Mila Turajlić (screenshot youtube)

Mila Turajlić (screenshot youtube)

Lo scorso giugno, nell'ambito della Radical Film Network Conference 2024, la regista Mila Turajlić ha presentato al Matadero Madrid il documentario “Non-Aligned: Scenes from the Reels of Labudović”. Un’intervista

07/08/2024 -  Marc Casals

(Originariamente pubblicato dalla rivista on line Ctxt , il 9 luglio 2024)

La serba Mila Turajlić (Belgrado, 1979) è una delle documentariste più importanti del cinema balcanico. Tra i suoi lavori maggiormente premiati a livello internazionale “Cinema Komunisto” (2010), sul ruolo del cinema nella Jugoslavia socialista; “The Other Side of Everything” (2017), la Serbia dal secondo novecento ai giorni nostri narrata attraverso la confisca di una parte dell'appartamento di proprietà della sua famiglia, dove la stessa Turajlić è nata e cresciuta.

Nella sua ultima fatica, “Non-Aligned: Scenes from the Reels of Labudović”, la regista utilizza le immagini del cameraman del Maresciallo Tito per rivendicare l’importanza del Movimento dei Non Allineati durante la Guerra Fredda nonché il ruolo fondamentale svolto dalla Jugoslavia nella sua creazione e consolidamento.

Cominciamo dall'inizio. Come è arrivata al cinema?

Negli anni novanta facevo parte di Otpor! (“resistenza” in serbo), un movimento di opposizione al regime di Slobodan Milošević. Nel 2001, un anno dopo la caduta di Milošević, c'è stata una scissione tra chi voleva che Otpor! si trasformasse in un partito politico e chi difendeva la sua natura di movimento sociale. Non mi vedevo in nessuna delle due opzioni e fu allora che vidi La vita è un raccolto (2000) di Agnès Varda. È come se quel film mi avesse aperto una porta, mostrandomi un altro linguaggio in cui potevo esprimermi: quello del documentario politico.

Perché il documentario e perché la politica?

Il documentario è un genere che porta meno soldi e fama rispetto al cinema di finzione. Per questa ragione anche gli ego coinvolti sono più contenuti: chi vuole calcare i tappeti rossi non lavora certo nel mondo dei documentari. Ho partecipato a diversi film di finzione, tra cui Apocalypto di Mel Gibson (2006) dove lavoravo come responsabile di trucco e acconciature del cast. In questa categoria siamo stati candidati all'Oscar. Tuttavia, proprio a seguito di questa esperienza ho capito che nei film di finzione si gira solo ciò che è già stato precedentemente concepito. Girare un documentario rappresenta invece un'avventura, a volte più interessante del documentario stesso. Per quanto riguarda il perché della politica, credo che tutta l'arte sia politica. Ogni opera artistica è, in senso lato, sempre anche un atto politico.

Finora tutti i suoi documentari hanno esplorato aspetti un po' dimenticati della storia della Jugoslavia. Che rapporto ha con l'identità jugoslava, con uno Stato che non esiste più?

Nel 1991, quando è iniziata la disgregazione della Jugoslavia, avevo 11 anni e quando il Paese è scomparso anche nominalmente ne avevo tra i 23 e i 24. Ho quindi vissuto quel dramma per più di un decennio. Inoltre, provengo da una famiglia profondamente jugoslava, fin dalla generazione del mio bisnonno il quale ha contribuito alla creazione della Jugoslavia in quanto rappresentante della minoranza serba di Croazia. Naturalmente la gente si sorprende quando spiego che la mia famiglia è sempre stata filo-jugoslava ma allo stesso tempo anticomunista. Potremmo definirci socialdemocratici di sinistra. Mi sento molto a mio agio con l'identità jugoslava: appartengo all'ultima generazione di pionieri, i boy scout di Tito, e quando vado in Slovenia a sciare o sulle spiagge dell'Adriatico non ho la sensazione di essere all'estero. Anzi, spesso dimentico a casa il passaporto.

Come è nato il suo interesse per il Movimento dei Non Allineati?

Nel 2013 sono andata a presentare Cinema Komunisto a un festival ad Algeri e, durante una cena, eravamo seduti a tavola con un regista proveniente dal Vietnam, un altro dal Senegal, due dall'India, uno dalla Palestina, un altro dall'Egitto... Abbiamo parlato di politica e mi sono resa conto che eravamo una specie di tribù perduta che parlava la stessa lingua. Mi interessava capire cosa spingesse una persona nata in India, Indonesia, Ghana, Bolivia o Jugoslavia a concepire il mondo nello stesso modo, i rapporti di forza, le tensioni tra centro e periferia, l'imperialismo, i destini dei Paesi con un peso geopolitico minore... Per me questo linguaggio comune è l'eredità del Movimento dei Non Allineati e volevo spiegare il perché di questa comprensione reciproca.

