepča vicino a Mitrovica: dieci anni dopo le proteste di quei minatori kosovari contro Milošević segneranno l’agonia della Jugoslavia socialista.
Negli anni ottanta tutto comunque sembrò continuare come prima, in nome del rassicurante slogan “Dopo Tito, Tito”. In realtà nel 1987 si arrivò alla crisi decisiva: il gruppo artistico sloveno Novi kolektivizem suscitò un vasto scandalo producendo un manifesto per l’evento del 25 maggio che riprendeva una vecchia immagine nazista del 1936. Insinuando una sorta di similitudine perlomeno estetica tra regimi. Proprio in Slovenia era iniziata negli anni ottanta – all’inizio sul piano artistico, poi su quello propriamente politico - la critica all’establishment ed al titoismo con modalità sempre più corrosive e dissacranti (ne fu un esempio la rivista Mladina). Era la fine per lo spirito della "Giornata della gioventù" e della sua sottostante “religione civile”, che evidentemente convinceva sempre meno di fronte alle spinte centrifughe che montavano (l’anno prima era uscito il documento revanscista dell’Accademia serba delle scienze). Curiosamente il bastone dell’87, in plastica, riportava otto punti rossi che sembravano gocce di sangue, il sangue – si disse – che di lì a poco sarebbe stato versato nella disintegrazione degli anni novanta.
L’anno seguente la cerimonia – seppure in tono minore e senza staffetta – veniva ripetuta e si concludeva significativamente (e per sempre) sulle note del Bolero di Ravel, evitando le canzoni titoiste e perfino l’Internazionale. E solo due anni dopo anche il partito-stato si sfaldava in tanti partiti repubblicani con ben diverse mitologie etnonazionaliste.
Oggi, sul piano materiale, rimane un monumento allo stadio Partizan di Belgrado ed una raccolta di 20mila tra bastoni e messaggi beneauguranti dei giovani jugoslavi di allora al Museo belgradese di storia jugoslava. Ma rimane anche il ricordo – spesso “jugonostalgico” – di un periodo in cui sembrò che la “religione civile” jugoslava funzionasse, che il 25 maggio una gioventù “nuova” celebrasse una straordinaria palingenesi balcanica. Una utopia forse ingenua che non maturò mai in eutopia, ma anzi, negli anni novanta, si trasformò in distopia, come sappiamo.
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