Come ha conosciuto Stevan Labudović, il protagonista del documentario nonché uno dei cameraman di Tito?

A quel festival di Algeri, Cinema Komunisto vinse il primo premio, così fui invitata a tornare per l'edizione successiva. Allora ricorreva il 60° anniversario dello scoppio della guerra d'indipendenza algerina, durante la quale Labudović – per conto del governo jugoslavo – ha trascorso tre anni e mezzo come cameraman per il Fronte di Liberazione Nazionale. Per questa ragione fu invitato anche lui al festival. Avevo portato con me la mia macchina fotografica, mi sono avvicinata e gli ho detto: “Signor Labudović, anch'io sono di Belgrado come lei, le dispiace se la riprendo in questi giorni?”. Lui ha accettato ed è così che tutto ha avuto inizio. A Belgrado inizialmente non avevo intenzione di essere la responsabile delle riprese bensì di coinvolgere qualcun altro. Il nostro rapporto personale era però diventato così intenso, lui aveva una tale passione per il cinema che ho pensato fosse interessante catturare questa trasmissione di conoscenze, questa solidarietà intergenerazionale tra noi due. L'ho così filmato per tre anni, fino alla sua morte.

Ci racconti qualcosa di questi tre anni.

Ho scoperto che Labudović aveva un approccio molto onesto rispetto alla natura del proprio lavoro, che consisteva nel filmare quella che allora veniva chiamata “propaganda ideologica”: gli imperialisti filmavano la loro propaganda e la Jugoslavia rispondeva con la propria contro-propaganda. In effetti, l'agenzia per cui Labudović lavorava dipendeva direttamente dal governo. Era quindi una sorta di “soldato delle immagini” che combatteva sul fronte della propaganda durante la Guerra Fredda. Perfettamente consapevole del ruolo propagandistico svolto dalle sue immagini, non aveva problemi a parlare del loro significato politico. Allo stesso tempo, Labudović non fu scelto a caso per filmare Tito, ma perché era uno dei migliori cameraman della Jugoslavia. Nei suoi film ci sono inquadrature, composizioni, scelta rispetto ai momenti precisi e posizioni della macchina da presa di un tale livello che, per me, indagare su di essi è stata una lezione di cinema.

Oltre a seguire le peregrinazioni di Tito nel ruolo di forza trainante del Movimento dei Non Allineati, Labudović fu inviato a filmare la guerra d'indipendenza algerina per il Fronte di Liberazione Nazionale. Il documentario Ciné-Guerrillas, uscito in concomitanza di Non-Aligned nel 2022, tratta della guerra d'Algeria e di come questa lo abbia segnato.

Ho iniziato a lavorare con Labudović pensando a Non-Aligned, ma quando ho capito quanto fosse conosciuto in Algeria, ho iniziato a filmarlo con i suoi “compagni d'armi”. A quel punto mi sono resa conto di avere tra le mani due film invece di uno solo. Ciné-Guerrillas parla di come il Fronte di Liberazione Nazionale abbia usato il cinema per ottenere la propria vittoria a livello diplomatico. Tuttavia, sentivo che questa storia non doveva essere raccontata da me, bensì da Labudović stesso nonché dai suoi compagni algerini, per questa ragione ha una struttura diversa rispetto a Non-Aligned. Il rapporto di Labudović con l'Algeria era la cosa più importante della sua vita, persino più importante dell'essere il cameraman di Tito.

Quando è morto, nel 2017, ho filmato il suo funerale: la cappella funeraria è stata allestita presso l'ambasciata algerina a Belgrado e l'esercito algerino ha inviato in Serbia un'unità per montare la guardia davanti alla bara, drappeggiata con la bandiera algerina. È stata l'Algeria a dare un senso all'esistenza di Labudović.

Parliamo di Tito. C'è una scena del film in cui Labudović filma il maresciallo e quest'ultimo lo cerca con gli occhi. È noto quanto Tito tenesse alla sua immagine. Infatti, tra le tante cose, era quasi una star del cinema....

Penso che Tito sia stato anche più di una star del cinema: è stato un regista che ha diretto la storia della Jugoslavia come un buon film. Girando Cinema Komunisto ho scoperto quanto seguisse da vicino la realizzazione di film come Sutjeska, dedicato a una battaglia della Seconda Guerra Mondiale a cui aveva partecipato in prima persona. Durante i colloqui che ho avuto con Veljko Bulajić, il principale regista di quei grandi film partigiani a partire proprio da Sutjeska, ciò che emergeva di più interessante era proprio legato a questo tema: l'enorme consapevolezza di Tito rispetto a ciò che costituiva una narrazione politica. Spesso era lui stesso a dire ai cameraman cosa riprendere. Inoltre non si perdeva un solo cinegiornale. Davanti alla telecamera, soprattutto quando viaggiava in Africa per promuovere il Movimento dei Non Allineati, diventava l'incarnazione politica della Jugoslavia utilizzando alla perfezione la diplomazia performativa.

Nel film lei cita l'intellettuale marxista indiano Vijay Prashad: “Il Terzo Mondo non è un luogo, è un progetto”. Contrappone anche l'esultanza della sessione ONU del 1960, in cui sedici nuovi Paesi africani entrarono a far parte dell'Organizzazione, con una plenaria dei giorni nostri in cui nessuno ascolta gli oratori e molti delegati addirittura dormono. Quali aspetti del Movimento dei Non Allineati ritiene debbano essere recuperati nel nostro presente?

Anche se non compare nel film, ho intervistato il diplomatico algerino Lakhdar Brahimi, un uomo con una carriera enorme alle spalle: faceva parte tra l'altro della delegazione algerina al Vertice dei Non Allineati di Belgrado del 1961, con cui si apre il mio documentario. Di recente ha ricoperto il ruolo di inviato speciale delle Nazioni Unite in Siria quando è scoppiata la guerra nel 2011. Nell'autunno del 2022 ci siamo incontrati e mi ha detto una cosa molto interessante: “Fino all'inizio di quest'anno, il tuo soggetto era pressoché folkloristico; ora ha assunto un carattere politico”. Era da poco iniziata la guerra in Ucraina, fu per quello che mi disse quelle parole e credo avesse ragione. La situazione geopolitica è cambiata profondamente negli ultimi anni e con essa il ruolo delle Nazioni Unite. Dopo il bombardamento della Jugoslavia nel 1999 e la guerra in Iraq nel 2003 era diventata un'Organizzazione svuotata di ogni significato, ma la situazione a Gaza ha reso le risoluzioni delle Nazioni Unite di nuovo importanti dando un nuovo senso all'agire di questa Organizzazione. Si è aperto insomma un altro capitolo.

Cerca di raccontare la grande Storia attraverso le persone che l'hanno vissuta.

Per me le storie orali sono molto importanti. Il mio primo lavoro nel cinema e nella televisione è stato per una casa di produzione diretta da Paul Mitchell, il regista del famoso documentario della BBC The Death of Yugoslavia (1995). Quel documentario ha istituito un nuovo formato in cui non parlano né storici né teorici, ma solo coloro che hanno partecipato agli eventi storici in questione. Questo è il formato che ho poi io stessa adottato. Mi piace inoltre portare i miei intervistati direttamente nei luoghi in cui si sono svolti gli eventi, in modo da attivare i loro meccanismi di memoria. Li seguo anche per anni in modo da conquistare la loro fiducia: vedono che sono rigorosa e poi si aprono.

In molti casi ero consapevole di stare raccogliendo le loro ultime testimonianze. Per questo ho accumulato una quantità enorme di materiale: lo definirei un “archivio fortuito” che va ben oltre il girato necessario per realizzare un film. Sin da giovane mi sono accorta di quanto velocemente la memoria legata a eventi di pubblico interesse possa essere cancellata, in che modo tutto ciò che è stato costruito in mezzo secolo possa essere buttato via nel giro di pochi giorni. Forse è proprio da qui che nasce il mio bisogno di preservare, documentare, archiviare.

Ci saranno altri film tratti dai “Labudović Reels”?

Il progetto continua, ma non più sotto forma di film bensì come progetto di ricerca. Organizzo dei workshop con giovani cineasti dei Paesi del Movimento dei Non Allineati in cui proietto spezzoni dalle bobine di Labudović. Poi filmo i partecipanti per raccogliere le loro idee e la loro lettura politica di queste immagini. Ho realizzato i primi workshop online in Ghana, Etiopia e Algeria durante la pandemia e poi in loco in Egitto e Marocco. A ottobre farò il terzo in Mozambico.

Durante i primi workshop ho assistito a momenti molto emozionanti. In Sudan ad esempio, quando ho fatto vedere i nastri girati da Labudović a Suliman Elnour, uno dei padri del cinema sudanese. Era fuggito dal Paese a causa della guerra e ho ascoltato i suoi commenti sulle immagini di Labudović sapendo che l'archivio della cineteca sudanese era stato distrutto: tutte quelle immagini di Khartoum non esistevano più.

In un’altra occasione ho mostrato a un regista congolese un nastro girato da Labudović nel suo paese. Il regista a un certo punto indica e dice: “Questa è la vedova di Patrice Lumumba”.
Grazie a questo genere di situazioni il progetto va oltre i due film: si è trasformato in un intero universo che sta iniziando a essere proiettato nei circuiti del cinema d'autore con il titolo Non-Aligned Newsreels. È un’esperienza molto potente che spero di replicare e far crescere nel futuro.


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